Senza essere come gli altri:
Milena Jesenská

Milena Jesenská 

Qui non può trovarmi nessuno
Traduzione di Donatella Frediani


Giometti & Antonello, Macerata, 2018, 

pp. 252, € 24,00

Milena Jesenská 

Qui non può trovarmi nessuno
Traduzione di Donatella Frediani


Giometti & Antonello, Macerata, 2018, 

pp. 252, € 24,00


Una piazza di Praga, una domenica di inizio secolo, la gioventù tedesca, la gioventù ceca, la polizia e colpi metallici di avvertimento, un uomo a terra, uno accanto a lui, la fuga di tutti gli altri dietro al sole, la stretta protettiva di una mamma alla figlia di otto anni dietro la finestra buia, le lacrime per quell’uomo e il suo coraggio di “stare diritto e porgere aiuto” (Wagnerová, 2004). Milena Jesenská (1896-1944) ha appreso fin da piccola, nella sfida di suo padre su quella piazza, il profilo dell’eroismo. E lo ha fatto un po’ suo. La conosciamo per uno dei più eleganti carteggi letterari, quello tra lei e Franz Kafka, quasi la si potesse ridurre alla destinataria muta di un inchiostro smarginato e un indirizzo senza nome.
Una risposta parziale.
Poi ci sono i feuilletons, i reportage politici, gli articoli, le sue lettere, a parlarci di un’altra Milena, protagonista della temperie culturale mitteleuropea tra le due guerre, da lei scavata e trasformata in lunghezze da percorrere, giudizi decisi, punti di domanda pesanti, mappe possibili, e l’irresponsabile quanto consapevole desiderio di appartenere a.

Dei suoi quattrocento articoli pubblicati su una dozzina di riviste, la casa editrice Giometti & Antonello di Macerata ha inteso restituirne una parte, fondata sull’antologia Alles ist Leben del 1984 dedicata a Milena, nella pregevole traduzione dal tedesco di Donatella Frediani. Qui non può trovarmi nessuno è una raccolta dai temi vari, dai più svagati ai più politici, senza dimenticare le otto lettere a Max Brod su Kafka, particolarmente notevoli nell’ascolto dell’altra voce di quel sentimento.
Lei, praghese di nascita, vive i primi anni del nuovo secolo all’ombra di una madre, malata e orfana di attenzioni coniugali, e di un padre, il professor Jan Jesensky, noto stomatologo ceco nonché impenitente patriottico e suadente animatore dei salotti cittadini, autocratico e illiberale soprattutto verso le scelte di Milena.
Sarà forse l’aspirazione all’attenzione paterna a spingere la giovane ad atteggiamenti polari, dai debiti contratti senza giusta causa ai fiori sottratti a una croce al cimitero, dal consumo irriverente di morfina agli abbracci lesbici, dalla Moldava profanata a bracciate allo sfoggio di abiti oltre moda nei caffè letterari dell’epoca. Tutto in una nazione divisa tra tedeschi e cechi, in confini sparsi a caso, secondo infausta delibera dei vincitori del primo conflitto mondiale e a tutto svantaggio dell’imperiosa Germania. Una distanza tra nazionalità più breve se misurata a passi da percorrere che a sguardi da conciliare.
Nel Caffè Arco l’incontro con intellettuali di spicco quali Brod, Kafka ed Ernst Pollak, ebreo di lingua tedesca, impiegato di banca, interlocutore letterario di prim’ordine, malgrado una frustrante inadeguatezza alla scrittura per destino avaro. Con lui è alchimia al primo saluto. Il volto di un’altra insurrezione al padre, lui antisemita convinto. Pollak è l’uomo per cui Milena si fa un giro di nove mesi in una clinica psichiatrica, perché, a parere del dott. Jesensky, il recupero del buonsenso ha il solo sapore della relegazione. Pollak è l’uomo per cui lascia Piazza Venceslao per una Vienna post asburgica dagli amari risvegli, senza il calore del carbone acceso, senza un pugno di farina, senza il tremolio di una candela, senza un paio di scarpe da riparo. Pollak è l’uomo del primo vero dolore, dopo le disattenzioni paterne, un dolore ad altezza cuore.

“Quando arrivai a Vienna, ero una ragazzina, non sapevo una parola di tedesco e non avevo un soldo. Pollak mi lasciò sola, nella città straniera, alla stazione, […] e andò dalla sua amante” (Wagnerová, 2004).

Un’intenzione presente e futura, quella di un matrimonio a intese divergenti e della poligamia come abitudine. La reazione possibile non passa ad altezza testa. Se non si muore del primo dolore, non esiste speranza di farsela passare. Si resta in piedi e si impara la resistenza sulla scena vuota, come fotografato negli scritti raccolti in Qui non può trovarmi nessuno. Ed ecco che Milena si concentra su altro e deplora in un articolo su Tribuna la lingua di quella città ospitante, troppo leggera per farsi ribelle, denunciare la fame e aggredire la frenesia di teatri, bar, cabaret dove si consuma l’ultimo spreco possibile.
Nella disperazione di quattro mura buie, mentre il marito rifiuta di mantenere Milena economicamente, la sola signora Kohler, portinaia dai gesti sgraziati ma schietti, le scortica di dosso il furore cieco del suicidio e rilancia con la cura amorosa delle sue dita ricurve, con il rammendo di qualche bottone saltato, la premura di un cavolo nel piatto a colazione, pranzo e cena. “Se dovessi emigrare in America lei sarebbe il mio bagaglio più ingombrante”, scriverà su Tribuna il 27 gennaio 1921. Perché, chi ti ricaccia una polpetta avvelenata dalla bocca, ti riconsegna ancora la primavera e un sentire nel cuore.

