Vivere in Un posto al sole
e in un tempo fuor di sesto

Il prodotto pop per eccellenza della televisione italiana, Un posto al sole, ha chiuso i battenti per evitare i rischi da contagio. Nelle ultime settimane in cui è andata in onda, la serie ha suo malgrado subito una mutazione narrativa. Un’epifania dei racconti a venire?

Il prodotto pop per eccellenza della televisione italiana, Un posto al sole, ha chiuso i battenti per evitare i rischi da contagio. Nelle ultime settimane in cui è andata in onda, la serie ha suo malgrado subito una mutazione narrativa. Un’epifania dei racconti a venire?


Fuori si iniziava a morire. In Italia si era ai primi di marzo (si muore ancora). Tra le mura domestiche si iniziava a resistere e lo si fa tuttora tra vecchie occupazioni e nuove pratiche inaugurate per ingannare la quarantena. No, occorre essere più precisi: fuori gli umani hanno iniziato a diradarsi mentre è dentro che le morti si sono moltiplicate. È un segno distintivo dell’attuale pandemia. Si muore nelle case di riposo, negli ospedali, nella propria abitazione, forse su un’ambulanza, questo è difficile a dirsi; di sicuro mai per strada, in nessun caso fuori, come nelle tante, innumerevoli scene del disastro che letteratura, cinema e più di recente anche le serie di nuova generazione ci hanno mostrato.
Si muore dentro, si resiste dentro, si combatte contro l’assalto, l’invasione dentro operata dal virus. Non è il caso di dilungarsi, si è visto, ascoltato e letto fin troppo. Tutto lo scenario relativo alla pandemia è essenzialmente blindato verso l’esterno, dove accade poco in relazione alle attività umane, poco al di fuori delle pratiche connesse alla sopravvivenza.

Dentro la fantascienza, dentro la realtà
Se c’è una profezia della fantascienza davvero avveratasi sul piano della vita privata, del quotidiano, delle relazioni personali è quella dell’inesorabile scivolamento nell’inner space di ballardiana memoria, concretizzatosi in termini letterali. La zona del disastro, per continuare con lo scrittore inglese, si è estesa privilegiando gli interni, dagli spazi più ampi di un pronto soccorso a quelli più angusti di un polmone. Fuori gli umani si sono diradati in misura diversa a seconda dei territori, delle fasi, delle ondate e delle curve epidemiche, dei controlli e delle regole, delle nuove norme straordinarie e dell’intera pletora delle eccezioni, nell’ampio arco che si estende da quelle severamente regolamentate dall’istituzione Stato a quelle – occorre dirlo – bizzosamente anti sistema, o anti qualcosa, purché si possa essere antagonisti. Anche qui un virus in azione, ben più antico: quello dell’idiozia.

Dentro si è iniziato presto a difendersi anche dall’informazione, dai bollettini, dai dibattiti, dalle opinioni, dai messaggi consolatori, dagli inviti alla resistenza rimanendo in casa, a quelli dalle occasioni di incontro per darsi un sostegno psicologico, ai consigli per coltivare l’inaspettato tempo libero che, quasi fosse una scoria di produzione, il virus ha prodotto e disseminato nell’esercizio delle sue funzioni, al netto degli straordinari imposti agli umani come genitori e lavoratori da casa.
È una delle molteplici attività collaterali dispiegate dal virus, non dimenticando neanche per un istante che il suo fine primo e ultimo consiste nel banale, mortale, inesorabile riprodursi senza fine, pur causando la morte dell’organismo ospite. Una logica riassunta alla perfezione da David Quammen nel suo Spillover:

“Sono davvero minuscoli, organismi con una struttura semplice ma ingegnosa, un’anomalia biologica che permette loro di risparmiare risorse ed è in certi casi diabolicamente subdola. Gli esperti non sono nemmeno certi che si tratti di veri e propri esseri viventi. Nel caso non lo fossero, ne sarebbero comunque un’eccellente imitazione: sono parassiti che competono con altre forme di vita, attaccano e sfuggono, combattono e obbediscono agli stessi imperativi di fondo, cioè sopravvivere e moltiplicarsi per perpetuare la discendenza”
(Quammen, 2014).

