Musica mediata da algoritmi
per l’etichetta Greyfade


Joseph Branciforte

& Theo Bleckmann
LP1
Greyfade, 2019

Musicisti:
Joseph Branciforte:
piano
Fender Rhodes,
synth modulari, loop
e digital processing
Theo Bleckmann: voce,

elettronica


Joseph Branciforte

& Theo Bleckmann
LP1
Greyfade, 2019

Musicisti:
Joseph Branciforte:
piano
Fender Rhodes,
synth modulari, loop
e digital processing
Theo Bleckmann: voce,

elettronica


La prima uscita per la neonata Greyfade, porta la data 21 giugno 2019 e si intitola LP 1. È la voce di Theo Bleckmann a tenere a battesimo l’etichetta newyorchese, accanto al suo fondatore e titolare Joseph Branciforte, tastierista, compositore e ingegnere del suono. È proprio in quest’ultima veste che Branciforte ha conosciuto Bleckmann durante le registrazioni di Hydra, nel 2012, album in cui il cantante di origini tedesche affiancava il chitarrista Ben Monder. LP 1 è in un certo senso il manifesto di Greyfade: Branciforte ha le idee molto chiare su argomenti che spaziano dalla musica come esperienza estetica ai suoi aspetti più tecnici, fino al rapporto tra musicisti e fruitori. LP 1 presenta una selezione di alcune improvvisazioni registrate nello studio di Branciforte a Brooklyn nel 2018, in vista di un concerto a fianco nientemeno che di Ryuichi Sakamoto. Il risultato sono trenta minuti abbondanti di sonorità austere ed estremamente controllate, dove dominano texture impalpabili da cui emergono dettagli rarefatti e curatissimi.
L’enfasi posta da Joseph Branciforte su una musica “mediata da algoritmi” ricorda la metafora biologica con cui sono state descritte musiche molto distanti fra loro, simili a organismi naturali che si sviluppano autonomamente a partire da un certo “patrimonio genetico”, e in ogni caso senza l’intervento esplicito dell’intenzione o della volontà del musicista: si pensi all’“indifferenza estetica” di certi lavori di Brian Eno o, in un’ottica molto diversa, al Kammerkonzert di György Ligeti. Le sonorità levigate di LP 1 ricordano da vicino proprio The Shutov Assembly o Neroli di Eno, o la profondità prospettica di Ember Glance di David Sylvian. Più in generale, a suscitare interesse sui futuri lavori dell’etichetta sono soprattutto la fluidità stilistica, le idee sul rapporto fra artista e ascoltatore, e l’attenzione al contesto oltre che al contenuto. È lo stesso Branciforte a esporre le sue idee nell’intervista rilasciataci pochi giorni prima del lancio di LP 1.

Da sinistra: Joseph Branciforte e Theo Bleckmann.

Quando e come ha avuto l’idea di una nuova etichetta?
Ci pensavo da diversi anni. L’etichetta rappresenta la sintesi di una vasta gamma di interessi, dalla composizione alla performance, dalle tecniche di registrazione e produzione alle arti visive e al design, fino alla scrittura. Volevo creare un contenitore che potesse raccogliere tutti questi elementi, per produrre musica senza scendere a compromessi creativi, concettuali o sonori.
Il mio recente lavoro come musicista e compositore si è basato sullo sviluppo di algoritmi che potessero mediare fra il livello progettuale della composizione da una parte e l’improvvisazione dal vivo o la notazione musicale dall’altra. La nozione di computazione mi è parsa un punto di partenza concettuale innovativo per l’etichetta, un’idea che lascia aperta la questione del processo musicale, senza discriminare fra fonti sonore elettroniche o acustiche, e che al tempo stesso non ricade nella nozione tradizionale di “genere”.
Negli ultimi dieci anni ho anche lavorato come ingegnere del suono a New York, occupandomi di registrazione, mix e mastering. La padronanza sia degli aspetti tecnici che di quelli creativi della registrazione mi ha portato a vedere quest’ultima non come una fase separata in cui l’opera viene semplicemente catturata o documentata, ma come una parte integrante del processo compositivo. Le questioni relative alla presentazione sono essenziali per il modo in cui la musica viene percepita, e credo che dovrebbero essere considerate sullo stesso piano dell’orchestrazione, dell’armonia e della forma.
Ho sempre considerato l’esperienza musicale come un fenomeno altamente contestuale, che coinvolge molte altre dimensioni oltre a quella sonora. È quanto voglio mettere in evidenza con Greyfade: una concezione fluida della linea che divide il contenuto dal contesto musicale. Presentazione formale, narrativa, estetica visiva, product design, scrittura: tutti questi elementi aggiungono sfumature all’informazione sonora, offrendo all’ascoltatore un punto di vista privilegiato sulle intenzioni artistiche ed estetiche. In questo senso, uno dei miei obiettivi con l’etichetta è quello di sviluppare una concezione più ampia dell’oggetto musicale, in cui tutte queste variabili possano essere esplorate come parametri compositivi altrettanto validi.

