Un pugno di lettere
sul naso del Poeta

Pier Luigi Vercesi
Il naso di Dante
Neri Pozza, Vicenza, 2018

pp.171, € 13,50

Pier Luigi Vercesi
Il naso di Dante
Neri Pozza, Vicenza, 2018

pp.171, € 13,50


Il ritratto, attribuito a Giotto, di Dante Alighieri giovane, dai lineamenti (e dal naso) molto più delicati ed efebici di quelli che siamo abituati ad associare al Poeta, è il punto di partenza del libro di Pier Lugi Vercesi, Il naso di Dante, che potremmo definire un saggio che si legge come un romanzo (ma non è un romanzo), dedicato non direttamente alla vita di Dante, ma a una serie di appassionati/studiosi dell’opera dell’Alighieri -da Gabriele Rossetti a Luigi Valli- che di essa hanno fornito letture e interpretazioni diverse, innovative, eccentriche: in una parola, i dantisti eretici, esoterici o devianti, come vengono ancora oggi liquidati da certe Vestali accademiche del Culto dantesco.
Il libro nasce, per ammissione dello stesso autore, da un ritrovamento casuale: un plico di lettere, circa 200, datate Firenze via Ponte Vecchio 2 (l’antica magione dei Templari fiorentini), provenienti dall’archivio di Giovanni Antonio Maggi, filologo milanese della prima metà dell’Ottocento scritte quasi tutte in inglese, da un eccentrico collezionista inglese, Seymour Kirkup, a diversi interlocutori fra i quali Gabriele Rossetti, il primo grande alfiere dell’interpretazione esoterica dell’opera dantesca. Kirkup riproduce in un suo disegno quel ritratto quasi efebico di Dante, dai lineamenti più morbidi e soprattutto con un naso meno accentuato e volitivo del solito:

“Una mattina d’ottobre 1840, Seymour Kirkup si presentò al portone del palazzo del Podestà avvolto in un mantello, nonostante il clima ancora tiepido. Nascondeva una copia del Convivio di Dante, una scatola di legno con acquarelli e alcuni fogli di carta trasparente come quelli usati alla Royal Academy. Gli aprì il guardiano di turno; evidentemente lo attendeva; si scambiarono cenni d’intesa, l’inglese estrasse di tasca un sacchetto e glielo consegnò (…) Kirkup esplorò le pareti e si avvicinò a quella dalla quale era riemerso l’affresco del Giudizio Universale. In un angolo riconobbe il volto: Dante, giovane, ventott’anni al massimo, bello, quasi femmineo. A Gabriele Rossetti scrisse: «Un Apollo con le fattezze di Dante»”.

Seymour Stocker Kirkup è uno dei personaggi più affascinanti, crocevia di questa vicenda che unisce storia dell’arte, Dante, esoterismo, filologia. Nato nel 1788 da un importatore e intagliatore di diamanti londinese, Kirkup visse in larga parte della rendita lasciatagli dal padre, che gli permise di dedicarsi ai suoi interessi pittorici e di collezionista d’arte. Frequentatore assiduo della Royal Academy, devoto ammiratore di William Blake, Kirkup conobbe personaggi come John Keats, Lord Byron, Edward John Trelawny, e nelle lettere scritte dal 14 novembre 1862 al 13 marzo 1870 rievoca a un amico “le vicende dantesche che lo videro testimone negli oltre cinquant’anni vissuti a Firenze; gli svela  di aver «fedelmente trascritto i dialoghi avuti con lo spirito di Dante» in otto quaderni; e gli racconta i retroscena della sua principale impresa, la scoperta del ritratto giovanile del Poeta dipinto da Giotto”.

Dante secondo l’artista Giovanni Manzoni Pizzalunga nell’opera realizzata per la mostra a Ravenna (2016) Il Volto di Dante, per una traduzione contemporanea.

Un Dante inedito
Il profilo quasi efebico di Dante spicca, a fianco di un’altra figura, quella di Brunetto Latini, maestro dell’Alighieri, all’interno del ciclo di affreschi sul Giudizio Universale visibile nella Cappella del Podestà (Bargello) di Firenze: è una delle immagini più antiche che abbiamo del Poeta, il ritratto di un uomo giovane, forse ventotto/trentenne, età più o meno corrispondente alla stagione dell’amore sublimato e mistico per Beatrice narrato nella Vita Nova:

“L’affresco rappresenta fedelmente il volto di Dante da giovane, prima dell’esilio, una versione di lui nuova e inedita. Tutti i ritratti finora conosciuti lo mostrano vecchio e sono stati copiati dalla maschera mortuaria, alcuni meglio, altri peggio. Molti non vale nemmeno la pena di menzionarli”.

