VISIONI / TRUE DETECTIVE


di Nic Pizzolatto / Fox Atlantic, 2014


 

Indeterminazioni e risvegli


di Adolfo Fattori

 

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“Ognuno è così sicuro del proprio essere reale, e che la propria esperienza sensoriale abbia costituito un individuo unico dotato di scopo, di significato. Sono così sicuri di essere qualcosa di più di una marionetta biologica. Beh, poi esce la verità e tutti si rendono conto che una volta tagliati i fili tutti cadono”.

Giusto per ribadire in quali luoghi lo spettatore sta per avventurarsi, Nic Pizzolatto, l’ideatore e sceneggiatore della serie Tv True Detective della Hbo, fa dire queste parole al protagonista, Rustin “Rust” Cohle (un monumentale, carismatico Matthew Mc Conaughey), in risposta alle domande del suo partner Martin “Marty” Hart (il bravissimo Woody Harrelson). I due stanno tornando – siamo nel 1995 – dal luogo del delitto su cui si preparano ad indagare per ben diciassette anni, anche se interrotti da una lunga pausa.

E ancora Rust, aggiunge:

“Siamo cose che si illudono di avere un sé, una secrezione di esperienze sensoriali e di sensazioni, programmati per avere la totale certezza che ognuno di noi è qualcuno, quando in realtà non siamo nessuno”.

Rust – o “Rusty” – indecifrabile e scostante detective, oracolare, sibillino, che proviene dal Texas, per spiegargli il suo punto di vista sul mondo e sulla vita, fa, insomma, inconsapevolmente, una brevissima lezione di fenomenologia a Martin, con cui lavora in Louisiana, dove è sbarcato dopo aver lasciato il Texas non si sa perché, sconcertando il partner, che invece condivide punti di vista molto più tradizionali e “istituzionali”, in un’area degli States dove la religione, seppur declinata in modi svariati, spesso inconciliabili, continua ad avere una presenza forte nel modo di pensare della collettività.

Il disperato disincanto di Rusty Cohle è il punto cardinale che mancava sulla mappa narrativa che Pizzolatto predispone nella prima puntata della serie per lo spettatore, insieme ad un paesaggio naturale desolato, brumoso, estraneo, ad un delitto raccapricciante – non il primo di una intera serie, si intuisce – ad un ambiente umano e sociale degradato e scostante, chiuso, opprimente, a performare e rimediare perfettamente il modo di pensare del poliziotto: il detective texano infatti – pur essendo un estraneo – sembra descrivere, nel suo monologo, alla perfezione le riflessioni cui può spingere, per riflesso, il luogo in cui si trova ad operare.

Una visione adamantina, monolitica, lucida quanto nichilista, senza appigli, senza ancoraggi. Le cose di cui si occupa: i crimini e i delinquenti; i luoghi in cui indaga: i bassifondi delle cittadine a ridosso di enormi e puzzolenti, incombenti complessi industriali, veri corpi estranei che appaiono come calati dallo spazio e le zone isolate, abbandonate, nelle campagne e nelle paludi del Bayou; le persone con cui lavora: colleghi presuntuosi e incapaci, se non corrotti. A cosa può far pensare questo universo, se non a un mondo privo di uno scopo, di un sistema di senso qualsiasi, fra quelli architettati in migliaia di anni dagli umani?

Solo che Cohle non ha bisogno dei paesaggi desolati delle terre basse della Louisiana, per elaborare la sua “visione del mondo”: ce l’ha già pronta, quando ci si trasferisce. E forse ci si trasferisce proprio per questo – per qualcosa che deve essergli capitato nella sua vita precedente, e di cui, naturalmente, non parla volentieri. Anzi, non parla.

Siamo in uno degli stati della Bible Belt, la “cintura della Bibbia”, quell’area degli Stati Uniti profondamente legata alla tradizione, al protestantesimo più rigoroso, al creazionismo, dove in alcuni stati la legislazione ancora prevede il carcere per chi – pur se spostato regolarmente e mentre si gode l’intimità delle mura domestiche – fa l’amore senza rispettare il rigore della “posizione del missionario”, e nelle biblioteche pubbliche e scolastiche sono vietate le opere di Charles Darwin, Bertrand Russell e così via..

