VISIONI / TWIN PEAKS – THE ENTIRE MISTERY


di David Lynch, Jack Frost / Universal, 2014


 

Prospettive spettrali del raccontare

 

di Adolfo Fattori

 

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“David Lynch non amava la televisione. Anzi, la definiva “un mezzo orrendo”. Poi, si è deciso (convinto, rassegnato?) a metterci le mani lui, e fra il 1990 e il 1991 ha realizzato I misteri di Twin Peaks.

Formulando una semplice domanda, “Chi ha ucciso Laura Palmer?” ha cambiato la storia della fiction per la Tv facendola esplodere con il suo genio, piegando il medium e il formato della fiction seriale a una logica che fino ad allora era stata estranea alle strategie dei network e dei broadcaster. O meglio ribaltandola: laddove alle sue origini gli apparati della produzione di audiovisivi erano radicati quasi esclusivamente in quelli del cinema, dei suoi set, delle sue tecnologie classiche (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 51) e da quel luogo accoglievano la necessità di fare televisione, Lynch arrivando sulla scena ha infettato con la sua idea di cinema gli apparati di questa, dalla produzione alla distribuzione al consumo, trasferendo nei dispositivi della televisione diventati ormai ampiamente autonomi il nucleo fondante, la natura profonda del cinema: il fantastico (cfr. Abruzzese, 2007); con lui, la Tv ha cominciato a fare il cinema.

In pratica, ha avviato – o forse ha semplicemente riconosciuto – il processo che ha definito il passaggio alla produzione estetica postseriale (cfr. Brancato, 2011) molto prima che ne nascesse la consapevolezza: “… Twin Peaks rappresenta invece il vero punto di svolta verso una nuova ecologia delle narrazioni audiovisive […], la serie che traghetta i vecchi modelli seriali verso la post-serialità” (ibidem). L’intera vicenda arricchita da abbondanti contenuti speciali è ora riproposta in un’edizione speciale che sin dalla confezione che al tatto ricorda il velluto è di colore blu si manifesta come oggetto da collezione. La foto del volto di Laura Palmer in copertina è strappata, mostrandola come appare (cadavere avvolto nella plastica) nei primi minuti della serie.

La storia raccontata nel serial ha un inizio classico. All’alba di una mattina nebbiosa, ai confini della cittadina di Twin Peaks, nel nord dello stato di Washington, viene ritrovato il cadavere nudo, avvolto nella plastica, di Laura Palmer (Sheryl Lee), una delle ragazze più conosciute della cittadina, figlia di uno dei maggiorenti del posto. Poco dopo, viene trovata anche Ronette Poulansky, un’amica di Laura, che vaga in stato confusionale nei dintorni della cittadina.

È subito evidente il fatto che le due ragazze hanno subito abusi sessuali e maltrattamenti, che Ronette è viva solo per caso, ma che è in condizioni tali da non ricordare nulla: è profondamente traumatizzata.

Da quel momento, partono le indagini, affidate ad un agente dell’Fbi, Dale Cooper (Kyle McLachlan). Seguendolo nelle sue indagini, gli spettatori si immergono in una atmosfera sempre più surreale, bizzarra, inquietante, popolata di personaggi estremi, grotteschi, volutamente indecifrabili, evanescenti, come “la Donna del ceppo”, “l’Uomo senza un braccio”, ed altri ancora, come “il Nano” che popola gli incubi premonitori di Dale Cooper, in un continuo alternarsi dei momenti della vita della cittadina dopo la morte di Laura, e degli stati onirici di Cooper.

È presto chiaro che difficilmente l’agente Cooper riuscirà a venire a capo del mistero.

Cooper, lo Sceriffo Truman e tutti gli altri personaggi che popolano la vicenda, lo stesso andamento di questa, che sembra avere un inizio vago, nebbioso, e presto si intuirà che non avrà un vero, convincente finale (quello che chiude la seconda stagione, così evidentemente banale e posticcio, fu realizzato per le insistenze della produzione, scontenta per il calo degli ascolti), aprirono prospettive nuove al racconto audiovisivo e alla sua messa in scena, portando al suo centro il dubbio e lo spaesamento, precipitando gli spettatori in un universo narrativo straniato e dissonante, una miscela di generi e di formati riarticolati distorcendo e piegando al servizio delle ossessioni del regista i discorsi del cinema da una parte, le logiche delle series dall’altra – cogliendo il nucleo caldo dello spirito di quel tempo e incanalando nello schermo televisivo i riflessi delle violente, dirompenti tensioni che interessavano la realtà sociale dell’epoca.