Sappiamo quanto il ritratto di Dante, e soprattutto il suo inconfondibile volto, siano alla base del suo mito, del suo successo perdurante ancora oggi nell’immaginario contemporaneo della cultura pop, in tutti i suoi ambiti, dal cinema al fumetto. Siamo abituati a un’immagine del Poeta più matura e vissuta, quale ci è stata resa da una tradizione ritrattistica affermatasi già dal Quattro-Cinquecento: un Dante con i lineamenti del volto duri, spigolosi, l’espressione più o meno corrucciata, il naso pronunciato, il mento sporgente, secondo un cliché che ritroviamo, pur nelle differenze di stile dei singoli artisti, nelle versioni di Domenico di Michelino, Luca Signorelli, Sandro Botticelli, Raffaello, fino  alla celebre incisione di Gustave Doré (1860), che Kirkup riteneva più caricatura che vero ritratto, tutti probabilmente influenzati dalla descrizione del Boccaccio nel Trattatello in Laude di Dante. Il Dante del nostro immaginario non è quello giovane di Giotto, ma l’uomo maturo e orgoglioso che campeggia sull’edizione commentata da Cristoforo Landino e Alessandro Vellutello nel 1564, denominata, non a caso, “del Gran Naso” o “del Nasone”; o il Dante raffigurato nei “Sei poeti toscani” di Giorgio Vasari.

I Fedeli d’Amore, fra setta politica e corrente mistica
Gabriele Rossetti, uno dei protagonisti di queste corrispondenze epistolari di Kirkup, è considerato uno dei padri moderni del filone esoterico nell’interpretazione delle opere di Dante, e soprattutto della teoria dei Fedeli d’Amore, espressione che Dante stesso usa nella Vita Nova (I, 20) per salutare i destinatari del sonetto A ciascun’alma presa. Carbonaro e rosacroce, patriota e poeta, esule in Inghilterra sin dal 1824 (morì a Londra nel 1854), Rossetti non è oggi ricordato per i moti napoletani del 1820, né per i suoi versi patriottico-civili raccolti dal Carducci, ma per i suoi scritti sull’opera di Dante che non ebbero grande fortuna soprattutto editoriale. Delle sue tesi sulla Beatrice dantesca si appropriò Eugène Aroux che le espose nel suo Dante héretique, révolutionnaire et socialiste (1854). Una redazione completa de I Ragionamenti sulla Beatrice di Dante (1842) verrà stampata solo nel 1935 a Imola. Per fortuna, alcune tesi rossettiane riguardanti il significato simbolico ed esoterico di Beatrice verranno riprese, approfondite e corrette da studiosi come Francesco Perez che nella Beatrice Svelata (1865) ricollega la Beatrice dantesca alla Sapienza Santa, sostenendo, così, l’inconsistenza, oltre che l’inesistenza, della Beatrice storica e carnale.

Nuove visioni di Dante. da sinistra, opere di Davide barco, Michele Brutomesso e Lisa Gelli per la mostra Uno, nessuno e centomila volti (Ravenna, 2018).

Le teorie rossettiane verranno riprese, nel Novecento, da Luigi Valli in un libro epocale (Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore) uscito nel 1928 e che reca la dedica a Ugo Foscolo, Gabriele Rossetti, e Giovanni Pascoli, “i tre poeti d’Italia che infransero i primi suggelli della misteriosa opera di Dante” (Valli, 1988).
Gabriele Rossetti sosteneva che i poeti dello Stilnovo, da Guido Guinizzelli a Dante stesso, memori e debitori di una tradizione letteraria risalente alla poesia cortese provenzale, poi diffusasi in Italia per tramite della corte di Federico II, utilizzassero un linguaggio amatorio a doppio senso per velare ben altri contenuti che, se formulati apertamente, avrebbero rischiato di far finire i poeti sotto il torchio della persecuzione. I Fedeli d’Amore dovevano essere, secondo Rossetti, una vera e propria setta di pretto stampo ghibellino, fortemente anticlericale, e molto vicina, almeno idealmente, ad alcune eresie, come il Catarismo, combattute violentemente dalla Chiesa fra il XIII e il XIV secolo. Per fare qualche esempio: quando Guido Guinizzelli, e presumibilmente anche Dante, scrivevano “Donne” intendevano “gli iniziati alla setta”; “Amore” indicava la Sapienza iniziatica, “Piangere” significava simulare fedeltà alla Chiesa; il “saluto” equivaleva all’iniziazione, “dormire” a “essere in errore”, mentre “Pietra” (e qui ricordiamo le canzoni petrose di Dante) alludeva alla carnalis Ecclesia. Luigi Valli, che fu, insieme con Alfonso Ricolfi, lo studioso che più approfondì la questione nel Novecento, non seguì Rossetti su tutto. Precisa Vercesi:

“L’errore fondamentale di Rossetti fu di individuare nei Fedeli d’Amore un movimento grettamente politico e ghibellino, mentre fu un movimento profondamente cattolico nello spirito, per quanto diretto a contrastare la corruzione della Chiesa carnale. Nulla a che vedere con l’individualismo protestante, né con la massoneria. malgrado qualche lontana analogia comune a quasi tutti i movimenti segreti e iniziatici”.

La teoria della Croce e dell’Aquila
Il libro più importante del Valli, Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, uscì nel 1922, data drammatica per l’Italia: l’anno della marcia su Roma, inizio della presa fascista sul paese. Valli, riprendendo un’intuizione di Giovanni Pascoli, sviluppa e approfondisce in chiave strutturale la dialettica tra Croce (simbolo della salvezza spirituale dell’umanità sulla base del messaggio cristiano su cui si fonda la Chiesa spirituale) e Aquila, simbolo dell’Impero e di un potere universale finalizzato a garantire, attraverso un Imperatore giusto e santo, quella pace civile e sociale che sola avrebbe condotto l’umanità verso l’altra e superiore salvezza, quella spirituale. La perfetta società si raggiunge quando Croce e Aquila non sono in conflitto tra loro e soprattutto restano nei loro rispettivi campi d’azione. Dante allude esplicitamente a questo tema politico-filosofico nel canto di Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-111):

Soleva Roma, che’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro inseme
per viva forza mal convien che vada;
(Purg. XVI, 106-111)

I due “Soli” sono Papato e Impero, Croce e Aquila. Se i due Soli non sono indipendenti e rispettosamente cooperanti per la beatitudine, spirituale e terrestre, l’individuo e la società deragliano. Questa teoria nasce dall’elaborazione di uno dei cardini del pensiero di Dante che riteneva, in linea con l’etica aristotelica, la vita contemplativa superiore a quella attiva; tuttavia, e qui sta l’attualità e l’originalità di Dante, senza percorrere bene la strada della vita attiva l’uomo non può giungere alla beatitudine spirituale. E chi può garantire il sereno e giusto percorso nella vita attiva? L’Imperatore, tramite la giustizia. E questa visione è anche alla base del templarismo dantesco, sul quale si sofferma e spazia il saggio del sacerdote cistercense Robert L. John, docente di filologia romanza a Vienna, uscito nel 1946 in tedesco, con l’autorizzazione ecclesiastica, ma pubblicato in traduzione italiana solo nel 1987 con il titolo Dante Templare (l’edizione originale recitava semplicemente Dante).

Dante rivisitato per la mostra a Ravenna (2016) Il Volto di Dante, per una traduzione contemporanea. Da sinistra opere di Max Petrone, Il Pistrice e Davide Fabbri.

Luigi Valli fu allievo, anche nel senso stretto di discente, di Giovanni Pascoli, che pubblicò tre studi su Dante (Minerva oscura, Sotto il velame e La Mirabile visione, usciti tra il 1898 e il 1904) mai presi del tutto seriamente dalla critica storica. Valli, in particolare, e come accennato prima, fu anche tra i primi dantisti in Italia, nel Novecento, ad aprire gli orizzonti dello studio e della visione alle letterature orientali, sulla scorta di una tradizione saggistica che include studiosi della seconda metà dell’Ottocento, come il palermitano Francesco Perez, sostenitore di una Beatrice puro simbolo, e il principe dell’esoterismo, René Guénon. E nove anni prima del libro di Valli, l’arabista spagnolo Miguel Asín Palacios pubblicò (1919) La escatologia musulmana en la Divina Commedia, uno studio, anch’esso documentatissimo, nel quale Palacios sostiene le analogie tra la visione ultraterrena della Commedia e le narrazioni dall’al di là legate alle ascensioni di Maometto, aprendo un fronte polemico mai del tutto pacificato: quello delle influenze arabe sull’opera di Dante. Il libro di Vercesi si chiude proprio con l’accenno al ritrovamento nel 1949 della traduzione in latino e francese del Libro della Scala:

“Il dantista Ugo Monneret de Villard nel saggio Lo studio dell’Islam in Europa nel XII e nel XIII secolo, del 1944, accenna due manoscritti della prima metà del Duecento, uno conservato alla Bodleian Library di Oxford, l’altro alla Bibliothéque National de France, a lui inaccessibili a causa della seconda guerra mondiale. L’orientalista Enrico Cerulli si mise sulle loro tracce e li pubblicò nel 1949. (…) La diffusione di quel libro in Occidente si doveva ad Alfonso X il Saggio, presso la cui corte soggiornò Brunetto [Latini]: lo fece tradurre in castigliano e poi ne commissionò una traduzione in latino e una in francese a Bonaventura da Siena, esule toscano ghibellino. Il dibattito ancora in corso, ma ora è più difficile negare che Dante ebbe accesso alle fonti islamiche”.

La cultura arabo-islamica giunse in Occidente attraverso la Sicilia, la dominazione araba della Spagna, durata cinque secoli, i rapporti commerciali e le crociate. Il maestro di Dante, Brunetto Latini, fu ambasciatore alla corte di Alfonso X il Saggio nel 1260. E il fatto che Dante non sapesse l’arabo non esclude a priori la conoscenza diretta o indiretta di narrazioni relative all’isra’ e del mi’raj di Maometto che cominciarono a circolare nell’VIII secolo. Anche se, e giova ripeterlo, erano sufficienti ad ispirare la visione dell’al di là dantesco, dall’Inferno al Paradiso celeste, la catabasi virgiliana narrata nel VI libro dell’Eneide, e il Somnium Scipionis, per tacere delle (rozze, a confronto con la Divina Commedia) visioni della tradizione medievale, da Bonvesin della Riva a Jacopo da Varagine, dalla Visio Tungdali alla navigazione di San Brandano.

Da sinistra opere di Rita Petruccioli, Van Orton e Riccardo Guasco per la mostra Il Volto di Dante, per una traduzione contemporanea (Ravenna, 2016).

Per rimanere nell’ambito delle possibili analogie tra Oriente e poesia di Dante, basta l’immagine della bellissima donna angelo, Beatrice, che scende dal cielo in soccorso dell’anima giusta dell’amato, per accoglierla nel Paradiso: ricorda la figura erotico-salvifica della Daena, come fa notare Adriano Lanza (2004), più famigliare alla tradizione mazdea che a quella cristiana coeva a Dante.

Letture
  • AA.VV., Visioni dell’al di là prima di Dante, versioni poetiche di Maurizio Cucchi, Mary Barbara Tolusso, Giorgio Prestinoni, Fabrizio Bernini, Mondadori, Mondadori, 2017.
  • Lucia Battaglia Ricci, Dante per immagini, dalle miniature trecentesche ai giorni nostri, Torino, Einaudi, Torino, 2018.
  • (a cura di) Monica Berté, Maurizio Fiorilla, Sonia Chiodo, Isabella Valente, Le vite di Dante dal XIV al XVI secolo, iconografia dantesca, Salerno Editrice, Salerno, 2017.
  • Dante Alighieri, La Divina Commedia, testo critico a cura della Società dantesca italiana, con il commento scartazziniano rifatto da Giuseppe Vandelli, Milano, Milano, 1993.
  • Gabriele Rossetti, La Beatrice di Dante, ragionamenti critici, a cura di Maria Luisa Giartosio Courten, Atanor, Roma, 1988.
  • Gabriele Rossetti, Il mistero dell’amor platonico nel Medio Evo, 2 volumi, Milano, Luni, 2013.
  • Gabriele Rossetti, La vita mia, il testamento, a cura di Gianni Oliva, Carabba, Lanciano,2004.
  • Adriano Lanza, Dante eterodosso, Una diversa lettura della Commedia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2004.
  • Robert L. John, Dante templare, Hoepli, Milano, 1987.
  • Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam, l’escatologia islamica nella Divina Commedia, Luni, Milano, 2015.
  • Francesco Perez, La Beatrice svelata, Flaccovio, Roma, 2001.
  • Maria Pia Pozzato (a cura di), L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, Bompiani, Milano, 1989.
  • Luigi Valli, Il segreto della Croce e dell’Aquila, Luni, Milano, 1996.
  • Luigi Valli, Il linguaggio segreto dei Fedeli d’amore, Luni, Milano, 1994.