Può parlarci della direzione musicale di Greyfade?
Non è mia intenzione imporre un certo stile musicale; a parte questo, ogni uscita deve essere realizzata con grande cura e senza cadere in alcun eccesso. Mi aspetto che la direzione musicale venga sviluppata in modo organico e che emerga con chiarezza per ogni uscita. Avremo un mix di musica elettronica e acustica, ma anche musica scritta, indeterminata e improvvisata. Verrà posta una particolare enfasi, come dicevo, sulla musica mediata da algoritmi, digitali o realizzati manualmente. Ogni uscita verrà proposta in vinile e in formato digitale in alta risoluzione (96.000 Hz/24 bit o superiore), disponibili direttamente sul sito di Greyfade. Le uscite non saranno disponibili sui normali servizi di streaming, per ragioni che vengono chiarite sul sito stesso.

Qual è il pubblico che vuole raggiungere? Più in generale, cosa pensa della relazione tra musicisti ed etichetta da una parte e il pubblico dall’altra, in particolare nell’era di Internet?
Penso all’ascoltatore ideale come a qualcuno che sia appassionato, o quantomeno curioso, di arte e suono, o qualcuno che sia interessato più in generale a esperienze estetiche inedite. L’aspetto comune è la disponibilità a dedicare tempo e attenzione a un’esperienza astratta, un aspetto che oggi viene tristemente svalutato dalla nostra cultura. Molte delle esperienze più gratificanti che ho vissuto in ambito musicale o artistico hanno richiesto pazienza e studio per essere apprezzate fino in fondo, e sono convinto che l’impegno attivo dell’ascoltatore sia una componente essenziale per la comprensione e la fruizione.
Inoltre ho l’impressione che gli ascoltatori siano stati privati di gran parte del contesto che potrebbe aiutarli a impegnarsi in modo più completo: cose come un album ben costruito, note di copertina stimolanti, un packaging curato, e l’esperienza privata di una comunione con la musica, lontano dal rumore, dalla velocità e dall’eccesso di informazione di Internet. Il desiderio di tale esperienza intima potrebbe spiegare il ritorno del vinile degli ultimi anni. Proponendo il vinile e il formato digitale ad alta risoluzione tramite lo shop online di Greyfade, la relazione fra ascoltatore e artista viene salvaguardata, mi auguro, nella sua forma più semplice. L’ascoltatore paga direttamente il lavoro, senza la mediazione di società intermediarie, pubblicità o transcoding proprietario; in cambio, chi compra riceve l’album esattamente come lo ha immaginato l’artista, mantenendo intatti i dettagli, le dinamiche e la profondità della musica. Per me, questa è l’esperienza migliore per l’ascoltatore come per l’artista, e dovrebbe diventare il metodo privilegiato di scambio. Il paradigma dello streaming, così come viene concepito oggi, non mi pare sostenibile, né dal punto di vista creativo né da quello finanziario.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una tendenza sempre più forte verso la musica “crossover”, anche fra mondi molto distanti fra loro (per esempio, compositori accademici che traggono materiale e idea dal jazz e dal rock, e viceversa). I confini fra i generi sembrano sempre meno definiti. Qual è la sua opinione in merito?
Ho vissuto gli anni Novanta e i primi Duemila, un’epoca in cui stava esplodendo l’accesso alla musica registrata. Era piuttosto normale per me e i miei amici esplorare e assorbire musiche da tutto il mondo, di generi e secoli diversi. Senza una guida autorevole, siamo rimasti immuni alle distinzioni gerarchiche fra cultura “alta” e “bassa”, e il risultato è stata un’esperienza musicale ricca e pura. Che sia stato uno sviluppo positivo o meno, sarà la storia a deciderlo… d’altra parte, è l’unico mondo che ho conosciuto, e per me è abbastanza naturale muovermi con grande libertà nello spazio e nel tempo musicali.

