Il problema dei tre corpi:
matematica e sconfinamenti

Aniela Rodríguez
Il problema dei tre corpi
Traduzione di Annalisa Rubino

gran vía edizioni, Narni (Tr), 2021
pp. 112, € 13,00

Aniela Rodríguez
Il problema dei tre corpi
Traduzione di Annalisa Rubino

gran vía edizioni, Narni (Tr), 2021
pp. 112, € 13,00


Aniela Rodríguez è giovanissima, è nata in Messico nel 1992 e le foto che circolano sul web restituiscono di lei un’immagine che parrebbe toglierle qualche anno a quelli che l’anagrafe le riconosce. Eppure lo sguardo vivace tradisce un lampo vivo che, unito al taglio malinconico, anticipa un vissuto non trascurabile e il potenziale narrativo delle sue storie: un angolo di mondo ritagliato, con la raccolta Il problema dei tre corpi, edito da gran vía, nel panorama letterario sudamericano riprendendo modalità e temi cari ad esso, ma con una lingua fortemente caratterizzata dal ritmo sostenuto con cui volge verso l’esito atteso rendendocelo l’inaspettato “dietro l’angolo”. Questo accade non perché l’evento posto a conclusione del crescendo, più o meno rapido, dell’agire dei personaggi venga narrato, introdotto o sviluppato attraverso il ricorso a una scelta espressiva dai caratteri insoliti, ma perché ciò che lo precede reca con sé un elemento fortemente disturbante del presunto ordine costituito, quello entro cui proviamo sistematicamente a mettere lo svolgersi degli accadimenti umani per atto di legittima difesa.

La schematica e confortante attività di individuazione di ciò che ha dato vita a un evento viene stravolta dall’introduzione di una dinamica che si pone all’attenzione del lettore per la carica emotiva di cui è latrice: una malattia, un tradimento, una disillusione, la fine di un sogno, tutto contribuisce a interrompere la meccanicistica visione delle vite che sfilano in ciascuno dei brevi nove racconti di cui si compone la raccolta.
L’elemento emotivo non si limita a connotare la percezione dell’esito, ma ha un’ulteriore valenza nell’atto di sublimazione che lo investe per effetto della scelta della declinazione onirica che accompagna la voce narrante di ciascun racconto: il bozzolo emotivo stupisce, seduce il lettore ed esplode in un’identità piena che è la cifra della Rodríguez attraverso l’inserimento di ogni storia in un contesto che è fatto della stessa consistenza del sogno o della coscienza alterata da una fragilità e dall’elemento disturbante che ne apre la ferita.
Nel primo racconto, Scatola di fiammiferi, all’interno del quale due giocatori in un campo di pelota, alla ricerca di una pallina perduta, finiscono per essere travolti dall’assurdità di un incendio che si scatena da un nulla, senza che il sogno si scinda mai dalla realtà, si legge: “Qualcuno dovrebbe informarli che gli incubi spaventano perché impossibili. Altrimenti, sapremmo che possiamo cancellarli in un batter d’occhio”. E ancora:

“Nei sogni, le persone lo sanno da subito che stanno per morire. C’è sempre qualcosa che ti fa venire la pelle d’oca o sentire un buco allo stomaco. Riconosci una mano che ti spinge, ti afferra, ti colpisce al petto. Un filo sottile che di colpo ti trascina indietro, obbligandoti a tornare nel mondo reale. Un groviglio che parte dalla testa e arriva fino alla bocca dello stomaco. Ti svegli e hai voglia di vomitare. Si chiama vertigine, e arriva quasi sempre nel momento sbagliato”.

Trattasi di un meccanismo ben congegnato, dunque, misurato nella gestione del ritmo ed efficace nell’esito. Esso si muove in uno stato di sospensione tra un residuo di realtà ordinaria, che si affaccia qua e là spesso per effetto di personaggi che, pur esterni al dramma principale, ne rappresentano un potenziale radicamento a terra, e la visione personale, cioè filtrata dalla peculiarità dello sguardo malato, tradito, disilluso, di quello che è intorno, in una condizione di liquefazione non indotta da alcuna sostanza che non sia l’aerodinamico volgere della psiche alle dispercezioni di risposta alle ingiustizie della vita.
Trainati nell’esclusività dell’anima fragile, non ne vediamo l’esterno in una forma obiettiva, poiché tutto è plasmato da un sentire e amplificato dalla costruzione onirica dello spazio entro cui avviene il movimento. Non esiste la relazione causa ed effetto, se non negli angusti anfratti in cui la realtà trova ingresso, ma su tutto si staglia un senso e un bisogno di giustizia che la vita non è in grado di garantire. Accade così che in qualche modo debba trovare il suo posto, quale contraltare allo stato di dissesto provocato dall’esistenza, in una ipotetica linea funzionale alla rideterminazione di un equilibrio possibile, la morte, elemento fondante e presente in più di una declinazione e non necessariamente come evento fisicamente accertabile in ciascuno dei racconti della Rodríguez.

