LETTURE / IL CREPUSCOLO DEI BARBARI


di Alberto Abruzzese / Bevivino, Milano, 2011 / pp. 244, € 20,00


Guardare a un altro orizzonte
insieme ad Alberto Abruzzese

di Adolfo Fattori

 

“Ma è Musil che più di ogni altro ha compreso l’inaudita forza della distanza che l’essere postumo permette. […] L’essere postumo illumina a fuoco gli eventi più segreti. Proprio perché non solo inattuale, ma postumo, quest’occhio gode degli inarrivabili doni della distanza…”

Massimo Cacciari

 

Se uno spettro, quello del comunismo (destinato finora a rimanere tale: intangibile, etereo), ha agitato la seconda metà del XIX secolo e gran parte del XX, il fantasma di un’ombra – cupa, opaca, proteiforme, proiettata da nuove figure di barbari – sembra incombere sul terzo millennio. O almeno appare distendersi sul mondo che conosciamo se diamo credito ai discorsi delle élites della politica, della scienza, dell’estetica – e al senso comune.

Ed è facile abbandonarsi al flusso di inquietanti profezie che ci assalgono, perché confermano il senso di disorientamento diffuso che gli abitanti della contemporaneità vivono quotidianamente, alle prese col mutamento in atto, e con l’incrinarsi e il frantumarsi della propria sicurezza ontologica.

Come scrive lapidario Alberto Abruzzese in Il crepuscolo dei barbari, “La vicenda che oggi culmina nella crisi del soggetto moderno può essere narrata in altro modo: come nascita trionfo e caduta dell’umano nel mondo”.

Ma forse la preoccupazione per il presente e il futuro prossimo che traspare da molto del dibattito intellettuale è frutto più dell’incapacità di ripensare ai propri strumenti che degli eventuali disastri che incombono su una modernità ormai alla fine del suo percorso. Insomma, ci sentiamo circondati dalla barbarie. Non quella che i socialisti dell’età industriale contrapponevano ad una “rossa primavera” finita prima di sorgere dal suo inverno, ma una barbarie pervasiva, metafisica, di cui – in un rovesciamento perlomeno sospetto – divengono metafora, o sineddoche, o proiezione i migranti, il digitale, le tecnologie più recenti, la “crisi dei valori” – e perché no, i giovani, naturalmente.

Tutto ciò, che costringerebbe a ridiscutere i propri paradigmi, ad avviare una “rivoluzione scientifica” nel senso di Thomas Kuhn, diventa occasione, al contrario, di arroccamento a difesa, di quarantena intellettuale nei confronti dell’imprevisto, dell’inatteso, quindi dell’ancora indicibile perché incomprensibile – oltre che del consueto ostracismo nei confronti delle voci eccentriche degli studiosi che non rimangono nei binari della norma accademica.

Vengono in mente, a ormai un secolo di distanza (e ad evocare le assonanze fra le due fasi storiche, quella attuale e quella a cavallo fra secoli XIX e XX), alcune implicazioni delle riflessioni di Max Weber in La scienza come professione, testo di una conferenza tenuta nel 1918, laddove si legge “ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquant’anni è invecchiato. È questo il destino, o meglio il significato del lavoro scientifico […] ogni lavoro scientifico «compiuto» comporta nuovi «problemi» e vuol invecchiare ed esser «superato»” (1973). O, anche, la descrizione grottesca e straniata della ricerca accademica che il tedesco Gottfried Benn mette in scena nella sua piéce espressionista Itaca, contemporanea allo scritto di Weber: “Infatti cosa crea lei? Ogni tanto tira alla luce un cosiddetto fatto. Anzitutto l’ha già scoperto un collega anni prima: ma non pubblicato. Dopo quindici anni sono tutti e due da buttar via. Cosa sa veramente? Che i lombrichi non mangiano con coltello e forchetta e che le felci non hanno calli sul sedere. Sono queste le sue conquiste. Sa qualcos’altro?” (in Denkler, Secci, 1973).

