Psicanalisi e primo contatto
tra totem, tabù e alieni

György Pálfi
His Master’s Voice
Cast principale: Csaba Polgár, Kate Vernon, Eric Peterson, Marshall Williams, Benz Antoine
Produzione: KMH Film, 2018
Distribuzione: CG Digital, 2019

James Gray
Ad Astra
Cast principale: Brad Pitt,

Tommy Lee Jones, Ruth Negga,
Liv Tyler, Donald Sutherland
Produzione: 20th Century Fox,
Regency Enterprises, Bona Film Group,
New Regency, Plan B Entertainment,
Keep Your Head Productions,
RT Features, MadRiver Pictures,
TSG Entertainment
Distribuzione:
20th Century Fox, 2019

György Pálfi
His Master’s Voice
Cast principale: Csaba Polgár, Kate Vernon, Eric Peterson, Marshall Williams, Benz Antoine
Produzione: KMH Film, 2018
Distribuzione: CG Digital, 2019

James Gray
Ad Astra
Cast principale: Brad Pitt,

Tommy Lee Jones, Ruth Negga,
Liv Tyler, Donald Sutherland
Produzione: 20th Century Fox,
Regency Enterprises, Bona Film Group,
New Regency, Plan B Entertainment,
Keep Your Head Productions,
RT Features, MadRiver Pictures,
TSG Entertainment
Distribuzione:
20th Century Fox, 2019


A Péter non importa nulla delle chiacchiere del padre sul misterioso messaggio extraterrestre che per anni ha cercato di decrittare, ossessionandolo al punto da tesserlo in codice binario su coperte di lana che riempiono un box in giardino. A Péter importa solo che il padre risponda alla sua domanda: “Perché te ne sei andato?”. È qui che si compie il mutamento di paradigma delle nuove storie sul primo contatto. Mentre il romanzo di Stanislaw Lem La voce del padrone (1968) è tutta una lunga relazione sul fallimento del progetto eponimo con cui l’umanità ha cercato di interpretare le strane emissioni neutriniche di natura artificiale provenienti dallo spazio, senza alcuna concessione ad approfondimenti di natura personale, l’adattamento cinematografico dell’ungherese György Pálfi His Master’s Voice (2018), ora disponibile anche per lo spettatore italiano nella versione con sottotitoli proposta dal servizio di streaming di CG Entertainment, è tutto concentrato su una classica storia di ricerca del padre scomparso.

Il celebre scienziato Hogarth, infatti, a capo di un progetto segreto americano considerato responsabile di alcune misteriosi morti per “autocombustione”, non è altri che il padre di Péter, fuggito una notte dalla sua casa in Ungheria per scavalcare la cortina di ferro e rifarsi una vita in America, l’unico luogo dove avrebbe potuto realizzare sul serio il suo sogno di una brillante carriera scientifica.
Curiosamente, anche un altro recentissimo film sul primo contatto finisce per mettere in secondo piano il tema della ricerca di E.T. a favore della ricerca del padre scomparso: è Ad astra (2019), film di James Grey che ruota tutto intorno al protagonista interpretato da Brad Pitt. Anche se apparentemente Pálfi e Grey sono registi che non hanno nulla in comune, il primo, celebre per il suo grottesco Taxidermia (2006), ama la visionarietà al limite della schizofrenia, mentre Grey è decisamente un regista hollywoodiano convenzionale, i loro due film sono emblematici di un nuovo approccio al tema classico della fantascienza, quello del primo contatto con l’intelligenza extraterrestre.

Il trauma del “grande silenzio”
In un articolo sulla rivista americana Jacobin, Leigh Phillips ragiona su come la fantascienza cinematografica si stia spostando sempre più verso un atteggiamento scettico se non francamente pessimista nei confronti della possibilità che nell’universo esistano altre forme di intelligenza con le quali potremo un giorno entrare in contatto.

Phillips cita, oltre che Ad astra, anche Moon di Duncan Jones (2009), Gravity di Alfonso Cuarón (2013), Interstellar di Christopher Nolan (2014), The Martian di Ridley Scott. Ad accomunare questi film è proprio il fatto che offrono una visione del nostro futuro interplanetario o anche interstellare, dove non c’è spazio alcuno per altre civiltà intelligenti. Un approccio realistico, potremmo dire, che però si scontra col fatto che la fantascienza spaziale ha tradizionalmente cercato di eludere l’approccio ingegneristico e antropocentrico della colonizzazione spaziale mettendo in scena, ogni volta che era possibile, l’incognita aliena. Film iconici da questo punto di vista sono ovviamente 2001: Odissea nello spazio (1968) e Alien (1979), in cui l’espansione umana nello spazio, fino ad allora avvenuta senza sorprese, si scontra improvvisamente con l’incontro con l’altro. Scrive Phillips:

“Questa tendenza del realismo cosmico non è solo la rappresentazione cinematografica di una cruda, emergente consapevolezza riguardo la nostra possibile unicità nel cosmo, la profonda, inospitale desolazione dell’universo, e riguardo l’inseparabilità dell’umanità dal nostro ecosistema. Essa risponde alla destabilizzazione psicologica che questa consapevolezza provoca non con una ritirata, ma con un rinnovato impegno verso l’umanità e verso lo spazio” (Phillips, 2019).

