Lo cunto de li cunti…
della contea del Kent


Valerio D’Onofrio, Valeria Ferro
I 101 racconti di Canterbury
Viaggio nella storia
di una (non) scena
Crac Edizioni,
Falconara Marittima, 2017
pp. 302, € 18,00


Valerio D’Onofrio, Valeria Ferro
I 101 racconti di Canterbury
Viaggio nella storia
di una (non) scena
Crac Edizioni,
Falconara Marittima, 2017
pp. 302, € 18,00


L’uscita di questa ricognizione sulla musica di Canterbury, ovvero di quella che, come sottolineano giustamente gli autori, è di fatto una “non scena” musicale, offre il destro per parlare del rinascente interesse a livello editoriale verso un movimento che, chiusa la propria fase storica alla fine degli anni Settanta (all’epoca fu ammirevole il lavoro pionieristico di divulgazione in Italia da parte di Riccardo Bertoncelli con libri e riviste), è quasi sempre stato oggetto di pubblicazioni indipendenti, autoprodotte o di fattura artigianale, confinate ai margini della pubblicistica musicale.
Esemplare è il caso di Facelift, fanzine ciclostilata in proprio su fogli A4 da un certo Phil Howitt in UK: una ventina di numeri tra il 1989 e il 1999, con notizie di prima mano su Soft Machine e soci, interviste esclusive e recensioni, oppure, l’italiana Musiche, in questo caso una rivista vera e propria: 18 numeri tra la primavera del 1988 e quella del 1997. A dire la verità le antenne di Musiche intercettavano segnali che non provenivano solo dal Kent, ma da altri mondi più o meno apparentati: free jazz, RIO, avanguardia, Zappa e discepoli, e così via. In ogni numero o quasi, comunque, non mancava mai un’intervista a qualche eroe canterburiano e aggiornamenti d’ogni tipo. Un po’ anche lo stile della francese Notes, animata dal vulcanico Philippe Renaud, custode, tra l’altro di un preziosissimo archivio di nastri di “famiglia”, e che, dal gennaio 1994, si è trasformata in Improjazz con un accento ancora più marcato sulle musiche improvvisate (dieci uscite annuali).
Al di là questi ambiti molto circoscritti, però, negli anni Ottanta e Novanta poco o nulla circolava su Canterbury: il primo a portare la scena fuori dalle congreghe dei super appassionati, prima del Web, è stato il compianto Michael King con Wrong Movements: A Robert Wyatt History nel 1994 (arrivato in Italia con il titolo Falsi movimenti, tradotto da Alessandro Achilli, uno dei fondatori e direttori di Musiche). Segue più di 10 anni dopo un’altro caposaldo delle saggistica canterburiana: Soft Machine Out Bloody Rageous di Graham Bennett uscito nel 2005, premiato tra l’altro con un award per la ricerca storica in materia musicale, revisionato e aggiornato tre anni fa. E arriviamo a oggi con ben due libri su Wyatt in italiano: la biografia autorizzata firmata da Marcus O’Dair, Different Every Time (2015) tradotta sempre da Achilli e La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voce: unlimited di Leonardo Vittorio Arena. Da ricordare anche Soft Machine 1968-1981 di Carlo Pasceri, pubblicato quest’anno, e Swingin’ Canterbury: viaggio nella provincia del rock progressivo britannico: 1967-1981 di Michele Coralli, ben scritto e documentato.

Spostandoci ancora al di là delle Alpi, è appena uscito il monografico Robert Wyatt – Rock Bottom di Philippe Gonin e, sempre rimanendo in territorio francese, quella che alcuni hanno definito l’opera definitiva sul genere, uscita lo scorso anno. Si tratta de L’école de Canterbury del super esperto Aymeric Leroy, già animatore del sito Calyx, per i tipi di Le mot et le reste: 736 pagine fitte di storie, date, dischi, aneddoti, interviste e notizie inedite su tutto quello che uno vorrebbe conoscere sulla genealogia dei gruppi, le loro vicende, evoluzioni, ramificazioni, intersecazioni, sperimentazioni e quant’altro.
In questo scenario, il libro di D’Onofrio e Ferro non fa che contribuire, grazie a un efficace stile divulgativo e diretto, a estendere il livello di conoscenza di una scena che pur avendo chiuso i battenti quasi quarant’anni fa, sta imprevedibilmente vivendo una singolare “esposizione” editoriale; qui, tra l’altro, non citiamo le voci della Rete, dai gruppi Facebook ai blog e ai siti specializzati, che quotidianamente si esprimono sull’argomento (compresi i due autori). Sui 101 dischi selezionati, che includono lavori di artisti e band di “osservanza canterburiana” più o meno certificata, si potrebbe discutere all’infinito. In teoria la bussola dovrebbe essere il famoso “family tree” di Peter Frame, pubblicato nel 1973 dalla rivista ZigZag, ma poi chi si è dovuto cimentare in questa materia estremamente “scivolosa” ha finito per dilettarsi a “montare” la propria genealogia di maestri e discepoli, più o meno consapevoli, senza farsi troppi problemi. E anche D’Onofrio e Ferro non si sono sottratti a questa pratica, cosicché vediamo fare capolino fra Soft Machine, Caravan e Gong nomi come Camel, Nucleus, Michael Mantler, Julie Tippetts, Centipede e altri ancora.