Ritrovandosi così a incubare il piccolo schermo – oltre che della sua geniale visionarietà – delle incertezze e delle angosce che cominciavano a popolare le soggettività contemporanee a causa della percezione – ancora incerta, vaga – delle trasformazioni in atto, durante uno degli strappi più violenti che abbiamo sperimentato nell’accelerazione del mutamento dalla nascita della Modernità, l’aspetto spettrale di questo strappo, per dirla con Robert Musil: quella dimensione nascosta, profonda, nucleare, che fa da matrice permanente alle cose, agli accadimenti, al di là dei mutamenti locali, temporanei. In questo caso, alla natura intimamente distruttiva e creativa insieme del mutamento sociale – e delle paure e angosce sepolte e radicate più in profondità dentro di noi.

Ricordiamo alcune date.

Nel 1989 crolla il Muro di Berlino, a chiosare la fine del blocco sovietico – e a illudere molti della fine della conflittualità sempre immanente a livello globale (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 16).

Sempre nello stesso anno, dopo qualche decennio dalla sua “invenzione” in Giappone per merito di un giovane ingegnere della Toyota, gli occidentali, grazie alla pubblicazione di una ricerca di tre americani, scoprono la “produzione snella” (cfr. Roos, Woomack, Jones, 1991), che mette nell’angolo fordismo e taylorismo, e sposata con l’informatizzazione trasforma in modernariato la catena di montaggio: fine delle grandi masse operaie, declino della società di massa – e quindi delle sue organizzazioni e delle sue “grandi narrazioni” (cfr. Lyotard, 1981) – tramonto della produzione in serie, individualizzazione dei consumi – e riarticolazione delle identità.

Nel 1990 scoppia la prima “Guerra del Golfo”, a ribadire che il petrolio appartiene all’Occidente, e a sperimentare i formati dei giochi di simulazione sul campo di battaglia, tanto da far scrivere a Jean Baudrillard, già nel 1991, a metà conflitto, che “Fin dall’inizio, si sapeva che questa guerra non ci sarebbe stata. Dopo la guerra calda […], dopo la guerra fredda […], è sopraggiunta la guerra morta…” (Baudrillard, 1991).

Tre episodi cardine che agendo sull’ordine della produzione – anche di merci culturali, naturalmente – e sull’ordine della distribuzione mondiale del potere avrebbero aperto al millennio successivo. All’affermarsi del postmoderno, del postumano – del postseriale, per quanto riguarda più direttamente le dinamiche della produzione-distribuzione-consumo delle merci culturali. E all’insinuarsi nelle coscienze di una percezione del reale e delle proprie identità sempre più fluida, incerta, eventuale, contingente.

I pilastri dell’ordine e della visione occidentale del mondo nato dalla Seconda guerra mondiale barcollano, insieme alla proiezione al futuro tipica del moderno; la spinta al nuovo prodotta dall’emergere dei giovani sulla scena degli eventi – e dalla sagacia del mercato a nutrirla e a prosperarci – si esaurisce, è finita l’orgia di un ottimismo gonfiato e posticcio, alimentato dalla logica della reaganomics e delle ideologie “muscolari” stimolate dalla sua aggressività, mentre quei giovani sono intanto diventati adulti e magari si sono imbozzolati in quel rassicurante universo parallelo costruito attorno all’irrazionalismo New Age ibridato con il relativismo di quella che la sociologa Eva Illouz ha definito “narrazione psicologica” (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 46).

Il mondo torna a essere imperscrutabile, il futuro “oscuro e inquietante” (giusto per rubare allo stesso Lynch una sua frase).

E, fra il 1990 e il 1991, David Harvey dà alle stampe La crisi della modernità (2002) e Fredric Jameson pubblica il suo Postmodernismo, la raccolta pressoché completa di tutti i suoi interventi sul tema, in Italia apparso nel 2007, fornendoci fra tutti e due potenti chiavi per esplorare il presente che da allora ci si è formato davanti agli occhi (molto più, bisogna dire, di Jean-François Lyotard, il primo a esportare negli studi sociali il termine coniato in architettura fra gli anni Cinquanta e i Settanta del Novecento): Harvey dal punto di vista della riarticolazione dei rapporti di produzione, dello sviluppo delle tecnologie e del mutamento nel nostro percepirci in un tempo e in uno spazio precisi, Jameson riconsiderando la produzione di cultura del Novecento a partire da una definizione di “postmoderno” come “storicizzazione del presente” e quindi come chiave per reinterpretare non solo due secoli di cultura di massa, ma anche i modi con cui negli ultimi decenni i suoi prodotti e i suoi esiti sono stati riscritti, rielaborati, trasformati.