Facendo però pubblica dimostrazione di virtù e privata pratica di vizi, a cominciare proprio dal detective Hart, che volentieri trascura la ancora giovane – e bella – moglie per ragazze altrettanto belle, ma senz’altro più giovani – comunque maggiorenni, sia chiaro, ci mancherebbe…

Uno – la Lousiana di True detective – di quei luoghi dell’immaginario torbidi, misteriosi, inquietanti, dove le credenze risalenti all’epoca degli schiavi neri si mescolano con le leggende dei bianchi discendenti dai francesi, e dove chiese istituzionali, sette protestanti, tele-religioni, culti sincretici come santeria e voodoo si contendono il primato e i credenti, ma sicuramente sono tutte unite nel combattere quello che telepredicatori e fondamentalisti considerano il Male a cavallo dei due millenni: il virus del razionalismo, del relativismo, del nichilismo, dell’ateismo… Morbi di cui, lo si capisce subito, proprio Rust è un campione.

Luoghi che sembrano non essere mai stati disinfestati dall’orrore soprannaturale – e men che mai dalle sue declinazioni secolari, quelle che lo hanno sempre incarnato e con cui sono state confuse: sadismo, pedofilia, crudeltà. Ma Rustin Cohle – ed è per questo che la polizia lo tollera e il suo partner lo asseconda – ha il “dono”: è un “mastino”, intuitivo e tenace. Riesce a vedere dove gli altri non vedono, e non molla mai una pista. E sa che, se è necessario, bisogna anche fare il “lavoro sporco” che consiste nello spulciare e rispulciare carte, rapporti, documenti, fotografie, alla ricerca del particolare che non torna, del dettaglio che non quadra…

Tant’è vero che – una volta trovato il presunto colpevole del delitto su cui indagava con Hart, e essersi fatto cacciare dal lavoro – torna dopo più di quindici anni in Louisiana, rintraccia il suo ex partner, con cui era finita malissimo, a botte, e lo convince a riprendere a indagare: tanti anni prima, hanno preso il colpevole sbagliato!

E così le indagini – di nascosto, quasi in clandestinità – riprendono, fino ad un finale parossistico e feroce, che però finalmente, in un “lieto fine” inatteso ma plausibile (una delle poche concessioni alla serenità di Pizzolatto), permette ai due di riconoscersi come affini, simili, amici. E che mostra, però, ancora una volta, quanto il male, anche quello con la “m” maiuscola, sia spesso mediocre, povero, familiare (sì, proprio Heimlich) – senza perdere in orrore, morbosità, alienità.

Il compito dei due detective non è semplice: alla difficoltà di trovare indizi e decifrarli, di cercare di immaginare chi potrebbe essere quello che appare come un fantasma, si aggiunge il sottile boicottaggio, se non l’evidente ostilità dei loro capi, in uno scenario che appare sempre più torbido e segnato da compromissioni, omertà, depistaggi… Insomma, una realtà, quella che appare a prima vista, ben diversa da ciò che accade veramente, sotto il velo delle apparenze, delle rispettabilità, della legge – degli uomini, ma anche di Dio, visto dove si svolge la vicenda.

A latere, in parallelo con le indagini, seguiamo poi la parabola personale di Martin Hart, uomo irreprensibile all’apparenza, marito infedele in realtà, marito della figlia di un ricco conservatore, padre di due adolescenti – e quindi mine vaganti sempre pronte ad esplodere.

Così che la fine dell’indagine del 1995 coincide con quella della famiglia di Hart e con la fine del sodalizio fra i due poliziotti.

Molti anni dopo – siamo nel 2012 – Rusty Cohle ricompare molto cambiato nell’aspetto: non ha più l’aria del ranchero ripulito, ma quella piuttosto patibolare di chi deve aver rischiato di fare una brutta fine: chiede ad Hart di riprendere, anche se sottotraccia, le indagini: hanno ammazzato la carogna sbagliata.

Il suo antico partner alla fine accetta, e i due scoprono – mentre i loro colleghi non li aiutano e la polizia di stato indaga su Rust – un mondo sempre più oscuro e morboso, violento e disumano. Fino al tenebroso e violentissimo finale.

Straordinario, True Detective, oltre che sul piano della sceneggiatura – rigorosa, spietata, prosciugata di tutto il superfluo, dilavata di ogni dettaglio superfluo – su quello della fotografia e delle location in esterni, in cui si passa dalla visione di monumenti alla civiltà tardo industriale a quella di ruderi fatiscenti, ormai invasi dalla vegetazione, risalenti alla conquista francese; e degli interni: le dignitose villette borghesi degli americani medi (in fondo anche i poliziotti ormai sono dei white collars con le loro scrivanie, i loro computer…), le casette a schiera – quasi dei bungalow – dell’edilizia popolare di periferia, rapidamente diventate luoghi di spaccio e rifugio per delinquenti.