La banalità del male non è mai stata così immediatamente trasparente su larga scala come in questo caso. Questo agire su mille piani del virus, oltre il corpo, la carne, nelle istituzioni nella politica nell’economia, nella scienza, nel sociale, ha anche un impatto sostanziale sull’immaginario della catastrofe, sottraendogli fonti d’ispirazione, capacità di sedurre, finendo col minare alla radice quel patto che da sempre il fruitore di un prodotto culturale stipula con la finzione.

“Un nuovo giorno è qui anche per noi”
A provarlo sulla propria pelle, a contaminarsi, a subire l’inevitabile mutazione del corpo stesso della narrazione è stato il prodotto pop per eccellenza della televisione italiana, la soap nazionale più longeva e stabilmente seguita da un paio di milioni di irriducibili affezionati: Un posto al sole. Inevitabilmente, le riprese si sono dovute fermare. Stop, rischio di contagio troppo alto. La sera di venerdì tre aprile, alle 21.15, si è conclusa l’ultima delle 5.475 puntate andate in onda per ventitré anni, cinque mesi e tredici giorni, da quel 21 ottobre 1996 che diede il via alla saga della portineria di Raffaele Giordano e di tutti gli inquilini di Palazzo Palladini, dimora situata in quel di Posillipo a Napoli, nonché di uno stuolo di personaggi secondari, di personaggi altalenanti, perché anche Un posto al sole ha i suoi revenant e anche personaggi dello spettacolo e della cultura apparsi qui e là in camei nel segno dello stracult: Amanda Lear, Mario Merola, Carlo Croccolo, Barbara Bouchet, per fare qualche nome. Formula felice che ha incollato i telespettatori facendoli partecipi di un fandom acqua e sapone, adatto a tutti, ma abile come ogni passione che si rispetti nel generare dipendenza. Lo ha ricordato benissimo Luciano Del Sette su Alias, il Manifesto, il giorno dopo lo stop:

“Per 23 anni, 5 mesi, 13 giorni e 5.475 puntate, se gli amici proponevano una cena, dicevo sì, ma dopo le 21 e 15; se qualcuno «osava» telefonare a partire dalle 20 e 45, non rispondevo, o lo facevo durante il break pubblicitario; se ero in viaggio per lavoro, prima dell’avvento di Rai Play affidavo a persone intime il compito di aggiornarmi sul corso degli eventi. Agli inizi, lo confesso, nascondevo questa mia passione nel timore di venir deriso, o addirittura compatito. Poi, scoprendo in quanti eravamo e quanto crescevamo di numero, un giorno ormai lontano ho fatto outing: lo dichiaro con orgoglio, lo rivendico, grido al mondo, che sono un fan sfegatato di Upas, affettuoso acronimo della soap Un posto al sole”
(De Sette, 2020).

Formula magica, capace di condurci fuori dal quotidiano, trasportandoci nei territori della fiction anche spudoratamente, rimanendo al tempo stesso, per così dire, con i piedi per terra, soffermandosi sempre sull’attualità, vissuta in contemporanea con lo spettatore e l’elenco dei temi affrontati è lungo quanto eloquente, dalla violenza sulle donne all’emergenza criminalità, dalle tossicodipendenze all’ambiente, dal lavoro in nero alle romance scam (ovvero le truffe sentimentali online), dal bullismo all’omosessualità, fino alla recente introduzione nel flusso delle microstorie del transessuale Carla, solo per citarne alcuni. Formula perfetta, nonostante qualche tributo eccessivo al politicamente corretto. Perfetta fino a quando non è arrivato il virus.