Su un altro piano, quello delle forme estetiche, ricordiamo come Twin Peaks segue un decennio di telefilm che spaziano dalla sit-com al poliziesco – fra tutti Miami Vice, che ospita i primi accenni ad un cinismo e un disincanto nuovi per la Tv – al poliziesco-futuristico di Supercar, mentre in parallelo procedono la mitica Star Trek, Dallas, Sentieri, nel solco di un immaginario diviso fra le rassicuranti schermaglie di casa Robinson, gli intrighi della lunghissima serialità delle soap operas storiche, e l’avventura – che fosse fantascientifica o poliziesca – in cui alla fine il bene trionfava…

In Twin Peaks invece il bene non trionfa: rimangono sicuramente gli intrighi, nella piccola comunità in cui è ambientata la vicenda, gli antefatti nascosti, i misteri irrisolti, gli scheletri negli armadi, gli spettri di passioni insoddisfatte, gli echi di conflitti sepolti troppo in superficie, i fantasmi di delitti passati, il Male, un Male sempre incombente, sottinteso, che David Lynch costringe gli spettatori a considerare “dato-per-scontato”, per rubare l’espressione di Alfred Schütz (2008). Ecco, cambiano, immergendosi nel mondo di Twin Peaks, i parametri con cui guardiamo alla realtà: la razionalità funziona, ma... Ci sono più cose in cielo e in Terra, o Orazio… (Shakespeare, 2008). La razionalità strumentale che ha guidato la Modernità occidente per secoli non funziona più. Né tantomeno funzionano le religioni organizzate tradizionali. Rispunta, con le tendenze irrazionalistiche New Age un’idea di sacro più antica, atavica, archetipa.

Un Male che rimanda al gotico, all’irrazionale, all’ineffabile, un ritorno alla dimensione ancestrale del sacro, immanente, nascosto e presente ovunque, alieno, incomprensibile nei suoi moventi e nelle sue azioni: quello che si condensa nell’orrore soprannaturale di cui scrive Howard Phillips Lovecraft (2011, cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 32). Il suo aspetto spettrale. Quello che – da Twin Peaks in poi – si incarna nel serial killer, figura cardine della Modernità, precipitato contemporaneo della crudeltà, mimetizzato nelle strade delle metropoli come nei boschi eterni o nelle immense praterie del Nord americano. Quello il cui fiato sentiamo sul collo, e il cui sguardo percepiamo sulla nuca durante tutte le puntate della serie – o in film come Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, uscito nelle sale quasi in contemporanea, nel 1991. L’essere, insomma, che materializza nella razionalità di una Modernità vacillante il male metafisico, soprannaturale. Quello che rende tutti i luoghi, gli eventi, i personaggi della storia ammantati, sfiorati da un velo di Unheimlich, di leggermente distorto, sbilenco, dislocato dalla realtà ordinaria.

David Lynch aveva già sperimentato il discorso sulla malvagità nascosta sotto la superficie del quotidiano nel lungometraggio Velluto blu, nel 1986, in cui, a partire da un orecchio mozzato ritrovato nel prato di casa, un giovane insieme alla sua ragazza scopre nella sua cittadina pulita e tranquilla l’esistenza di un mondo sotterraneo, sordido e crudele, fatto di corruzione, droga, perversioni sessuali. E Velluto blu è una delle opere che Jameson sceglie (insieme a Qualcosa di travolgente) per sviluppare il suo discorso sul postmodernismo, richiamandone la dimensione di riferimento nostalgico agli anni Sessanta, destinato però a rimanere illusorio: “Così questi film si possono leggere come sintomi duplici: mostrano un inconscio collettivo nell’atto di cercare di identificare il proprio presente, e nello stesso tempo illustrano il fallimento di tale tentativo, il quale pare ridursi alla ricombinazione di vari stereotipi del passato”.

In particolare il film di Lynch, però, mette in scena la Natura come “cornice complessiva, come prospettiva inumana e transumana nella quale contemplare gli eventi” (Jameson, 2007, corsivo nostro), una natura che è fatta di feroce, ineluttabile, fatale violenza – violenza che è costitutiva anche della natura e della condizione umana, verrebbe da inferire.