La destabilizzazione psicologica di cui parla Phillips è in realtà molto più profonda di quanto appaia. Infatti, il problema del “Grande Silenzio”, del silentium universi, o del “silenzio inquietante”, per citare il titolo del libro di Paul Davies The Eerie Silence sulla ricerca di intelligenza extraterrestre, rappresenta la versione moderna del problema del “silenzio di Dio” (silentium dei). Presente già nella Bibbia, riguardava il fatto che quel “Dio degli eserciti” che apparentemente aveva concesso i suoi favori al popolo ebreo a un certo punto si eclissava, consentendo che si consumassero grandi tragedie come quella della cattività babilonese, preludio peraltro alla grande diaspora che sarebbe iniziata dopo la distruzione di Gerusalemme da parte delle armate romane, per tacere (qui sì che il silenzio di Dio diventa assordante) della Shoah. Ma anche ai commentatori medievali e poi a quelli successivi il problema doveva essere ben presente: com’era possibile che quel Signore che a ogni piè sospinto, nell’Antico Testamento, parlava ai suoi prescelti, imbastendo persino serrati dialoghi, e che nel Nuovo Testamento addirittura era apparso in forma incarnata sulla terra, compiendo miracoli a iosa, non faceva più sentire la sua voce?

Tutta colpa di Sigmund Freud
Sia His Master’s Voice che Ad Astra insistono su questo parallelismo. Il matematico Peter Hogarth afferma convintamente che interpretare il messaggio intelligente proveniente dalle stelle significherebbe riaprire il contatto con Dio e, dopo il fallimento del progetto “Voce del padrone”, trova consolazione nella partecipazione a cori gospel evangelici. Clifford McBride, a capo del Progetto LIMA, ha perso la testa al punto da parlare dei suoi collaboratori come dei suoi “fedeli”, colpevoli di non avergli creduto e di essersi rivoltati, e ha sostituito alla ricerca scientifica una fede cieca in un primo contatto che ha assunto ormai per lui i connotati di una manifestazione divina.
Nell’incipit del film scopriamo che Ad Astra è ambientato “in un tempo di speranza e di conflitto”, in cui “l’umanità guarda alle stelle in cerca di vita intelligente e con la promessa di progresso”. Siamo dalle parti di Interstellar, dove l’umanità messa in ginocchio dalla devastazione ambientale spera che la scoperta del wormhole artificiale al largo di Saturno sia la manifestazione di un miracolo che la salverà dall’inesorabile estinzione. La scoperta che non c’è speranza per l’umanità tra le stelle porta alla follia tanto il dottor Mann in Interstellar che il capitano Clifford in Ad Astra, mentre Hogarth tutto sommato continua a coltivare la fede nella possibilità che un giorno qualcuno comprenderà il messaggio alieno che egli testardamente continua a replicare nella trama delle coperte di lana a cui lavora ascoltando canzoni religiose.


Roy McBride (Brad Pitt) precipita dall’ascensore spaziale danneggiato da un picco di energia nelle scene iniziali di Ad Astra.

Ora prendiamo Freud, che nel romanzo La voce del padrone Hogarth definisce “il Tolomeo della psicologia grazie al fatto che, sulle sue tracce, chiunque ormai piò spiegare i fenomeni umani costruendo epicicli su epicicli” (Lem, 2010). In Totem e tabù (1913) Freud sostiene che le antiche civiltà condividano il senso di colpa rimosso del parricidio, come sarebbe evidente dal fatto che l’Esodo tace del destino di Mosè, evidentemente ucciso dai suoi fedeli che aveva fatto errare senza meta per quarant’anni nel deserto con la promessa di una terra “dove scorrono latte e miele” che non si vedeva da nessuna parte. Gli ebrei, ucciso Mosè, dimenticano questo scandalo primigenio, proiettando il loro bisogno di un padre-guida in Jahvè, il Dio ebraico predicato da Mosè stesso (che Freud, ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica, riteneva mutuato dal dio Aton del faraone eretico Akhenaton):

“La psicanalisi ci ha fatto capire l’intimo collegamento tra complesso del padre e la fede in Dio; ci ha mostrato che un Dio personale, psicologicamente, non è altro che un padre ingigantito” (Freud, 2019).