“Un mondo più vero si sveglierà”
Via via che il contagio si estendeva, gli episodi continuavano a essere trasmessi, privi rispetto ad altri programmi tuttora in onda di qualsivoglia precisazione sullo stato di puntata preregistrata, quella scritta che recita “Programma registrato prima del D.P.C.M. sul Coronavirus”. È questo il dettaglio che ha segnato una differenza, un passaggio di stato. Un’assenza che per circa un mese ha posto Un posto al sole in un tempo fuor di sesto, innestando un silenzioso deragliamento dal suo statuto narrativo, così riassunto istituzionalmente sulla propria pagina Facebook:

“Per temi trattati […] presta particolare attenzione alla realtà quotidiana, alle tematiche sociali e alla valorizzazione delle location esterne utilizzate, il tutto raccontato in tempo reale tanto da rendere indicativo il termine di real drama utilizzato per definire la serie”.

Una narrazione che si è vista alterata, in un certo senso riscritta dal virus; una serie che da aderente alla nostra realtà si è trasformata in fiaba, o forse il contrario ha narrato un possibile reale mentre noi scivolavamo inesorabilmente nel pieno di una finzione distopica. Riecco la fantascienza, spuntata nel contesto meno idoneo, le faccende d’amore e d’affari di Un posto al sole. D’improvviso quel mondo si è trasformato in un universo parallelo che con il nostro condivideva assai poco, i territori e poco più. Qui, dentro il nostro universo un’invasione aliena, (Quammen lo ha insinuato: “gli esperti non sono nemmeno certi che si tratti di veri e propri esseri viventi”) fuori, nell’altro universo, abbozzi di nuovi flirt, una nuova inchiesta di camorra, coppie litigiose e qualche uscita di scena.

In quale dei due universi la narrazione è precipitata nell’immaginario fantascientifico? Nella storia distopica dove noi siamo i protagonisti, o in quella dell’universo parallelo dove impazzano Giordano e i suoi? “Anime vere / che cercano il sole / di un’altra realtà”, come recitano dei versi della sigla musicale. Un affondo radicale nel weird, inconcepibile anche dalle penne migliori in circolazione sul pianeta.

Un patto andato in pezzi
Non è tutto. Ancora fantascienza, ma vista da un’altra angolatura. Si è rovesciato qui in Italia, ai confini dell’impero, il meccanismo wellesiano dell’invasione marziana. Laddove il genio di Orson Welles aveva costellato di segnali finzionali la sua trasmissione per distinguerla dalla radiocronaca di un evento reale, ottenendo ciò nonostante di essere ritenuta veritiera, l’assenza di un’indicazione relativa allo sfasamento temporale delle puntate in corso ha spogliato la narrazione di Un posto al sole di qualsivoglia legame con la realtà, collocandola in una dimensione quasi da laboratorio dove distillare una finzione allo stato puro, non per la presenza ma per un’assenza di paratesto.
L’ingegno del virus di agire dentro i meccanismi vitali, quelli del corpo umano e anche quelli del raccontare, ha mostrato la potenza del suo agire, in prima serata, per una volta con gentilezza, facendo a meno della contabilità dei morti. Quel patto finzionale che ciascun lettore (in questo caso telespettatore) sottoscrive con chi narra una storia si è elevato a potenza con le ultime puntate di Un posto al sole.

Umberto Eco scrisse che “noi accettiamo il patto finzionale e facciamo finta che quello che egli [l’autore, nda] racconta sia veramente avvenuto” (Eco, 1994). Mai come in questo caso, quei due milioni di telespettatori hanno tacitamente accettato quella “sospensione dell’incredulità” di cui parlò Samuel T. Coleridge (cit. in ibidem), fingendo che in quei giorni la pandemia fosse tema per scienziati o per autori di fantascienza, mentre a Napoli, a Palazzo Palladini e dintorni nulla di tutto ciò fosse neanche vagamente nell’aria. Non è tutto, perché il nuovo virus, posta questa premessa, ha dato prova di imprevedibilità anche in questo contesto.
Paradossalmente, quelle settimane ne hanno mostrato l’invisibilità, facendo sì che, sospinto dal ghost writer chiamato tecnicamente SARS-CoV-2, Un posto al sole riagguantasse in questa chiave la sua mission quel programmatico real drama, mai così ben narrato come in questa occasione, proprio perché libero di incarnarsi nell’incantesimo delle vicende finanche stucchevoli dei personaggi che abitano Palazzo Palladini e i suoi dintorni. Il virus era sì in azione e proprio per questo invisibile, mutando Napoli da capoluogo campano simbolo del real drama di ogni città, tutte alle prese con un nemico invisibile che solo quando ha raggiunto volontà di potenza sufficiente ha sferrato l’attacco e si è manifestato.

