Immaginando società
radicalmente tolleranti


Autori Vari

Panarchia
a cura di Gian Piero de Bellis

D Editore, Ladispoli (Roma), 2017
pp. 324, € 15,90


Autori Vari

Panarchia
a cura di Gian Piero de Bellis

D Editore, Ladispoli (Roma), 2017
pp. 324, € 15,90


Dal socialismo utopistico al più recente accelerazionismo, il desiderio di modificare radicalmente l’ordine sociale è qualcosa che ha caratterizzato piccoli gruppi di politici e scienziati sociali, élite culturali o comuni individui separati nel tempo e nello spazio e posti ai margini della storia; determinati a diffondere le loro teorie e impazienti di assistere a una loro applicazione, essi hanno avuto e hanno il pregio di non abbandonarsi a una lettura del presente segnata dall’ineluttabilità.
In questo riescono anche i sostenitori della panarchia, le cui idee sono state raccolte nell’omonima antologia curata da Gian Piero de Bellis, edita da D Editore e parte della collana Eschaton di Raffaele Alberto Ventura. I panarchici sostengono che ogni individuo dovrebbe essere libero di scegliere il proprio governo, o il proprio non governo, in una condizione di non territorialità, quindi in assenza del monopolio territoriale di qualsiasi entità statale.
Nelle oltre trecento pagine, venticinque documenti, tra cui estratti di saggi e brevi articoli di diversi esponenti, ripercorrono la storia di questa idea che il curatore tiene a precisare non essere l’ennesima ideologia politica ma “un movimento per i diritti civili”.

L’economista liberale Gustave de Molinari “padre fondatore” della panarchia insieme a Paul-Émile de Puydt.

In seguito alla sua prima teorizzazione nella metà del diciannovesimo secolo nei testi dell’economista belga Gustave de Molinari e in quelli del connazionale Paul-Émile de Puydt (un botanico che primo utilizzò il termine in un articolo pubblicato nel 1860 sulla Revue Trimestrielle di Bruxelles) la panarchia è stata bollata come utopia e accantonata persino da intellettuali di tradizione più liberale, lasciando maturare il sogno panarchico solo nelle menti di alcuni. L’idea sarà poi ripescata nella seconda metà del ventesimo secolo da due anarchici tedeschi, Kurt e John Zube, che la svilupperanno ulteriormente.
L’antologia si compone di diversi atti, partendo dai due precursori belgi fino ad arrivare alle prospettive future della panarchia; nel mezzo si alternano testi di attivisti e accademici che, seppur non propriamente panarchici, in un modo o nell’altro abbracciano i tre pilastri fondamentali di questa “dottrina sovra-ideologica”: il volontarismo, la non territorialità e la convivenza pacifica degli esseri umani.

I precursori

La modesta proposta del liberale belga Gustave de Molinari era piuttosto chiara: perché non estendere e applicare il principio del lassez-faire anche in materia di sicurezza? Egli approfondì la sua intuizione in un articolo del 1849 pubblicato sul Journal des économistes, di cui poi in seguito diverrà editore. Nel testo non veniva fatto esplicitamente cenno alla panarchia, ma l’autore ha il merito di aver immaginato per primo e soprattutto in un periodo caratterizzato dal diffuso fermento nazionalista un sistema di auto-governo centrato sull’individuo e non sull’appartenenza etnica e la definizione di confini arbitrari. La sicurezza è uno degli ambiti in cui tradizionalmente lo stato ha sempre avuto un diritto esclusivo attraverso il cosiddetto monopolio della violenza: dalla Pace di Westfalia del 1648 che aveva segnato la fine della Guerra dei trent’anni, gli stati hanno assunto un ruolo centrale nelle società. Poteri intermedi cedettero il posto alla centralizzazione delle funzioni nelle mani del sovrano; il principio del rex in regno suo est imperator dotava solo ed esclusivamente il sovrano dei poteri impositivi sulla popolazione e di gestione del territorio. De Molinari presentò le sue idee radicali in occasione di una seduta della Società Economica di Parigi, ma anche gli economisti liberali si voltarono dall’altra parte, sostenendo che lo stato territoriale fosse necessario per il corretto funzionamento del mercato concorrenziale. Agli strali di De Molinari fece poi eco dodici anni dopo il botanico Paul-Émile de Puydt, che con un tono scherzoso riformulò il suo stesso pensiero.
Immaginare la convivenza di tanti governi privi di controllo sul territorio è effettivamente difficile; la moltiplicazione di eserciti e forze di polizia con poteri di coercizione su singoli individui moltiplicherebbe anche i conflitti tra le varie giurisdizioni, soprattutto quando strettamente legati al territorio fisico: chi dovrebbe indagare, per esempio, su un episodio di sversamento illegale di rifiuti ad opera di ignoti? Quale dei dieci o cento governi si assumerebbe il costo di tali indagini? 
Nell’antologia viene fatto cenno più volte a meta-regole e tribunali che potrebbero regolare la convivenza e risolvere possibili conflitti, ma qualunque governo oppure individuo senza governo, consapevole di un proprio torto, sarebbe libero di non sottoscrivere alcun accordo o di recedere da esso, innescando una traslazione dei costi su operatori esterni e creando un clima di sfiducia reciproca.