Il semplice fatto che le visioni del mondo che gli uomini costruiscono, guardando tanto alla dimensione “locale” quanto in termini “globali” siano determinate storicamente e socialmente non sembra sussurrare più di tanto alle orecchie della maggior parte degli intellettuali contemporanei.

Incistata nella propria autoreferenzialità, la modernità occidentale – che pare ancora presuntuosamente arroccata nell’arroganza della sua pretesa universalità – non riesce a fare i conti con i propri esiti: il declino del primato dell’uomo nato con l’Umanesimo che scopre la vanità delle affermazioni di Leon Battista Alberti (“L’uomo può fare qualunque cosa, purché lo voglia”) e di Pico della Mirandola (“Possiamo diventare tutto ciò che vogliamo”) , l’esaurirsi della spinta del capitalismo industriale che si trasforma in qualcos’altro, l’inattualità, l’anacronismo dei suoi discorsi su se stessa, a partire dalla sociologia, che sembra aver perso di vista l’attitudine a praticare il necessario distacco dai processi che osserva e su cui intende ragionare. Con buona pace di Max Weber e Charles Wright Mills.

Le nostre élites non sembrano riconoscere che il proprio “ordine del discorso” non regge più, che “la produzione del discorso” non riesce più a svolgere quella “funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità” (Foucault, 1972) – e sicuramente non riesce a descrivere l’esistente.

E non riescono ad accettare di dare più credito a quei sociologi “eretici” come John Carroll, che in Il crollo della cultura occidentale (2009) sviluppa l’ipotesi che la visione del mondo – e di noi stessi come singolarità uniche – nata con l’Umanesimo abbia cominciato a decadere già dalla sua nascita. Non riuscendo a immaginare soluzioni al dramma – tutto umano – della consapevolezza dell’ineffabilità, dell’irriducibilità della morte, la più beffarda smentita a Pico e all’Alberti.

Nel suo ultimo lavoro Abruzzese si muove – crediamo – su un crinale parallelo, ponendo come uno dei fulcri del suo discorso il tema del dolore e della sofferenza, della coscienza del loro appartenere indissolubilmente alla condizione umana – e dell’impossibilità di liberarsene. Presenza analoga, nei nostri pensieri, a quella della morte, dell’ombra che getta sulle nostre vicende e – presumiamo – del suo fertile legame con la forza ctonia, magmatica, primordiale, incontrollabile di quella “caotica macchina poietica […] inesausta manifestazione – evocazione – dell’inesistente. Rifrazione di innumerevoli immagini, esso si cela a uno sguardo d’insieme eppure preme sui nostri sensi assai più delle cose che si vedono, delle cose concrete, delle cose che non si ritengono immaginarie” che è l’immaginario. Che da “collettivo”, come si era sviluppato durante il Novecento, con la crescita dell’industria culturale e della cultura di massa, argomenta il sociologo romano, si trasforma in individuale nell’epoca della Rete. Diventando il luogo in cui possiamo osservare come e quanto la Rete “penetra” la nostra carne, intercettando la nostra interiorità (quindi il nostro dolore), permettendoci di manifestarla a noi stessi, tras-fondendola nella Rete stessa e quindi di depositarla lì, a disposizione di tutti: attraversiamo una fase di “de-socializzazione in cui i linguaggi dell’interiorità, fondati sul sentire, mirano a costruire territori alternativi a quelli dei mondi esterni, fondati sul vedere, e quindi frontali, ostentativi, spettacolari”.

Questo punto è nodale, nel ragionamento di Abruzzese: è qui che si articola uno dei momenti chiave della fine della modernità, il luogo in cui l’interiorità di ognuno emerge, esprime il suo immaginario individuale, modificando l’intero orizzonte del rapporto degli uomini con le cose, spingendo a modalità inedite di “costruzione sociale della realtà” – rendendo quindi necessaria la riorganizzazione dei paradigmi scientifici, una “rivoluzione” nel senso di Kuhn.