Visioni proibite, pericolo perenne
Il virus SARS-CoV-2 è invisibile all’occhio umano come tutti i virus.
Le più terrificanti storie di sopravvivenza, non a caso, sono legate all’impossibilità collettiva di vedere il pericolo, il nemico. L’esemplare Cecità di José Saramago oppure Bird Box, il film prodotto da Netflix diretto da Susanne Bier nel 2018, non a caso dicono poco o niente sulla causa che rende tutti ciechi (tranne una donna) nel romanzo di Saramago, e sulle presenze inguardabili, pena la morte, nel film di Bier: ci raccontano drammaticamente che possiamo non essere in grado di vedere il nemico. Ecco il trauma interiore, la ferita dentro procurata dal virus. È possibile che sia stato questo virus ad archiviare definitivamente il Novecento, obbligando gli umani a misurarsi per la prima volta nello scenario della globalizzazione con una reale invasione aliena, che prova dare scacco matto al sistema in virtù di un’invisibilità insostenibile in un mondo così iperesposto come il nostro.

Ecco perché un possibile tampone salvavita in assenza di vaccino è la tracciabilità, al momento l’unico antidoto all’invisibilità del virus. Al momento, di fronte al nemico invisibile, il mondo eretto sulle fondamenta della trasparenza, della visibilità, della certezza tecnologica, della ragione si è trasformato in storia, in ieri, in prima; ritorna con nuova autorità il mantra “niente sarà più come prima”. Ancor più radicale riecheggia il sommesso incipit di Com’è “io cito com’era prima di Pim con Pim dopo Pim com’è” (Beckett, 1961), che la voce narrante propone in reiterate variazioni, strisciando in un mondo senza luce.
Dopo: in che misura e come le narrazioni muteranno, non solo quella di Un posto al sole? Chiederselo a questo punto sarà chiaro che non è una domanda solo per i fan della soap.
Difatti, non solo la fiction di Rai 3 ha subito l’attacco virulento del virus. Questi ha iniziato progressivamente a insinuarsi dentro i racconti pubblicitari, dando vita a un’unione innaturale di messaggio commerciale e comunicazione sociale con reiterati inviti a restare a casa e all’augurio di veder tornare tempi migliori. Dunque, ci attende un futuro di finzioni assolute? Di variazioni distopiche sul tema? Di cronache dei giorni dell’emergenza? Di vita quotidiana all’insegna della massima “la fantascienza è diventata realtà”? Di fiction che spensierate proveranno a rimuovere la ferita? Inutile azzardare ipotesi, lo scaltro genio del virus potrebbe rimescolare ancora le carte. In ogni caso, qualcosa resterà sempre o almeno a molto a lungo incomprensibile: se abbiamo visto una versione aliena di Un posto al sole in quel mese fuor di sesto, una versione proveniente da un altro universo, allora chi ha continuato a vedere la nostra versione di Un posto al sole? Il virus?

Letture
  • Samuel Beckett, Com’è, Einaudi, Torino, 1965.
  • Luciano Del Sette, Si ferma anche Un posto al sole, Alias, il Manifesto, 4 aprile 2020.
  • Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, La Nave di Teseo, Milano, 2018.
  • David Quammen. Spillover. L’evoluzione delle epidemie, Adelphi, Milano, 2014.