Nel montaggio della serie due linee di racconto vanno avanti in parallelo: il punto di partenza è l’oggi, e gli interrogatori di Hart e Cohle da parte di due agenti della Polizia di stato che indagano proprio su Cohle. Le lunghe risposte dei due – i ricordi di Hart, i soliloqui di Cohle – ci parlano di loro, del loro passato durante le indagini, della loro identità attraverso continui flashback, fino a riunificarsi nel finale, quando saranno proprio i due agenti dello stato a salvare i due detective, rimasti feriti gravemente nelle ultime sequenze della caccia alla loro preda.

La storia accelera e rallenta, sottolineata dalle musiche di T Bone Burnett, performando una tensione che non si allenta mai, con momenti di straordinario cinema, come il lungo piano-sequenza dello scontro a fuoco fra due gang criminali in cui è coinvolto anche Rust Cohle, che per nutrire le sue indagini ha rispolverato una sua vecchia identità di infiltrato, rischiando naturalmente la pelle.

Nell’universo messo in piedi da Nic Pizzolatto trovano cittadinanza molti immaginari – e molti autori. Si riconoscono echi di Joe R. Lansdale, e non perché Cohle proviene dal Texas, ma per la continuità fra questo e la Louisiana, i loro paesaggi, le loro culture; del David Lynch di I misteri di Twin Peaks, (cfr. in questo numero), per l’atmosfera di estraneità che rimanda dalla natura lungo tutta la vicenda; di Howard P. Lovecraft (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 32): l’orrore soprannaturale è immanente, nella serie; del Jonathan Demme del Silenzio degli innocenti (2008), per la tensione sottesa a tutta la vicenda; di James Ellroy, nella capacità di lasciare immaginare l’universo oscuro, la inumanità degli assassini, così come nel costruire le figure e i comportamenti dei poliziotti.

Su tutti Rustin “Rust” Cohle, sempre distaccato, estraniato, quasi alieno, uno sciamano della giustizia e della caccia, nutrito da un’ossessione fredda, lucida, assoluta. Fatto più di pause di silenzio che di parole, perché nel suo carisma quasi oracolare deve sempre cercare le parole giuste per farsi capire. Un Eroe, senz’altro. Ma di tipo nuovo.

Dell’eroe elaborato dalla cultura di massa ha, o almeno fa intravedere, una ferita incurabile, originaria, un trauma che lo ha segnato in profondità. Ancora, dell’eroe ha il coraggio, il disinteresse, la dedizione, la scarsa attenzione per il giudizio degli altri.

Ma ha perso qualsiasi traccia di romanticismo, qualsiasi legame, almeno in apparenza, con la dimensione morale dell’eroe moderno – di cui le sue incarnazioni “di massa”, novecentesche, ancora si nutrono: è puro, come i suoi predecessori, ma nel senso di depurato, di tutto ciò che si aggiunge alla funzione fondamentale dell’eroe: la promessa che ha fatto a se stesso è combattere il Male, in tutte le sue forme, con tutte le armi a disposizione – e senza nessuna pietà. Come puntualmente accade. Come nella scena che virtualmente chiude la prima indagine, in cui Rusty Cohle decide di creare e spargere false prove dappertutto, nel rifugio dei pedofili che finalmente i due detective avevano rintracciato, per coprire il suo compagno che, inorridito da quello che aveva appena visto, spara a bruciapelo, senza pensarci due volte, alla testa di uno dei criminali ormai arresosi, inerme, inginocchiato a terra (guadagnandosi, crediamo, il plauso e la comprensione di tutti gli spettatori). Ultima espressione dell’Uomo dell’Umanesimo, e del senso dell’Onore umanista, in un mondo dove il senso non c’è più.

La funzione, insomma, senza il senso che per secoli gli era stata attribuita. Nichilismo puro. Forse uno dei primi esempi di eroe del postumanesimo – prima dei replicanti, degli androidi, dei cloni, cui a volte pensiamo quando usiamo il termine “postumano”, alla ricerca di oggetti che lo riempiano, senza fermarci ad una progressione quantitativa (protesi e mutazioni che aumentano le capacità umane), ma pensando ad uno strappo qualitativo: qualcosa che cambia in noi, umani fatti di sangue, carne, emozioni, affetti.

Rusty in questo nuovo Olimpo di eroi che si va formando non è solo: c’è l’ematologo Dexter (cfr. in questo numero), al servizio di una giustizia anche nel suo caso assoluta, e c’è un altro eroe di tipo nuovo, in un’altra serie tv, Breaking Bad (2013), trasmessa dalla Amc fra il 2008 e il 2013, praticamente coetanea di True Detective, e in un certo qual modo speculare a questa.

Il protagonista è Walter White (Bryan Cranston), professore di chimica di liceo a Albuquerque (siamo sempre nel sud depresso degli Usa, in New Mexico), e brava persona, che si ritrova con un figlio affetto da paresi cerebrale, la moglie incinta, se stesso con un cancro che gli lascia ben poco da vivere – e un’assicurazione sanitaria che vale ben poco. Walter è un uomo mite, che tende a subire e abbozzare, anche di fronte alle prepotenze e al teppismo che lo circonda. Insomma un perdente, uno sfigato.