Qui si denuncia il tramonto della sociologia, coevo di quello della modernità, che lascia un vuoto che secondo il sociologo può essere occupato dalla mediologia come disciplina che attualizza e include la sociologia e ha gli strumenti per osservare e descrivere cosa avviene nella società della Rete. “Ritorniamo alla prospettiva mediologica. La convinzione che questo sia tra i modi meno peggiori di analizzare le forme del dolore umano nella fase di eclissi della stessa società che ci aveva promesso di liberarcene, mi viene dal ritenere intimamente affini tra loro – eppure non del tutto coincidenti – lo spazio dei media e lo spazio dell’immaginario. Nella loro connessione c’è l’esperienza del reale, l’arcano che la realtà nasconde”. Ed è la Rete a fornire la piattaforma ideale perché questi fenomeni si dispieghino in tutta la loro urgenza.

Il discorso di Abruzzese procede inizialmente come quello di chi – rassegnato di fronte ad un interlocutore renitente – decide combattivo di rimboccarsi le maniche e riepilogare le proprie argomentazioni dall’inizio, riorganizzandole sin dalle premesse.

Forse è questa sensazione che spinge il lettore a collocare (questa considerazione è frutto di una conversazione con Sergio Brancato) Il crepuscolo dei barbari su di una dorsale i cui picchi precedenti sono costituiti da Forme estetiche e società di massa (1973), La grande scimmia (1979), Lo splendore della Tv (1995), dove Abruzzese definisce l’uno dopo l’altro i punti chiave attorno a cui ruota la sua ricerca: dopo il monopolio della scrittura, lo spettacolo e le avanguardie storiche, il cinema e la radio, la televisione, fino al computer, che da personal si fa collettivo, chiudendo un fruttuoso anello di Möbius che dalla dimensione della comunità ha condotto all’individualizzazione per tornare alla trama collettiva delle identità in Rete. E quindi di declinare l’analisi del rapporto fra individuo, collettività, pubblico, arte, media, istituzioni.

È il Web che si offre come non-luogo, non inteso nell’accezione tutto sommato provinciale in cui lo usa Marc Augé, ma come sfera senza confini, barriere, frontiere (una delle forme profonde alla base dell’esperienza occidentale) una sfera in cui è possibile escludere, bypassare le membrane e i filtri fra interiorità ed esteriorità, fra Io e Altro, appropriandosi del potere di conferire senso – di organizzare un proprio “ordine del discorso” metamorfico e mutevole? – e quindi di riorganizzare completamente l’esperienza vissuta.

L’avvento di Internet vede infatti il superamento delle piattaforme dei media di massa, perché istituisce “un modello di comunicazione fondato sul superamento del rapporto centro/periferia, tipico dei mass media, e votato a una personalizzazione dello scambio comunicazionale” (Brancato, 2011), ad un irradiarsi di discorsi e sensi di una molteplicità inconcepibile in precedenza.

Forse, riconducendo nel panorama della condizione umana un atteggiamento – seppur del tutto demagizzato – che ha i tratti del rapporto tradizionale degli uomini col sacro; forse riconducibile al “reincanto del mondo” di cui parlano alcuni autori (cfr, ad es., Pecchinenda, 2003), a cui anche lo studioso romano perlomeno allude.

Il quadro che Abruzzese compone e propone in Il crepuscolo dei barbari permette di guardare allo scenario della contemporaneità con occhi più aperti: la riarticolazione che – ragionando sull’oggi della società occidentale – offre al dibattito della vicenda del soggetto della modernità ci consente di immaginare un altro orizzonte, forse imprevedibile, di cui si possono leggere sicuramente meglio i rilievi rispetto a quello che ci viene descritto con il prefisso post per mancanza di parole, attraverso discorsi che ne colgano la natura catastrofica piuttosto che la collocazione cronologica.