La stessa violenza metafisica, incombente, che fa da cornice agli scenari di Twin Peaks, da cittadina pacifica e opulenta a luogo dell’angoscia e del crimine (non diversamente dalla cittadina in cui è ambientato Velluto blu). Un’anticipazione, insomma, dei temi che sarebbero apparsi, potenziati, nel serial Tv.

E se Jameson parla di “gotico” a proposito del film, a maggior ragione si può usare il termine nel caso del serial. È il gotico riscritto ai tempi del postmoderno, quindi di quella rielaborazione dei motivi e dei formati che hanno innervato la cultura di massa fin dalle sue origini, una macchina che aveva incorporato, riorganizzato e riproposto le forme della narrazione in termini industriali, seriali, appunto, e che si ritrova a sua volta rovesciata e ritorta come un anello di Mœbius, e poi esplosa in modalità produttive e di consumo ancora nuove, destabilizzanti, già rivolte ad un pubblico che non è più quello di massa, ma tende ad individualizzarsi, a liberarsi della dimensione etica delle certezze progressiste e progressive e del lieto fine che fino a quel punto aveva innervato la produzione estetica del Novecento: “Le pulsioni destabilizzanti dei nuovi media – o meglio, dei nuovi paradigmi del sistema dei media – appaiono sempre più caratterizzate da un movimento votato alla personalizzazione dei processi comunicativi laddove la modernità è stata segnata dalle grandi dinamiche omogeneizzanti di formazione del pubblico” (Brancato, 2014).

Così nello svolgimento della vicenda seguiamo in successione, come quadri staccati gli uni dagli altri, quasi indipendenti, i comportamenti, le azioni, le interazioni dei vari gruppi di personaggi, ognuno dei quali chiuso nella sua incapacità di comunicare, nella sua solitudine.

In questa opera di destrutturazione e ridefinizione delle strutture del racconto moderno e della sua modalità di riscrittura del Mito, Lynch ne libera, in termini pienamente postmoderni, tutta la potenza, tornando alle sue vere origini, quelle dell’irrazionale, e mostrandoci le forze primigenie che lo nutrono e lo animano: la violenza, la ferocia, la morte, il Male metafisico.

In questa operazione il regista americano ripercorre e riscrive tutti gli ambiti della narrativa di massa, dal gotico, appunto, alla fantascienza, al sentimentale e al melodramma, all’erotico (e non dubitiamo che potendo avrebbe anche sdoganato il porno), al poliziesco, all’horror e al thriller, naturalmente, la cifra di fondo di tutta la serie. Insomma, riscrive il pulp, nobilitandolo, come Quentin Tarantino, altro alfiere del postmoderno, altro miscelatore di generi e di storie.

Ma se Tarantino – basta pensare a Le iene e a Pulp Fiction – si scatena in una dimensione del pulp barocca, sovrabbondante, triviale, eccessiva, ed è così che ne celebra la grandezza, Lynch, invadendo gli spazi della serialità televisiva del dopoguerra strizza, deforma, spreme i materiali dell’immaginario pulp e gotico fino ad isolarne il nucleo profondo, la struttura primordiale, il suo – ancora una volta – aspetto “spettrale”, quello cui è possibile solo alludere, che si può a stento evocare. Che anzi, si manifesta quasi da solo, qui evocato dalla magia del regista.

Dai generi prende i luoghi più tipici, frammenti di ambienti, brani di dialoghi, spezzoni di situazioni, tratti di personaggi, sequenziandoli in un ordine che forma un universo multi temporale ed iperspaziale. Twin Peaks diventa una cittadina che raccoglie in sé l’intero mondo e l’intera storia della vita quotidiana, delle mode, dei consumi, dell’immaginario novecentesco, dagli anni Quaranta di Gilda ai Cinquanta de Il selvaggio e di Gioventù bruciata ai Sessanta dei luoghi di vacanza montana per vip ai Settanta dell’utopia hippie e delle psicoterapie alternative. La storia come svolgimento si contrae fino a sparire, insieme alla geografia antropica, mimando l’affermazione del “tempo reale” (Harvey, 2007) e della trasformazione del “senso del luogo” (Meyrowitz, 1995). L’annuncio dell’ingresso nella tarda modernità, del relativismo, della perdita delle sicurezze, della riscrittura delle identità.