Nel 1919 arriva la giornata buona, ha il nome di Kafka. Milena è a caccia di guadagno, sente spesso dal marito parole promettenti su questo autore intravisto al Caffè Arco, ma tuttora nell’ombra della sua timidezza.
Si decide a una lettera in cui chiedergli consenso per la traduzione di alcuni suoi scritti dal tedesco al ceco. In più, un breve viaggio a Praga con Pollak le riserva il dono di conoscenze importanti, da cui parte anche la sua collaborazione con alcune riviste dell’epoca. La traduzione del racconto kafkiano Der Heizer (Il fochista) nell’aprile del 1920 è il debutto di un carteggio. Tredici anni di distanza, troppi chilometri di confine, un’identità di solitudine a ramificare le parole tra Milena e Franz.

“E non so come abbracciare […] la felicità che tu sei qui e appartieni anche a me. E dire che in fondo non amo te, ma piuttosto la mia esistenza donatami da te” (Kafka, 1988).

Un conforto garbato, che ripromette autostima a Milena e rende più sopportabile Vienna e il gaudente Pollak. Ma poi arrivano i vengo non vengo di Franz agli inviti della donna a passare per Vienna al rientro da Merano.

Arriva l’incontro senza incantesimo, la consapevolezza che, tra le righe delle lettere, le fosse saltato un pezzo, ovvero la natura di Franz, la sua inspiegabile paura di vita, di tutto e tutti, perfino di chiedere un permesso in ufficio per raggiungere lei. E l’amore immaginato diventa un verbo sottinteso in una frase senza senso. Kafka, che pure nei giorni viennesi le era diventato familiare, le ha svelato la sua “sensibilità spesso morbosa” (Brod, 2008).
Non più la garanzia contro il nulla del suo matrimonio, ma un nuovo impalpabile spettro. E il come va a finire riporta al marito Pollak.

“Franz non ha la capacità di vivere. Franz non guarirà mai. Franz morirà presto. […] Lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo”.

Così nella terza lettera a Brod. E oltre:

“Io invece avevo i piedi ancorati saldissimamente in questa terra, non ero in grado di abbandonare mio marito e forse ero troppo donna per trovare la forza di assoggettarmi a una vita che sarebbe stata, sapevo bene, la più rigorosa ascesi fino alla morte”.

Franz intuisce e le chiede di non scrivergli più. Ma con Pollak non dura e la separazione diventa silenzio. In questi anni, gli articoli pubblicati ci rivelano, ben più delle lettere a Brod, una donna stanca, ma testarda nella ricerca di una sua redenzione, di un qui non può trovarmi nessuno, fatto di piccole solitudini, angoli stentati, un violino sgraziato, un sentiero a un’ora dalla strada principale, due occhi accesi dalla carbonaia, un mangiafuoco, dei passeri alzati in volo dallo scampanellare di un tram. Un posto dove i desideri se li realizzi da sé, senza l’attesa di tempi migliori. È solo un sogno? Forse un prodigio di quelli che riempiono un istante sovrappensiero, come in quel confine privilegiato di una finestra. Sul Národný Listy del 27 settembre 1921 si legge:

 “Avete mai visto il viso di un detenuto dietro le sbarre di una prigione? Un viso tagliato dalla croce delle sbarre. Capirete allora che sono le finestre, non le porte, ad aprirsi sulla libertà”.

La finestra, come diapason di un desiderio a cui aggrapparsi per ristabilire un equilibrio e riprendere in spalla il coraggio, con il suo premio e il suo castigo.
Il coraggio è quello dei reportage politici del 1937-1939 sulla nota rivista di politica e cultura Přitomnost. Milena è a Praga dal 1925, ha contatti con il partito comunista fin dal 1931 ma rimane presto delusa dalle sue contraddizioni. Ora, un solo verso ne motiva i risvegli: “Il popolo è imbattibile se ognuno di noi è di granito” (Přitomnost, 30 marzo 1938). Con questa tensione, i reportage attraversano l’ascesa al potere del Führer, la fuga disperata in Cecoslovacchia degli avversari, soprattutto ebrei, l’annessione dell’Austria alla Germania, i democratici tedeschi scampati all’aggressione nazista dei monti Sudeti, la vessazione degli stessi in una Praga già minacciata dall’accordo di Monaco del 1938, fino all’invasione nazista del 1939. Con la lucidità di sempre, impastata di quello “stare diritto e porgere aiuto” appresi da bambina, Milena osteggia, si indigna, sostiene, implora, spera, fino all’ultimo dissentire nel Lager di Ravensbrük dove sconta la cospirazione contro il nazionalsocialismo.
Milena, un po’ più di un nome da epistolario d’amore.

Letture
  • Max Brod, Franz Kafka. Una biografia, a cura di Ervino Pocar, Passigli Editori, Bagno a Ripoli (Firenze), 2008.
  • Franz Kafka, Lettere a Milena, a cura di Ferruccio Masini, Mondadori, Milano, 1988.
  • Alena Wagnerová, Milena Jesenská, Archinto, Milano, 2004.