Stimolando ulteriori riflessioni. Tempo fa, proponendo alcune riflessioni sull’atmosfera culturale che si definì attorno e si coagulò in ciò che chiamiamo ancora “Sessantotto”, su questa stessa rivista ci permettemmo di coniare un neologismo, “neoterico”, con cui tentavamo di indicare il sincretismo di atteggiamenti, comportamenti, discorsi che mettevano insieme tecnologie di cura del sé di origine mistico-esoterica, ipoteche politiche afferenti alle “grandi narrazioni” otto-novecentesche, gusti e consumi culturali, esplosione dei new media e delle tecnologie digitali – il tutto quindi intrecciato con le dinamiche del mercato, ma con lo stesso tratto di reincanto del mondo e di emergenza delle interiorità individuali cui accennavamo più sopra (cfr. Davis, 2001; Harvey, 2002).

Ecco, forse – se ci si perdona la presunzione – l’orizzonte verso cui guardiamo è definibile a partire da questa dimensione, perlomeno per quanto riguarda il nuovo statuto dei rapporti fra esteriorità e interiorità, dell’evoluzione dell’immaginario, delle trasformazioni con cui facciamo i conti, come argomenta Alberto Abruzzese, scrivendo da un punto di vista che sicuramente appare come laterale, se non oltre, rispetto a quelli consueti.

Abruzzese cita, nel suo libro, Alessandro Baricco, che scrive di Walter Benjamin attribuendogli “l’arte di decifrare le mutazioni un attimo prima che avvengano”.

Ci si passi quella che può sembrare un’analogia azzardata: sarà per le affinità e il debito che sentiamo per un lontano eppure ancora presente maestro, o solo per l’affetto che ne deriva, ma crediamo di poter riconoscere in Alberto Abruzzese lo stesso talento. Così abbiamo deciso di intervistarlo per la ricchezza degli stimoli offerti dal suo ultimo libro e degli scenari – sociali e dell’interiorità – che esso evoca.

 

Alla diffusione ormai trentennale del termine “postmoderno” abbiamo l’impressione che abbia anche contribuito un sillogismo di questo tipo: “Siamo nella postmodernità; le grandi organizzazioni di massa come partiti e sindacati sono un prodotto della modernità; ergo, sono ormai forme superate, defunte”. Pure, le diseguaglianze rimangono, forse si rafforzano. È possibile che questo sillogismo esprima un tentativo di esorcismo, o anche un comodo alibi da parte di certe élite?

 

Attraversando i processi di destrutturazione del post-moderno o per meglio dire della società post-industriale – poiché qui sta il punto e non nel soggetto della modernità, di per sé irriducibile e violento sia nella civiltà delle macchine e dello spettacolo, sia in quella del computer e delle reti – l’intera terminologia delle scienze sociali si sta svuotando di senso dal punto di vista dei conflitti ora in atto nei sistemi di potere governati da economie di mercato più o meno democratiche.

In sostanza si può dire che disuguaglianza, ingiustizia e alienazione del lavoro, dunque la sofferenza e infelicità della vita contemporanea non possono essere più considerate soltanto come dirette conseguenze dei tradizionali conflitti di classe (padroni, proletari, sottoproletari, borghesi, ceti medi, politici, burocrati, tecnocrati, imprenditori e finanzieri, ecc.), ma ormai vanno definitivamente riconosciute come effetto del potere assunto da ceti dominanti che si sono formati in modo trasversale ai conflitti di classe scatenati dal capitalismo.

Ora si tratta di un conflitto sempre più drammatico tra la massa crescente dei subordinati, dei non garantiti, e élite di potere sempre più ristrette. Si tratta di fasce che – per ricchezze ereditate e/o acquisite, per ruolo sociale tanto elevato da avere pieno controllo dello stato, dei partiti, delle istituzioni, dell’informazione, dell’impresa e della finanza e dell’impresa, ecc. – sono le sole ad avere la garanzia di potere fare i propri interessi anche nei momenti di maggiore difficoltà dei propri sistemi di appartenenza.

La attuale crisi economica dimostra che, nella sua dimensione globale, il sistema di sviluppo occidentale si è spinto assai al di là dei singoli soggetti storici e sociali, ben oltre la loro composizione e organizzazione in classi o partiti o movimenti o corporazioni o altro che costituisse uno strumento di protezione e difesa dei loro interessi particolari e generali. I garantiti non vengono più da rendite culturali, e processi di formazione adeguati ai ruoli che essi occupano, ai posti di comando che essi raggiungono godendo di relazioni di potere e di clientele che si sono incistate negli apparati pubblici e privati.

