Dopo il lento crepuscolo,
l’intima notte dei ciechi

Jorge Luis Borges
Storia della notte
A cura di Francesco Fava

Adelphi, MIlano, 2022
pp. 126, € 12,00

Jorge Luis Borges
Storia della notte
A cura di Francesco Fava

Adelphi, MIlano, 2022
pp. 126, € 12,00


Nell’Abbozzo di autobiografia, testo ora in appendice alla raccolta poetica Elogio dell’ombra (1998), Jorge Luis Borges indugia su uno dei temi che maggiormente hanno caratterizzato la sua esistenza mondana, letteraria e non, riferendo dell’irruzione della cecità nella propria vita come di un momento diffuso che culminò grossomodo negli anni Cinquanta, periodo a partire dal quale gli furono definitivamente precluse le capacità autonome di scrittura e lettura:

“Fin dall’infanzia, gradatamente, la mia vista era andata peggiorando finché si spense del tutto. Fu come un lento crepuscolo estivo. Non ci fu nulla di particolarmente patetico e drammatico”
(Borges, 1998).

D’altronde questo lungo processo che gli costò la perdita della vista, durato decenni e tutt’altro che inatteso, era chiaro, per Borges e per i suoi cari, fin da subito: la cecità, in famiglia, era una condizione endemica ed ereditaria: come lui, prima di lui, avevano infatti perso la vista il padre e il bisnonno (quest’ultimo, nell’Ottocento, era stato anche oggetto di una pionieristica operazione oftalmologica descritta addirittura sulla rivista The Lancet). Che poi la cecità fosse un dato strutturale del mondo di Borges, una condizione inevitabile segnata nel suo stesso destino, al di là di quanto stabilito dalle eredità familiari del sangue, lo testimonia anche la sua nomina a direttore della Biblioteca Nazionale Argentina, avvenuta proprio negli anni Cinquanta, per la precisione nel 1955, subito dopo il colpo di stato che sancì la deposizione di Juan Domingo Perón, durevole presidente della Repubblica argentina con cui Borges era in dichiarato e aperto conflitto: come lui, prima di lui, già Paul Groussac (1848-1929) e José Mármol (1818-1871), entrambi scrittori, avevano infatti diretto la biblioteca nazionale senza poterne leggere i libri con gli occhi. Nel succitato Abbozzo di autobiografia, Borges continua così:

“Una delle principali conseguenze della mia cecità fu il mio graduale abbandono del verso sciolto in favore della metrica classica. Anzi, la cecità mi fece tornare alla poesia. Poiché non potevo più fare una prima stesura, dovevo affidarmi alla memoria. Ovviamente è più facile ricordare dei versi piuttosto che della prosa, e ricordare un metro regolare piuttosto che dei versi sciolti”
(ibidem).

In tal modo, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, dopo averla diligentemente frequentata con fervore in gioventù e dunque trascurata per circa un ventennio durante l’età adulta, Borges torna a praticare con assiduità la poesia, diretto da una maturità e da un intendimento del tutto nuovi, e con l’evidente abbandono degli sperimentalismi che avevano invece caratterizzato la sua prima produzione in versi.
Negli anni Settanta, ultimo suo decennio compiuto di vita (l’autore morirà nel 1986), il rinnovato interesse nei confronti della composizione in versi e dell’arte poetica porta dunque Borges a dare alle stampe vari libri in cui, in maniera si potrebbe dire automatica, quasi come se a muovere tutto ci fosse una sorta di memoria poetico-procedurale interiore, l’autore raccoglie poesie e brevi prose liriche costruite attorno agli argomenti da sempre a lui più cari, temi che erano stati già alla base dei suoi racconti più famosi. Stiamo parlando delle raccolte intitolate L’oro delle tigri, del 1972 (Borges, 2004a), La rosa profonda, del 1975 (Borges, 2013), e La moneta di ferro, del 1976 (Borges, 2008), testi a cui possono fare da introduzione collettiva le iniziali e programmatiche parole vergate nel Prologo del primo tra i tre:

“Da un uomo che ha compiuto i settant’anni […] non possiamo attenderci molto, fuorché il consapevole impiego di alcune abilità, di qualche leggera variazione e di parecchie ripetizioni. Per eludere o almeno attenuare questa monotonia, ho scelto di accettare, forse con temeraria ospitalità, i temi disparati che si sono offerti alla mia pratica quotidiana dello scrivere”
(Borges, 2004a).