E a un certo punto, esplode: manda a quel paese il titolare dell’officina dove fa un secondo lavoro per pagare le cure al figlio, bastona un teppista che aveva preso in giro proprio il ragazzo, e prende la decisione della svolta.

Visto che ha assistito all’arresto di un chimico durante un’irruzione in una villetta dove si produce metamfetamina, e scopre che il complice che la spaccia è un suo ex alunno, Jesse Pinkman (Aaron Paul), ha un’illuminazione: decide di sostituire l’arrestato e entrare nel business della droga. Insomma, come per ogni crimine, ha il movente (un basso reddito), l’arma (le sue competenze scientifiche), l’opportunità (l’arresto del chimico del suo ex alunno).

A questo punto, rintraccia Jesse e lo ricatta: o si mettono d’accordo, e lui gli produrrà la migliore metamfetamina della zona, oppure lo fa finire in galera…

Pickman non si fida, si rifiuta, cerca di mandarlo via, ma alla fine cede. Ma non capisce: qual è il motivo del cambiamento di White? Non crede ai motivi che questi gli fornisce, vaghi e banali. Insiste. Alla fine Walter taglia corto: “Mi sono svegliato!”

Insomma, il professore ha capito: non ha senso essere onesti. Si è svegliato alla realtà del mondo. Diventa Heisenberg, assumendo il nome di uno dei più grandi fisici teorici del Novecento, lo scopritore del principio di indeterminazione, uno dei capisaldi della fisica postnewtoniana. In parole povere, il principio di indeterminazione da un punto di vista concettuale significa che l'osservatore non può mai essere considerato un semplice spettatore, ma che il suo intervento produce degli effetti non calcolabili, e dunque un'indeterminazione che non si può eliminare. Una mazzata, proveniente dalla scienza pura, che accompagnò lo scardinamento da parte della fenomenologia di tutte le concezioni assolutiste sull’universo, il mondo, l’etica…

Anche Heisenberg è un eroe – di tipo nuovo come Rustin Cohle – ma rivolto al male, rivolto solo verso se stesso e il suo egoismo. Sintetizza la migliore meth che si trovi in zona, impara ad uccidere, insomma, diventa un criminale. Ma noi non possiamo che stare dalla sua parte. È l’eroe della storia. Anche lui ha ridotto al nucleo duro, concentrato, la funzione dell’eroe. Ha un compito e lo svolge. Per i suoi familiari, tanto ha una vita a termine, può mettere da parte qualsiasi scrupolo morale…

La declinazione alternativa a Rusty dell’eroe ormai postumano. Questi conserva un’etica assoluta. Depurata dal sacro, è l’etica dell’uomo protestante/umanista trasferita nella tarda modernità.

Walter White/Heisenberg ha invece rinunciato all’etica: è tornato al nucleo barbarico, tribale del proprio nucleo di affetti. Rimane solo quello, in un mondo alieno, selvaggio, estraneo, indifferente. E allora si lotta per assicurare la sopravvivenza alla propria specie: la compagna, i figli. Basta.

“Postumano”, quindi, come riarticolazione dell’identità, del proprio rapporto con il mondo, la società, i valori, l’etica. Un nuovo Sé, quello che segue la “caduta dell’umano nel mondo” (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 37), che sostituisce l’umano nato con la Modernità.

Walter si è svegliato, ed è diventato Heisenberg. Anche Rusty si sveglia, dopo il coma in cui è precipitato per le ferite riportate nella lotta finale: “Ero sparito. Non esisteva «io». C’era soltanto amore… e allora mi sono risvegliato”. Forse è cambiato, ha perso in disillusione. Ma sicuramente rimane lo stesso eroe spietato, ieratico, posseduto dalla necessità di combattere il Male. Forse vorrebbe tornare a dormire: nel sonno del coma ha trovato un po’ di pace. Ha rivisto la figlioletta (ecco il “trauma originario” che lo ha reso Eroe), ha ritrovato i suoi affetti. Solo che per lui ci sono ancora molte “promesse da mantenere /e miglia da percorrere / prima di poter dormire” (Frost, 1988).

 


 

LETTURE

  Robert Frost, Conoscenza della notte e altre poesie, Mondadori, Milano 1988.

 

VISIONI

  Jonathan Demme, Il silenzio degli innocenti, 20th Century Fox Home Entertainment, 2008 (home video).
Vince Gilligan, Breaking Bad, Universal Pictures, 2013 (home video).