La fascia dei garantiti si riproduce al proprio interno, ingrassa per accumulazione dei propri privilegi e dunque, costituendo un sistema chiuso, tende sempre più a accentrarsi e verticalizzarsi. Al contrario, il popolo dei non garantiti va espandendosi sempre più, inglobando nella propria debolezza e precarietà fasce sociali che ormai non sono soltanto le classi subalterne e sfruttate di sempre ma si allargano a fasce sempre più degradate rispetto al ruolo e al censo che una volta le sostenevano.

Per definire il rapporto tra potere sociale e collettività degli esseri umani in un determinato contesto, la forma della piramide non è più né giusta né efficace: ora funziona assai meglio la figura di un obelisco che domina una terra sempre più vasta, territorialmente segmentata eppure resa uniforme da dislivelli che sembrano destinati a essere sempre meno rilevanti. L’iconografia della fantascienza ha intuito molto spesso questa futura scena del presente.

 

Dal suo ultimo lavoro emerge una decisa attenzione alla dimensione della politica, espressa anche in passato in Anemia (1984, cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 3), chiara metafora delle difficoltà vissute da un certo ceto intellettuale “eccentrico” nei confronti degli apparati politici in trasformazione. Forse che i linguaggi dell’estetica riescono a penetrare di più laddove a volte il discorso critico fatica a farsi strada?

 

Direi il contrario. O meglio si tratta di intendersi. L’intellettuale italiano – e non solo italiano, ma in Italia come sempre in modo più rivelatore – ha avuto nei confronti della politica una posizione sostanzialmente parassitaria, e – quando non allineata con il potere – molto ideologica, dunque sostanzialmente di classe, piena di pregiudizi etici ed estetici, finendo quasi sempre per interpretare il suo mandato politico culturale o addirittura strettamente politico come battaglia di idee contro la cultura di massa, i consumi, la tecnologia. E qui sta il punto: i modelli di educazione e formazione dei ceti che hanno prodotto intellettuali e politici sono radicati nell’asse greco-romano e giudaico-cristiano, dunque nel cuore dell’umanesimo. È proprio contro questa tradizione che credo si abbia ormai l’obbligo di esprimersi.

Per criticare queste linee di condotta degli intellettuali – disinteressate o interessate e addirittura opportuniste e complici che siano state e siano della modernità e dei suoi regimi – bisogna contestare i loro strumenti teorici, tra i quali l’estetica, naturalmente, in quanto vera e propria summa delle logiche disciplinare del soggetto moderno. Qui tornano molto utili i linguaggi dell’immaginario, la loro sfera simbolica, il brulichio di forme espressive che i consumi spingono sempre oltre le barriere dell’estetica e dei suoi canoni. Dunque, quanto più ci si mette a distanza dai regimi di senso del razionalismo strumentale della società, tanto più si coglie il loro non-senso a fronte dei bisogni immaginari – dunque davvero reali e non socialmente costruiti – della persona, dei suoi sensi, dei suoi desideri. Della sua carne espansa.

 

Nella società della Rete la dimensione della produzione di immaginario si riarticola in modo radicale attorno a nuove definizioni identitarie. Ciò nonostante, il cinema sembra conservare tutta la sua forza poietica, pur nell’intreccio con gli altri media “individualizzati”. Possiamo sostenere che in questa dinamica diventano cruciali i processi di rimediazione?