Ai tre libri di cui si è appena detto bisogna tuttavia aggiungerne un quarto, un’altra raccolta data alle stampe originariamente nel 1977 che chiude idealmente il decennio poetico: si tratta di Storia della notte, testo ripubblicato oggi in Italia da Adelphi (con testo a fronte) in una nuova traduzione per la cura di Francesco Fava, sotto l’usuale direzione di Tommaso Scarano. Qui, nel solco della ricorsività tematica di cui si sta parlando (in cui continuano a operare “parecchie ripetizioni” e “qualche leggera variazione”), ecco ricomparire immagini, oggetti e modelli già ben noti ai lettori più o meno attenti di Borges: il sonno e il sogno, per esempio; la memoria infinita delle cose a loro volta infinite; l’identità tra i ricordi e la materia sognata; “le tigri che furono e saranno”, quelle archetipiche, quelle oniriche e quelle di ossa e di carne che nel balzo tendono i muscoli a Sumatra; gli specchi che atterriscono e che moltiplicano; l’antica isola dei sassoni che sarà poi l’Inghilterra, luogo del ferro e delle battaglie; l’Islanda e il mondo norreno cantato da Snorri Sturluson, popolato di prore di drago e di lame, “di spade e di vascelli”, di lupi famelici e di luminose metafore, di navi raccapriccianti costruite con le unghie dei morti; i pergolati e i patios del Sud, e il loro modo di ricevere o attenuare la luce del sole; gli incroci suburbani in cui i pugnali, “esecutori di leggi dell’ombra”, si cimentano in alterchi che sono musica e danza prima di essere sangue; la luna, inevitabile oggetto dell’attenzione poetica universale; i labirinti, le biblioteche e i libri infiniti; le immancabili Mille e una notte; la ciclicità del tempo, quello individuale di un singolo vivente e quello cosmico di tutti; il presente come “fugace particella del passato”; e ovviamente i fiumi, ovvero “l’acqua invulnerabile che scorre nella massima di Eraclito”.

Al di là di questi numerosi temi appena elencati con la secchezza suggeritaci dall’amore per la lista, pratica di cui lo stesso Borges era inveterato frequentatore, va detto che nella sua produzione poetica degli anni Settanta si affaccia anche un carattere nuovo, una tendenza all’intimismo, e se vogliamo anche a un certo morbido romanticismo, che poco o nullo spazio aveva trovato nella produzione narrativa, dove se ne può rintracciare una eco forse soltanto in Ulrica, racconto di ispirazione norrena pubblicato non a caso ne Il libro di sabbia (Borges, 2004b), raccolta di prose lunghe data alle stampe nel 1975, dunque esattamente nello stesso decennio di cui stiamo diffusamente parlando. Proprio nell’Epilogo di Storia della notte, infatti, Borges scrive: “Un volume di versi altro non è che una successione di esercizi di magia. Il modesto incantatore fa quel che può con i suoi modesti mezzi […]. Fra tutti i libri che ho pubblicato, questo è il più intimo”. Tra le pagine della raccolta del 1977, come d’altronde negli altri testi poetici degli anni Settanta, troviamo allora inusuali affondi nella materia dell’amore, come per esempio avviene nella poesia L’innamorato (“Fingerò che altri esistano. È menzogna. / Tu solamente, sei. Tu, mia sventura / e mia ventura, tu, incessante e pura”) o in «Things That Might Have Been», in cui elencando le “cose che avrebbero potuto e che non sono state” (ecco il ricorso alla lista) Borges conclude citando “il figlio che non ho mai avuto”.
Tale intimismo, come ben dimostrato dall’ultimo verso ora citato e dal Prologo de L’oro delle tigri, cui sopra abbiamo fatto richiamo, si caratterizza per un sentimento in odor di senescenza che non sembra essere banale nostalgia del passato, ma che invece pare incarnare una vaga sofferenza al cospetto di quanto non è stato e non potrà più essere, a causa del naturale processo di degradazione delle carni: non conservatorismo, quindi, bensì amarezza.

Una dichiarazione disgraziatamente umana di inattuabilità del progetto sperato, ovvero un’ammissione dovuta all’età, di certo (“Da un uomo che ha compiuto i settant’anni […] non possiamo attenderci molto”), ma anche un sentimento di soggiacente solitudine che, in parte, potrebbe provenire forse proprio dalla chiusura mondana dovuta alla cecità e alla conseguente imposizione, costante e contraddittoria, della notte. Costante perché definitiva e inoppugnabile. Contraddittoria, almeno a leggere i versi della poesia che dà il titolo alla raccolta del 1977, appunto Storia della notte, perché se

“lungo il corso delle generazioni / gli uomini eressero la notte”, e questa “in principio era sonno e cecità / e spine che trafiggono il piede nudo / e paura dei lupi. / […] Adesso la sentiamo inesauribile / come un antico vino. […] // E pensare che non esisterebbe / senza quegli strumenti tenui, gli occhi”.

Tutto questo per dire che dopo il “lento crepuscolo estivo”, con cui abbiamo cominciato per raccontare del Borges poeta, viene l’intima notte dei ciechi, che forse nemmeno è notte.

Letture
  • Jorge Luis Borges, Abbozzo di autobiografia, in Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino, 1998.
  • Jorge Luis Borges, L’oro delle tigri, Adelphi, Milano, 2004a.
  • Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, Adelphi, Milano, 2004b.
  • Jorge Luis Borges, La rosa profonda, Adelphi, Milano, 2013.
  • Jorge Luis Borges, La moneta di ferro, Adelphi, Milano, 2008.