Nel contesto delle trasformazioni che inducono e determinano l’ingresso nella tarda modernità la televisione – il medium più poderoso insieme al cinema prodotto dal Novecento – si adegua e riverbera il processo, superando la logica generalista fino ad allora dominante nei network, colonizzando altri media (al serial si accompagna l’anno dopo un libro, Il diario segreto di Laura Palmer [1991] e nel 1992 un film, Fuoco cammina con me, il prequel vero e proprio della storia diretto sempre da Lynch [2014]) aprendo a quella che in mancanza di meglio (Brancato, 2011) chiamiamo per ora post-serialità, e accompagnando la spinta verso l’individualizzazione che avveniva nel sociale, da una parte moltiplicando i canali e differenziando i prodotti, dall’altra contaminando generi e mezzi, a partire proprio dall’ibridazione di cinema e Tv (ibidem), che si scambiano sostanze e strutture, attentissimi allo svolgersi del mutamento sociale, delle derive delle identità. Gli anni Novanta del XX secolo saranno anni cruciali nella ridefinizione di un Sé sempre più blindato (Fattori, 2013) nella sua inconsapevolezza. Allungando lo sguardo, a chiusura delle riflessioni su Velluto blu, sempre Jameson chiosava così: “E se il tratto identificativo del prossimo «decennio» fosse per esempio l’assenza di una autocoscienza forte, vale a dire in primo luogo una costitutiva mancanza di identità?” Volendo, si può obiettare che più che ad una “mancanza” avremmo assistito ad un distacco dalla dimensione sociale, collettiva, degli individui, che comunque c’è stata.

Ecco, Twin Peaks ci avverte di questo: attraverso i personaggi – le identità – che mette in scena, quasi appartenenti ognuno a momenti e spazi diversi, frammentari, indipendenti come lo spazio/tempo tardo moderno anticipa i decenni successivi. E riesce a farlo proprio agendo sugli immaginari e sugli apparati che mette in gioco, mentre la organizzazione dei contenuti narrativi, il clima “magico” che propone allo spettatore rimanda alla incertezza dello stesso sui tempi a venire, che avremmo presto sperimentato come crollo delle sicurezze nelle “grandi narrazioni” della Modernità e ripresa della capacità di seduzione di forze antiche come il “Destino” o il “Caso”. Una “… radicale operazione di riscrittura capace di integrare le inquietudini del cinema e quelle della tv” permette al serial di esprimere “… in modo compiuto questa attitudine ibrida, in cui i generi si mescolano tra loro sino a rendersi non più identificabili, vanificando l’ordine di significato del plot. L’orizzonte d’attesa dello spettatore è costantemente sollecitato […] per essere poi depistato altrove, in territori oscuri e misteriosi…” (Brancato, 2011, corsivo nostro), a replicare l’ormai prossimo disordine del sociale e delle identità, sempre più prive di ancoraggi, di punti di riferimento, in un universo che sembra tornare al caos e che ci spinge, nonostante lo sfondo demagizzato in cui collochiamo il nostro essere-nel-mondo, verso le seduzioni del magico, del soprannaturale, dell’irrazionale.

Così David Lynch e Jack Frost in Twin Peaks mettono in scena – attraverso le angosce e gli incubi che evocano, rigorosamente senza mostrarli mai – un fantasma, quello della Modernità in esaurimento (Brancato, 2014), che, anche se solo come fantasma, continua tuttora a nutrire in profondità immaginari e modelli narrativi. Magari mutando verso il post-umano, come negli zombies di The Walking Dead e negli umani “potenziati” di Agents of Shield. Oppure, nella versione minimale del postumano, tutta centrata sull’interiorità o sulla sua mancanza, nei nevrotici e incomprensibili protagonisti di Homeland, nei disincantati poliziotti di True Detective, nei cinici politici di House of Cards, nelle anime perse di The Leftovers

Nel suo trafficare con il perturbante al crepuscolo del millennio, David Lynch ci appare come un uomo “postumo”, come Massimo Cacciari ebbe a scrivere di Robert Musil (1980), ed è curioso che anche il filosofo veneziano ricorra alla metafora del fantasma: “Anch’essi «praticano» la società, vanno tra gente travestita, sono oggetto di conoscenza, di considerazione e di interesse. Ma insieme… fanno i fantasmi. […] Non avendo un Fondamento, egli viene compreso peggio degli altri… però viene ascoltato meglio […] il fantasma dell’uomo postumo costringe quasi all’ascolto, fa riscoprire la dimensione dell’ascoltare. La sua “autorità” non è che questo solitario, muto invito all’ascolto” (Cacciari, 1980).