 

Lo sappiamo, e il concetto chiave espresso da McLuhan (il medium è il messaggio) e più recentemente da Bolter (con il termine “rimediazione”) ci ha aiutato a capirlo meglio: i media seguono uno sviluppo fondato sul potere di traino, riqualificazione e ridefinizione che una nuova piattaforma espressiva esercita su tutti gli altri media, nati in circostanze spaziali e temporali diverse. Tecnologicamente avanzato – e quindi dominante, vincente, in quanto protesi umana dotata della forza necessaria a soddisfare le trasformazioni dell’abitare e delle forme simboliche della vita quotidiana – un nuovo medium scompone e ricompone i media già territorialmente attivi nel suo stesso ambiente mediatico perché, veicolandoli attraverso la specificità della propria piattaforma espressiva, ne trasforma per ciò stesso il significato e al tempo stesso li spinge a modificare progressivamente i propri contenuti formali, adattarli, appunto ri-mediarli, così da potere meglio soddisfare la loro nuova territorialità.

È indubbio che il cinema, dopo essere stato inserito nelle trasmissioni televisive, ha subito straordinarie trasformazioni, da un lato contribuendo alla qualità stessa della produzione seriale dei generi e dei formati della fiction televisiva, dall’altro lato ridefinendo il cinema destinato alle sale e infine il cinema destinato alla intera gamma di modalità di distribuzione e consumo realizzata dalla multimedialità e connessione digitale. Tuttavia a me pare che, da un punto di vista testuale, il film – ancora fortemente memore della sala cinematografica – conserva tuttora la sua pertinenza di tipico linguaggio della società di massa novecentesca. Ne ha sviluppato due dimensioni finendo per separarle nettamente tra loro: il cinema come traduzione e dunque reinvenzione del teatro e del romanzo, da un lato, e il cinema come meraviglia tecnologica, effetto speciale, estetica del sublime, avvicinamento progressivo alla terza dimensione e all’olografia, all’immersione integrale, dall’altro lato.

Il film conserva dunque un peso nell’immaginario che – in quanto originaria messa in scena ostentativa e frontale della maestà moderna – può e potrà essere un freno o uno stimolo per le pratiche espressive delle reti digitali (fondate sulla relazione, sulla interazione, sulla persona, sulla comunità, e via dicendo) e per quelle dei linguaggi virtuali, fondati sul fantastico, vera e propria apoteosi dell’immaginario moderno, post-moderno e forse anche anti-moderno proprio in quanto immaginario terminale, catastrofico, apocalittico. De-umanizzazione dell’umano. Immaginario della Fine. Per un verso la rete può favorire la dimensione distributiva del film come racconto e così sostituire, per intero o quasi, la tradizione del libro ma pur sempre dentro lo spazio della vista di derivazione alfabetica. Per altro verso le potenzialità espressive della digitalizzazione del mondo a favore di una sensibilità territoriale diffusa potrebbero raggiungere livelli di spettacolarizzazione ma anche di immersione corporea in grado di rilanciare l’intero universo simbolico del genere umano e al tempo stesso polverizzarlo. Dipenderà da quale sarà il punto di vista dominante sul destino economico-politico delle reti; da come il loro uso sociale sarà strategicamente negoziato dai conflitti di potere.

 

In uno dei suoi ultimi libri, L’occhio di Joker (2006), lei pone l’accento su come istituzioni come la scuola siano state in pratica definitivamente espropriate dei processi di formazione. In Il crepuscolo dei barbari pone l’accento sull’emersione dell’interiorità grazie alla Rete. Ci sembra ci sia connessione fra le due cose. È così?

 

La scuola e l’università sono state le istituzioni alle quali i regimi di senso della scrittura – le culture identitarie di classe tipiche del libro, della città, della cittadinanza e della politica, infine degli stati nazionali e delle relazioni internazionali – hanno affidato il compito di educare e formare l’individuo al lavoro e alle professioni, dunque di gettare le basi delle strategie progressiste di modernizzazione della società. Il regime chiuso, verticale, autoritario, sapienziale, militaresco delle aule scolastiche e accademiche non poteva reggere a lungo al potere di socializzazione del cinema e della televisione, che pur essendo regimi di senso affidati all’immagine frontale, hanno creato le premesse dell’intrattenimento dei consumi con l’esperienza quotidiana delle cose e poi la dimensione creativa dei consumi stessi. A partire dalla metà del Novecento la scuola e l’università hanno occupato un posto sempre più residuale. L’avvento dei new media ha creato l’illusione di potere ridare vita alle istituzioni della cultura ma era ormai troppo tardi per riuscire a sfondare le pareti del sapere e della didattica: lo spazio delle reti sta incrementando le dinamiche iniziate con l’industria dei media e cioè processi di autoformazione che attingono a regimi relazionali, centrifughi e glocal (ogni punto dei territori post-industriali si è fatto centro e periferia al tempo stesso). La qual cosa non comporta di necessità – e i segnali in tal senso non mancano – che nei territori digitali non si ricostituiscano le dinamiche, i soggetti e le strategie dei vecchi poteri e delle vecchie soggettività del tempo moderno e dei suoi regimi imperialisti.