Va da sé che, dopo aver ucciso anche Dio nell’età secolare, con qualcosa dovremmo pur sostituirlo. Ebbene, dove potremmo cercare oggi un’entità onnipotente e onnisciente, che vive “nei cieli” e di cui attendiamo fideisticamente l’avvento per liberarci dai drammi del nostro presente e condurci alla “vita eterna”? Una civiltà intelligente extraterrestre ha tutte le caratteristiche per prendere il posto di Dio, come del resto metteva in evidenza già il romanzo Contact (1985) di Carl Sagan da cui Robert Zemeckis trasse un fortunato film (1997).

Il matematico ungherese naturalizzato americano Hogarth (Eric Peterson) in His Master’s Voice.

Anche qui, peraltro, la protagonista Ellie Arroway cresce con il trauma della morte prematura del padre Ted (non c’è nessun parricidio qui, almeno apparentemente), finché durante il suo viaggio interstellare verso Vega incontra un essere alieno che si relaziona a lei proprio attraverso le fattezze del padre. Analogamente in Interstellar il rapporto padre-figlia tra Cooper e Murphy è al centro della narrazione e alla fine scopriamo che quelli che le “entità” che si manifestano attraverso la caduta di libri nella stanza di Murphy, inizialmente presi per “alieni”, altri non sono che Cooper: il padre di Murphy si trova infatti nel tesseratto al centro della singolarità del buco nero, nel quale può viaggiare a suo piacimento nello spazio-tempo. Non sono stati gli alieni a creare il wormhole di Interstellar, ma gli esseri umani del futuro. Di nuovo, la ricerca dell’altro, dell’alieno, si conclude con la (ri)scoperta del padre, allegoria del Padre perduto della nostra società secolare.

Sentimenti filiali di un parricida
Senonché con His Master’s Voice e Ad Astra Freud ottiene una vittoria completa. E non solo perché in Ad Astra il povero Brad Pitt è sottoposto continuamente e ossessivamente a test psicologici che dimostrano che il nostro futuro sarà governato dalla psicanalisi freudiana eletta a sistema di controllo e oppressione, ma perché in entrambi i film la ricerca del padre (attenzione, spoiler!) si conclude con un parricidio.
Nella trasposizione di György Pálfi Hogarth finisce ucciso in un apparente incidente, probabilmente voluto dai poteri forti, ma implicitamente provocato dall’altro figlio abbandonato in Ungheria, il paraplegico fratello di Péter, invidioso del fatto che l’altro, ritrovato il padre in America, se la stia spassando con le sue costose auto, i suoi motoscafi e le sue piscine. Nel film di James Grey Clifford, già scampato per un pelo al tentato “parricidio” da parte dei suoi “fedeli” che, come con Mosè, non volevano più saperne della Terra Promessa ma solo tornare a casa dopo ventinove anni di insuccessi del Progetto LIMA, costringe il figlio, venuto a recuperarlo fino a Nettuno, a ucciderlo abbandonandolo nel vuoto. In entrambi i casi peraltro i genitori non mostrano pentimento per quello che hanno fatto.


Il figlio di Hogarth, Péter (Csaba Polgár), giunto in America in cerca del padre in His Master’s Voice.

La ricerca del padre si conclude con il parricidio, non scioglie positivamente l’intreccio. Non è possibile entrare in contatto con altre intelligenze là fuori. Siamo soli, senza padri di qualsivoglia natura. Qui interviene Stanislaw Lem e la sua teoria dell’incomunicabilità. Perché per Lem non è affatto detto che l’universo sia vuoto né che Dio non esista; anzi, logica vuole che entrambi esistano. Ma tutte le evidenze ci mostrano che non riusciamo a comunicare con loro. Il silentium dei e il silentium universi sono dovuti al fatto che non sappiamo né ascoltare né parlare con coloro che si trovano in cielo.
Nel suo capolavoro, Solaris (1961), Kris Kelvin si abitua all’idea che l’unico modo per entrare in contatto con l’imperscrutabile intelligenza aliena del pianeta Solaris sia attraverso i fantasmi di neutrini che Solaris produce, dando loro la forma di persone con cui gli scienziati della stazione spaziale in orbita intorno al pianeta hanno evidentemente sensi di colpa irrisolti: è il caso di Harey, la giovane moglie di Kris suicidatasi alcuni anni prima, che ritorna in forma fantasmatica su Solaris. Come un insondabile psicanalista, il pianeta dà forma ai traumi degli scienziati costringendoli ad affrontarli. Sembra quindi che, in qualche modo, per poter entrare in contatto con le intelligenze altre dobbiamo innanzitutto risolvere i conti in sospeso con quelle con cui abbiamo normalmente a che fare.