Un’altra utopia?
Parte dell’antologia è dedicata all’approfondimento del concetto di anarchia e ai i suoi legami con la panarchia. In questo si cimenta lo storico Max Nettlau, che in un testo del 1905 sfata il mito dell’anarchico rivoluzionario e violento nei confronti di coloro che non condividono il suo messaggio di cambiamento radicale. La definizione di anarchia di Nettlau finisce per coincidere con quella di panarchia: una “organizzazione volontaria al posto dell’organizzazione autoritaria”. Per lo storico austriaco, ogni persona dovrebbe avere il diritto di vivere nella comunità volontaria che preferisce. Gli anarco-comunisti non dovrebbero sprecare le loro energie nel combattere gli anarco-capitalisti e viceversa, ma il principio dovrebbe essere applicato a qualsiasi ideologia, anche se autoritaria; la costruzione della società in cui si aspira a vivere deve sostituire i battibecchi ideologici. Potremmo considerare la panarchia come la madre di tutte le anarchie? Che la si chiami poliarchia, personarchia o panarchia, essa coerentemente applica il principio di scelta volontaria a qualsiasi aspetto. La sua peculiarità risiede nel considerare l’individuo sovrano di tutte le scelte che lo riguardano. Eppure l’interpretazione della parola libertà è piuttosto arbitraria: difficilmente anarco-comunisti e socialisti, inclusi i loro più recenti eredi, sarebbero d’accordo nel considerare la panarchia la semplice rivendicazione di un diritto prepotentemente negatoci da una manciata di burocrati; essa si basa sul principio anarco-individualista del volontarismo, che fornisce risposte a domande che sottintendono una lettura della società compiuta esclusivamente attraverso la lente dell’individuo; la sua applicazione determinerebbe uno stravolgimento delle relazioni economiche e sociali che potrebbe risultare svantaggioso per i più deboli.

Quale ruolo avrà il denaro nella scelta del proprio governo? Gli attori che avranno a disposizione esigue ricchezze forse saranno costretti a scegliere governi inefficienti e autoritari o a non affiliarsi ad alcuno; non riceverebbero alcun tipo di protezione da aggressioni o furti e sarebbero condannati a una spirale di inefficienza e immobilità sociale a causa del loro governo: uno scenario del genere è ancora compatibile con l’ideale di libertà panarchico? Si tratta di interrogativi che dovrebbero trovare spazio nella teorizzazione di una società in cui governo e sicurezza vengono sottoscritti e abbandonati come qualsiasi servizio, ma nessuno degli autori ne fa cenno. Nell’antologia viene sottolineata più volte l’attuale coesistenza parallela di molteplici fedi religiose e delle relative istituzioni, ma si dimentica che esse non regolano ciò che concerne il territorio e il rapporto dei cittadini con esso, compito che oggi affidiamo allo stato; la non territorialità creerebbe una moltitudine di paradossi, per esempio nella gestione dei beni pubblici caratterizzati dalla loro non escludibilità, generando quindi episodi di free riding tra i governi o gli individui che si rifiuterebbero di finanziarli.
Con l’eccessiva frammentazione ideologica che oggi caratterizza il mondo occidentale, risulta difficile concepire la panarchia come paradigma per la società multiculturale attuale; le maggiori sfide che abbiamo di fronte, tra cui la crescita demografica, il riscaldamento globale, la diffusione di nuovi virus e non ultima la regolamentazione degli intermediari finanziari e dei movimenti di capitali, trascendono i confini arbitrari tracciati dagli statisti secoli fa, ma richiedono soluzioni globali e regole comuni la cui realizzazione sarebbe meglio affidare ad un’unica istituzione internazionale e non a summit intergovernativi né tantomeno a innumerevoli governi non territoriali.
Agli autori dei testi contenuti in Panarchia e a coloro che hanno curato la prima antologia sull’argomento pubblicata in Italia, va riconosciuto il merito di aver portato un po’ di idealismo dove ce n’era bisogno. Il presente e il futuro hanno bisogno di nuove idee e scegliere il riformismo potrebbe non bastare: cambiare completamente aria potrebbe farci bene.