Interessante l’ultimo capitolo del volume dedicato ai seguaci della scena in Italia che riporta un’interessante contributo di Domenico De Mola, direttore artistico di Fasano Jazz, piccola ma vitale rassegna musicale pugliese che nel corso degli ultimi dodici anni ha ospitato praticamente quasi tutti i reduci del movimento: dai Caravan ai Gong, dagli Hatfield and The North ai Soft Machine Legacy. Nell’inevitabile gioco di chi c’è e chi non c’è, resta solo da rimarcare l’assenza di due alfieri di Canterbury in Italia: il primo è il tastierista e compositore Massimo Giuntoli  una lunga consuetudine con la scena del Kent iniziata nel 1982 con l’album Diabolik e i sette nani (in condivisione con Roberto Meroni) proseguita, dieci anni dopo, con l’ottimo Giraffe (uno degli album preferiti da Robert Wyatt) fino ai giorni nostri con diversi progetti di matrice canterburiana: tra questi, l’ensemble costituito nel 2014 con lo scrittore inglese Jonathan Coe al piano elettrico insieme a Francesco Zago, Eloisa Manera e Clara Zucchetti. Il secondo è un collettivo: l’Artchipel Orchestra fondata e diretta da Ferdinando Faraò che proprio di recente ha dato alle stampe To Lindsay: Omaggio a Lindsay Cooper con la partecipazione dell’ex Henry Cow Chris Cutler. Da diversi anni l’orchestra ha realizzato arrangiamenti propri di composizioni scritte da Mike Westbrook, Alan Gowen, Fred Frith, Dave Stewart e altri. Il secondo disco dell’Artchipel, pubblicato nel 2014, è totalmente dedicato ad arrangiamenti per big band di brani scritti da Hugh Hopper e Robert Wyatt per i Soft Machine.

Ascolti
  • Massimo Giuntoli e Roberto Meroni, Diabolik e i sette nani, Rombo, 1981.
  • Massimo Giuntoli, Giraffe, Rombo, 1992.
  • Ferdinando Faraò & Artchipel Orchestra, Play Soft Machine, Musica Jazz, 2014.
  • Ferdinando Faraò & Artchipel Orchestra featuring Chris Cutler, To Lindsay: Omaggio a Lindsay Cooper, Music Center, 2017.
Letture
  • Michael King, Falsi movimenti. Una storia di Robert Wyatt, Arcana, Milano, 1994.
  • Graham Bennett, Soft Machine-Out-Bloody-Rageous, SAF Publishing, 2005 (edizione digitale rivista e corretta dall’autore, 2014).
  • Michele Coralli, Swingin’ Canterbury, Tuttle Edizioni, Camucia (Ar), 2008.
  • Leonardo Vittorio Arena, La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voce: unlimited, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2014.
  • Marcus O’Dair, Different Every Time. La biografia autorizzata di Robert Wyatt, Giunti, Firenze, 2015.
  • Aymeric Leroy, L’ècole de Canterbury, Le mot et le reste, Marsiglia, 2016.
  • Philippe Gonin, Robert Wyatt Rock Bottom, La Densitè, Rouen, 2017.
  • Carlo Pasceri, Soft Machine 1968 -1981; Dischi da leggere Vol. 11, Editore Carlo Pasceri, 2017.
  • Gian Paolo Ragnoli, Un ricordo di Musiche (1987/1997), una rivista di “altre musiche
  • Facelift magazine
  • Improjazz magazine