Il complesso di Lem
I protagonisti di His Master’s Voice e Ad Astra ignorano non solo il destino del padre, ma anche la sua reale personalità. Non sanno perché sia andato via, cosa gli abbia detto la testa. Quel padre è per loro come un alieno. L’idea di Lem è sostanzialmente la stessa: ciascun essere umano è un alieno agli occhi degli altri, perché ciascuno nasconde agli altri e a volte anche a sé stesso i suoi veri pensieri, la sua vera intenzionalità.


Una visione onirica di Péter in His Master’s Voice: un gigante orbo lo afferra e lo divora, riferimento al mito di Crono.

Nel film di Pálfi la figura paterna viene a un certo punto evocata attraverso un gigante orbo che, mentre il protagonista cerca di scoprire chi sia, lo divora, del tutto incurante di lui. Così come i figli cercano di uccidere il padre, il padre cerca di uccidere i figli: è il complesso di Crono, in questo caso, e del resto Clifford in Ad Astra è del tutto incurante del fatto se, a causa del suo progetto, i picchi di raggi gamma uccideranno anche il figlio. In questo corpo a corpo simbolico viene messo in scena il dramma lemiano dell’alienità e dell’incomunicabilità: i genitori non capiscono i figli ma sono convinti di poter capire un messaggio alieno. Follia pura, destinata ovviamente al fallimento. Anche in Contact gli alieni, rispedendo indietro Ellie, le ricordano che gli esseri umani devono prima maturare per poter sperare di costruire un contatto con altre civiltà nell’universo. Non c’è nessun deus ex machina tra le stelle, nessuna salvezza, nessun padre che risolverà i problemi irrisolti dei figli e, di conseguenza, dell’umanità. In Interstellar, gli alieni si rivelano esseri umani del futuro, a suggerire ancora una volta che l’umanità deve risolvere da sé i propri problemi senza sperare che lo faccia qualcun altro. Questa è anche un’elegante soluzione al problema tanto del silentium universi quanto del silentium dei. Una delle più note soluzioni al paradosso di Enrico Fermi sul perché non abbiamo ancora incontrato civiltà extraterrestri è la cosiddetta “ipotesi dello zoo”: siamo una riserva protetta, isolata dal resto del chiacchiericcio cosmico, perché ancora non sufficientemente maturi.


Péter davanti a una foto del padre appena giunto in America in His Master’s Voice.

È l’idea alla base della Prima direttiva di Star Trek e della politica degli alieni di Contact. Loro ci sono, ma non parleranno con noi finché non saremo pronti. Anche Dio potrebbe fare lo stesso: attende paziente la maturazione dei suoi figli per restaurare il dialogo con loro, come un padre che, dopo aver visto il figlio andarsene via di casa e interrompere le comunicazioni, aspetta paziente che rinsavisca e si rifaccia vivo.
Se vogliamo ripescare Freud allora, ecco spiegate le trame di His Master’s Voice e di Ad Astra: padri e figli che si cercano e che tornano a parlare non sono solo la metafora migliore che abbiamo per capire il nostro bisogno di cercare Dio o civiltà extraterrestri, ma anche la conditio sine qua non per ottenere una risposta. L’esito dell’altra strada, quella che stiamo seguendo oggi, è rappresentata nelle scene “fantascientifiche” di His Master’s Voice, frutto delle visioni allucinate del fratello di Péter, trasposizione di un altro romanzo di Lem, Il pianeta del silenzio (1986): di fronte all’impossibilità di instaurare un contatto con una civiltà aliena, furiosi per questo mutismo, incapaci di comprendere la natura di un simile silenzio, la distruggiamo in preda alla rabbia, come un bambino che rompe il giocattolo che non si presta al suo gioco. “Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi” (Lem, 2013).

Letture
  • Stanislaw Lem, Il pianeta del silenzio, Mondadori, Milano, 1988.
  • Stanislaw Lem, La voce del padrone, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
  • Stanislaw Lem, Solaris, Sellerio, Palermo, 2013.
  • Leigh Phillips, What If We Really Are Alone in the Universe?, Jacobin, settembre 2019.
  • Carl Sagan, Contact, Bompiani, Milano, 1986.
Visioni
  • Alfonso Cuarón, Gravity, Warner Home Video, 2013.
  • Duncan Jones, Moon, Sony Pictures Home Entertainment, 2009.
  • Christopher Nolan, Interstellar, Warner Home Video, 2014.
  • Ridley Scott, The Martian, 20th Century Fox Entertainment, 2015.
  • Robert Zemeckis, Contact, Warner Home Video, 1997.