 

Il dolore come cifra della condizione umana, ma anche della spinta a fare cultura è forse l’elemento più perturbante e stimolante del suo libro. Sullo sfondo ci sembra ci sia il richiamo ad uno degli esiti della coscienza nata con l’Umanesimo: la morte come traguardo definitivo e senza appello. Pure, alcuni sociologi scrivono di reincanto del mondo. Ci chiediamo se ci sia contraddizione fra i due fenomeni.

 

L’intera progressione socioculturale del soggetto moderno si è radicata nella dialettica tra comunità perduta e società a venire, dunque nel “principio speranza” di un possibile avvento di una democrazia reale, di un benessere universale, di una felicità futura in grado di sanare le ferite inferte all’umanità dalla violenza del contratto sociale e dei modi di produzione della civiltà capitalista. Ma il Capitale è solo la forma storica del generale desiderio umano di sopravvivenza, del singolo servo-padrone. Il progressismo tecnologico dei mercati ha continuamente rimosso le tragedie novecentesche, le forme di sterminio raggiunte dal potere. Il dolore delle vittime, così come la morte quotidiana di interi popoli lasciati ai margini della ricchezza occidentale. Questa logica lineare e salvifica delle forme di dominio è stata caratterizzata dall’incrocio tra processi di desacralizzazione del mondo e nuovi processi di sacralizzazione. Sino ad oggi. Dopo la morte di dio, ha trionfato la vita dell’essere umano che, specchiandosi nel divino, ne è risultato deluso e disperato.

L’oggetto-soggetto di culto di questi processi alterni è stato l’individuo, l’essere umano come identità, divina e insieme mondana, posta al di sopra di qualsiasi altro essere vivente. Identità sterminatrice e edificatrice al tempo stesso. Identità che è alla base di ogni sistematico fallimento dell’essere umano nella sua pretesa di distinguersi dalla violenza della natura, delle sue leggi fondate sulla potenza affermatrice e insieme mortale del più forte e sulla cecità del proprio destino. Identità che in nome dello spirito religioso (delle chiese e degli stati, infine degli imperi) ha inibito il senso riposto nel sacro, cioè nell’indicibile dell’essere umano e della sua appartenenza al mondo.

Per questo, insisto a dire che il punto di vista culturale da assumere ora – giunti al crepuscolo di una umanità affranta dalla crisi di ogni suo modello di sopravvivenza – non può che essere anti-umanista e avere la capacità di acquisire una sensibilità che sappia cogliere anche nelle componenti anti-umaniste dell’umanesimo una sola logica, quella dello sterminio e del dolore.

 


 

LETTURE

Abruzzese Alberto, Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Padova, 1973.

Abruzzese Alberto, La grande scimmia, Napoleone, Roma, 1979.

Abruzzese Alberto, Lo splendore della Tv, Costa&Nolan, Genova, 1995.

Abruzzese Alberto, L’Occhio di Joker, Carocci, Roma, 2006.

Benn Gottfried, Itaca, in Denckler, Secci, 1973.

Brancato Sergio (a cura di), Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series. Dinamiche di trasformazione della fiction televisiva, Liguori, Napoli, 2011.

Cacciari Massimo, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano, 1980.

Carroll John, Il crollo della cultura occidentale, Fazi, Roma, 2009.

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