Nata sotto il segno dell’Acquario


Tomaso Walliser
Easy to Learn, Hard to Master:
The Fate of Atari
Cast: Bil Herd, Nolan Bushnell, Manny Gerard,
Ray Kassar, Al Alcorn

Distribuzione (home video):
CG Entertainment, 2017


Tomaso Walliser
Easy to Learn, Hard to Master:
The Fate of Atari
Cast: Bil Herd, Nolan Bushnell, Manny Gerard,
Ray Kassar, Al Alcorn

Distribuzione (home video):
CG Entertainment, 2017


Nolan Bushnell è certamente uno degli uomini più influenti del secolo scorso, poiché è stato il primo a intuire le potenzialità commerciali del videogame guadagnandosi l’appellativo di padre dell’industria videoludica. Durante gli anni passati a studiare ingegneria all’Università dello Utah, come tanti altri studenti suoi coetanei Bushnell ha avuto modo di giocare a Spacewar!, un gioco sviluppato nel 1962 da un gruppo di hacker del MIT (Massachusetts Institute of Technology) capitanati da Steve Russel, e diffuso in molte delle Università statunitensi perché distribuito insieme al PDP-1 (Programmed Data Processor-1), uno dei primi computer che gli studenti furono in grado di utilizzare in autonomia, senza l’ausilio di tecnici specializzati. Insieme a Ted Dabney, Bushnell elaborò una sua versione del gioco, Computer Space (1971), in linea di principio simile all’originale ma con una sostanziale differenza: per farla funzionare il giocatore doveva inserire una moneta nell’apposita fessura. Fu il primo passo in direzione di Atari.

Easy to Learn, Hard to Master: the Fate of Atari (2017) è un documentario che attraverso un uso divertente e misurato del montaggio fa dialogare tra loro i personaggi che hanno fatto nascere, crescere e morire Atari, e che più di molti dei volumi dedicati alla prima azienda dell’industria videoludica mette in evidenza come, prima di essere sradicato per motivi commerciali, il seme della tecnologia ha affondato le proprie radici in un terreno fertilissimo che poco aveva a che fare con i suoni futuristici e le luci artificiali dei laboratori: quello della controcultura e dei movimenti giovanili. Bushnell e i suoi, infatti, furono non solo pionieri del nuovo medium, ma veri e propri pilgrim father della Silicon Valley.

Questa è l’alba dell’Era dell’Acquario
“Quando la Luna è nella Settima Casa/ e Giove è allineato con Marte/ allora la pace guiderà i pianeti/ e l’amore guiderà le stelle/ Questa è l’alba dell’Era dell’Acquario”. Con questi versi i giovani hippie di Hair (Forman, 1979) esprimevano una sensazione che all’inizio degli anni Settanta era condivisa da molti dei loro coetanei (la pellicola di Forman riprendeva il musical mandato in scena a Broadway nel 1967): quella di stare vivendo un’epoca nuova, e di avere l’opportunità di ricostruire con la pace e la fratellanza tutto ciò che la guerra non aveva ancora smesso di distruggere. Versi, quelli di Hair, che ben si inseriscono in quello che Ernesto Assante e Gino Castaldo chiamano il “vocabolario di una rivoluzione mancata” o, piuttosto, immaginata: “i termini di questo lessico provenivano da artisti che una condizione storica e irripetibile avrebbero portato ad essere evangelizzatori di massa, artisti che in altri mondi, in altre epoche, sarebbero stati underground, culti elitari, avanguardie sparute. […] Il vocabolario dell’immaginaria rivoluzione fu costruito così, tra versi magnifici e irregolari, […] viaggi che diventavano l’epica del Nuovo Mondo (geneticamente nomade, anarchico, antiautoritario)” (Ansante, Castaldo, 2009).
L’Era dell’Acquario, astrologicamente parlando portatrice di grandi cambiamenti, rimise in discussione sia il modo di vedere la società, sia la cultura: l’arte, con movimenti come Fluxus, la scienza, con gli esperimenti di Timothy Leary e l’antipsichiatria di David Cooper, la musica (i Doors, Jimi Hendrix e Janis Joplin, per citarne alcuni), il cinema (Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni, 1970), e la letteratura (Operating Manual for Spaceship Earth, Richard Buckminster Fuller, 1969). A subire questa “influenza astrale” furono anche la tecnologia (video) e il gioco; due media che, pur non essendo riconosciuti (al tempo e ai più) potenzialmente in grado di produrre arte, stavano per dimostrare il contrario.