Qual è il suo background come musicista? Può parlarci dei suoi studi e delle sue influenze?
Sono cresciuto in un sobborgo di New York, circondato da amici che facevano musica. Ho cominciato a suonare la batteria a nove anni, e in seguito ho studiato pianoforte da autodidatta e teoria musicale alle superiori. All’inizio ero interessato al rock che veniva trasmesso dalle radio, ma presto i miei gusti si sono orientati maggiormente verso territori più progressivi e sperimentali. Alle superiori ascoltavo molto jazz, musica classica ed elettronica. Ho studiato computer music al Berklee College of Music di Boston dal 2004 al 2007, concentrandomi soprattutto sul software Max/MSP, affiancando studi di composizione e pianoforte. In seguito sono tornato a New York e ho continuato a prendere lezioni private di batteria, pianoforte e composizione. Come ingegnere del suono sono sostanzialmente autodidatta.

Come ha incontrato Theo Bleckmann? Ci può parlare di come è nato il progetto insieme a lui?
Ho conosciuto Theo nel 2012, durante le registrazioni dell’album Hydra, con il chitarrista Ben Monder, che ho inciso, mixato e prodotto. Ero un fan di Theo sin da quando ero un adolescente e conoscevo molto bene i suoi album solisti, oltre ai lavori precedenti con Ben. Ci siamo ritrovati nel 2017 quando Theo capitò per caso su un “diario sonoro” online che tenevo all’epoca, dove documentavo i primi esperimenti con un piano Fender Rhodes e l’elettronica. Fu lui a suggerire una collaborazione. Dopo diverse performance in duo a New York, fummo invitati a suonare con Ryuichi Sakamoto nel 2018. Per prepararci al concerto, ci incontrammo nel mio studio di Brooklyn a provare, ed ebbi l’idea di registrare diverse ore di improvvisazioni. Quelle session costituirono le basi del nostro nuovo album, LP 1, con Theo alla voce e all’elettronica e io al Fender Rhodes, synth modulari, loop e digital processing.

Cosa pensa della “musica sperimentale”? Dal suo punto di vista, si tratta di un genere specifico, di uno stile o di un’“attitudine” musicale più generica?
Come termine per descrivere la musica, credo che il termine non abbia alcun significato, eccetto forse per riferirsi a qualcosa che non fa parte della cultura mainstream. Come processo artistico, mi sento vicino all’ethos della sperimentazione, nel senso di “spingersi verso l’ignoto o l’inconsueto”. Personalmente preferisco che la sperimentazione avvenga “a porte chiuse”, e che venga presentata solo l’essenza, il “distillato” degli esperimenti meglio riusciti.

Ha già in programma altre uscite?
Sì, la seconda sarà una mia collaborazione con il compositore e musicista elettronico Kenneth Kirschner, e presenterà una serie di opere composte su basi algoritmiche e digitali per ensemble da camera. Alle registrazioni parteciperanno membri del Flux Quartet, del Mivos Quartet e del Talea Ensemble; il lavoro dovrebbe essere pubblicato alla fine del 2019. In seguito l’etichetta pubblicherà un’opera inedita di Greg Davis, sound artist del Vermont, che sfrutta le proprietà mistiche e armoniche dei numeri primi, utilizzando degli oscillatori sinusoidali come fonte sonora.

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