Si potrebbe giocare sull’assonanza della combinatoria fra “uomo postumo” e “postumano”, ma non è questo che conta. Conta piuttosto la circostanza che – a sua volta – Robert Musil in un’intervista rilasciata nel 1926 affermava: “La spiegazione reale dell’accadere reale non mi interessa. La mia memoria è cattiva. Inoltre i fatti sono sempre scambiabili. Mi interessa ciò che è spiritualmente tipico, vorrei dire addirittura l’aspetto spettrale dell’accadere.” (in Cases, 1962).

O, in un’altra versione: “Mi interessava il momento intellettualmente tipico, direi quasi «spettrale» dell’avvenimento […] La storia di questo romanzo risulta essere che la storia che vi si sarebbe dovuta narrare non viene narrata” (in Rendi, 1973).

Lo “spiritualmente tipico”, una “storia che non viene narrata”… in realtà, la storia di Laura Palmer non viene narrata, ne vengono narrate le conseguenze – sui suoi concittadini, sugli eventi, sulla vita delle persone che le stavano intorno. Lo “spiritualmente tipico” della cittadina di Twin Peaks, che sta per il mondo che le è contemporaneo. Il suo «aspetto spettrale», il paradigma, l’idealtipo.

Come I misteri di Twin Peaks rappresenta il paradigma che ha informato tutta la fiction tv successiva, fornendole la sostanza profonda, cogliendo l‘aspetto spettrale del raccontare della Modernità e rilanciandolo oltre. In fondo, se “i fatti sono sempre scambiabili”, il loro spettro no, è unico e immanente.

 


 

LETTURE

  Alberto Abruzzese, La grande scimmia, Sossella, Roma, 2007.
Sergio Brancato, Post-serialità Per una sociologia delle tv-series, Liguori, Napoli, 2011.
Sergio Brancato, Fantasmi della modernità, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
Jean Baudrillard, La Guerra del Golfo non avrà luogo, in AA.VV., Guerra reale e guerra virtuale: riflessioni sul conflitto del golfo, Mimesis, Milano, 1991.
Massimo Cacciari, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano, 1980.
Cesare Cases, Introduzione (in Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1962).
Adolfo Fattori, Sparire a se stessi, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2013.
David Harvey, La crisi della modernità, Net, Milano, 2002.
Fredric Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007.
Howard Phillips Lovecraft, Teoria dell’orrore Tutti gli scritti critici, Bietti, Milano, 2011.
Jennifer Lynch, Il diario segreto di Laura Palmer, Sperling & Kupfer, Milano, 1991.
Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna, 1995.
Aloisio Rendi, Robert Musil, L’uomo senza qualità, (in Giuliano Baioni, Giuseppe Bevilacqua, Cesare Cases, Claudio Magris, Il romanzo tedesco del Novecento, Einaudi, Torino, 1973).
Daniel Roos, James P. Woomack, Daniel T. Jones, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, Milano, 1991.
Alfred Schütz, Don Chisciotte e il problema della realtà, Armando, Roma, 2008.
William Shakespeare, Amleto, Garzanti, Milano, 2008.

 


 

VISIONI

  Laszlo Benedek, Il selvaggio, Universal Pictures, 2013 (home video).
Jonathan Demme, Qualcosa di travolgente, 20th Century Fox Home Entertainment, 2005 (home video).
Jonathan Demme, Il silenzio degli innocenti, 20th Century Fox Home Entertainment, 2008 (home video).
Michael Dobbs, Beau Willimon, House of Cards Gli intrighi del potere, Universal Pictures, 2014 (home video).
Howard Gordon, Alex Gansa, Homeland Caccia alla spia, 20th Century Fox Home Entertainment, 2013 (home video).
Robert Kirkman, Frank Darabont, The Walking Dead, 20th Century Fox Home Entertainment, 2014 (home video).
David Lynch, Velluto blu, 20th Century Fox Home Entertainment, 2002 (home video).
David Lynch, Fuoco cammina con me, Cecchi Gori Home Video, 2014 (home video).
Nicholas Ray, Gioventù bruciata, Warner Home Video, 2000 (home video).
Gene Roddenberry, Star Trek The Next generation, Universal Pictures, 2011 (home video).
Quentin Tarantino, Le iene, Eagle Pictures, 2012 (home video).
Quentin Tarantino, Pulp Fiction, Eagle Pictures, 2011 (home video).
Charles Vidor, Gilda, Universal Pictures, 2013 (home video).
Joss Whedon, Jed Whedon, Maurissa Tancharoen, Agents of Shield, Walt Disney Studios Home Entertainment, 2014 (home video).
Anthony Yerkovich, Miami Vice, Universal Pictures, 2008 (home video).