New Game Movement: “Play hard, Play Fair, Nobody Hurts
Il movimento New Game nasce proprio in questi anni, e l’obiettivo di coloro che ne facevano parte era promuovere un modo di giocare nuovo, non basato sull’antagonismo ma sulla condivisione e sulla collaborazione, trattando argomenti come “i problemi legati all’ambiente, il design sostenibile, e gli approcci alla pace negli anni tumultuosi della guerra in Vietnam” (Flanagan, 2009). Tra gli esponenti di spicco, figuravano l’ecologista americano Stewart Brand, autore della rivista The Whole Earth Catalog pubblicata a San Francisco tra il 1968 e il 1972 (e citata da Steve Jobs per la famigerata frase “stay hungry, stay foolish”), e Bernie de Koven. Quest’ultimo, game designer e teorico del gioco, autore di The Well-Played Game (Doubleday, 1978) e di uno dei primi artgame della storia del videogame (Alien Garden, Epyx, 1982), nel 1971 aveva fondato The Games Preserve, una sorta di buen retiro situato in Pennsylvania nel quale esplorare “nuovi modi di giocare, più spirituali e riflessivi”. A proposito di The Games Preserve, de Koven ha dichiarato: “Non abbiamo mai guadagnato niente. Non era una fonte di rendita. […] Ho preso tutti i soldi contenuti nel nostro barattolo, e ho cercato di mettere insieme una somma appena sufficiente per un viaggio di sola andata in California” (Jason Johnson, 2013).

La California rappresentava per molti una sorta di Terra Promessa, dove il genius loci si manifestava in tutta la sua potenza offrendo a chiunque idee e forza creativa: “Meta prediletta di esodi e fughe esistenziali, stazione d’arrivo dalla Frontiera, esaltata da allegorie bibliche come un giardino dell’Eden, era una terra rigogliosa e fertile dove poter ricostruire vite spezzate dalle crisi che devastavano la società americana” (Assante, Castaldo, 2009). Tuttavia, nonostante queste allettanti premesse, le idee di de Koven erano molto chiare, poiché sperava di svolgere il suo lavoro da game designer in Atari. Non fu assunto, forse a causa del fatto che non era un programmatore e a quel tempo i dipendenti Atari erano perlopiù ingegneri, ma c’è da chiedersi come mai proprio uno spirito libero come de Koven volesse lavorare in un’azienda che stava cercando di imporsi sull’industria dell’intrattenimento.

In origine fu Syzygy
La verità è che Atari, almeno sino al momento in cui fu venduta alla Warner Communications nel 1976, era una società molto diversa dalle altre; e non poteva essere altrimenti dato che, come ribadisce più volte Bushnell in Easy to Learn, è nata sotto il segno dell’Acquario. Non è dunque un caso se il primo nome scelto per la neonata azienda (scartato perché già utilizzato) fosse Syzygy Sebbene lo stesso Bushnell, intervistato su gooddealgames.com, abbia dichiarato che la scelta del termine fu dovuta al fatto che l’aveva trovato nel dizionario e gli era sembrato cool per l’assenza di vocali, difficilmente si può pensare al termine Syzygy (Sizigia in italiano) come una scelta del tutto casuale: tale nome indica, infatti, una condizione astronomica particolare, durante la quale la Luna, il Sole e la Terra si trovano sulla stessa linea.
Allo stesso modo, quando Scienza, Storia e personalità brillanti si sono allineate sotto il cielo della California hanno dato vita a una “compagnia tecnologica dell’Acquario”, lontana dalle formalità e dalle rigidità delle aziende che al tempo si occupavano di tecnologia. Ed Rotenberg, che si occupava della creazione di giochi arcade in Atari, nella sua intervista ricorda con il sorriso quell’irripetibile momento: “c’erano feste ogni venerdì, e le persone stavano semplicemente insieme. Parlavano, e giocavano ai giochi di tutti proponendo idee”. Il culmine della visione di Bushnell fu forse raggiunto con la collaborazione con una dozzina di esperti della Grass Valley, veri e propri “monaci” che dedicavano tutto il loro tempo alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie in un luogo “rurale, un buon posto dove pensare e stare all’aria aperta”.

Quando, nel 1978, la Warner chiese a Ray Kassar, vicepresidente delle Burlington Industries (colosso dell’industria tessile) di prendere le redini di una Atari ormai in crisi, quest’ultimo si ritrovò a gestire un’azienda con dinamiche ben diverse da quelle a cui era abituato. A tal proposito Manny Gerard, il dirigente Warner che avviò la trattativa per l’acquisto di Atari, ha affermato: “a essere sinceri, quello a cui non eravamo abituati era la cultura della Silicon Valley”. Per dirlo con le parole di Allan Alcorn, si trattava di un vero e proprio scontro culturale. Kassar, che non sapeva nulla di tecnologia e videogame e rappresentava un modo di fare affari appartenente a un’epoca precedente, pose fine alla società dell’Era dell’Acquario e imparò, a sue spese, quanto la nuova generazione di creativi tecnologici fosse, proprio come il “gioco perfetto” immaginato da Bushnell, “difficile da gestire”.

Letture
  • Ernesto Assante, Gino Castaldo, Il tempo di Woodstock, Roma, Laterza, 2009.
  • Scott Cohen, ZAP! The Rise and Fall of Atari, New York, McGraw-Hill, 1984.
  • Mary Flanagan, Critical Press, Cambridge (Massachusetts), MIT Press, 2009.
  • Jason Johnson, Inside the failed, utopian New Games Movement in killscreen.com, 25 ottobre 2013.
  • Michael Z. Newman, Atari Age. The Emergence of Video Games in America, Cambridge (Massachusetts), MIT Press, 2017.
  • Tomaso Walliser, Cecilia Botta, Bit Pop Revolution. Gli hippie che inventarono il futuro, Milano, Hoepli, 2013.
Visioni
  • Allan Alcorn, Pong, Atari, 1972 (videogame).