Morte come omicidio o morte come (non) casualità: in ogni caso, essa si pone quale sbocco a un garbuglio di eventi rispetto a cui è collocata nel ruolo amplificatore delle miserie degli uomini le cui ferite non trovano ristoro in risposte singole o sistematiche di natura umana. Solo il portato ultraterreno della morte offre a chi è ferito, disilluso, tradito, affranto dalla vita, il conforto di un riparo dentro l’angolo sospeso del pensiero che la precede, quello in cui rivelare colpe e amarezze e a cui associare l’inevitabilità giusta della medesima per mano o per volere umano. Dunque, un rimedio che supera la contingenza, ma che viene pilotato dall’alterata coscienza umana in cerca di pace e, in quanto tale, legittimata a un agire contro norma. Recita l’incipit del secondo racconto Le feste di Caino:

“Bastò il brutale colpo di pistola che gli inferse Jacinto quel giorno a far capire al prete che il cielo è un’invenzione del cazzo: la cantilena vuota dei messali e delle storielle con cui le matrone decantano la benevolenza di nostro Signore. Bastò l’arrivo del giorno a farci ritrovare all’uscita della chiesa intonando alleluia e rendendo grazie a Dio, a far oscurare di colpo il cielo e zittire l’organo per un difetto nel meccanismo o un’anomalia nel cuore degli uomini”.

In fondo, sono tutte anime fragili sì, ma anche irrequiete, quelle che popolano il mondo di Aniela Rodríguez. Sono uomini infelici e traditi, uomini malati di tristezza, prima ancora che affetti da una patologia organica, uomini che hanno creduto in una storia semplice perdendo la complicità nel sogno da parte delle loro donne lungo la via disseminata di trappole o di ponteggi malfermi. Sono uomini feriti dai loro miti che tarpano le ali per un possibile volo, non solo perché irraggiungibili e potenti per effetto del processo che ripone in essi i connotati del proprio desiderio, ma perché entrano nelle loro vite e le distruggono materialmente, scendendo rovinosamente nel reale e fondendosi con l’ingiustizia che tutto legittima.
Sono uomini che dietro a un’ossessione perdono il senso del limite, lo travalicano, si lasciano guidare dalla violenza, salvo poi fare i conti con il vero che, fermandosi molto prima della dispercezione, avrebbe offerto loro, se osservato, un’alternativa. Ma qui non c’è il tempo per razionalizzare il caos e neanche interessa, poiché è il caos che esplode nel bozzolo emotivo (cui si accennava prima) diventato farfalla al centro delle storie di questa raccolta. Le donne vanno via, scelgono la felicità piuttosto che ammalarsi di tristezza, decidono di vivere oltre il desiderio assente di un progetto di comunione perso nel tempo o cedono alle abitudini, non hanno la forza di riscattare il loro passato, ma talvolta si radicano al frutto di un amore e proteggono i figli, li portano con sé, li difendono dalla violenza dei padri, garantendo loro uno squarcio di futuro possibile.
Nel settimo racconto dal titolo Il lato sinistro della tristezza recita un passaggio eloquente al riguardo:

“Matilde era una donna perfetta. Le sue mani spremevano una dopo l’altra le bustine da tè. Non riuscivo più a vederla, sentivo soltanto la scia di una goccia fredda sul petto che avevo preso per una mia lacrima ma che, sicuramente, era il segreto di mia moglie che reprimeva la sua rabbia”.

In sostanza, occupano la sfera del reale fuori dalle distorsioni dell’anima fragile che racconta il proprio tradimento, la storia di una sconfitta, la pace di una fine che necessita della componente organica per essere “realmente” percepita come tale in un paradosso che scansa il reale per poi caderci dentro nella risoluzione di ogni cosa.
In fondo, questa di Aniela Rodríguez è una storia di corpi e lo è perché da essi si passa per chiamare in modo tangibile la componente emotiva di cui al principio si è detto, quale motivo di attenzione e garanzia di nucleo di sorpresa nell’esito finale, per renderla, attraverso l’esperienza del corpo, una forma quasi sacrale e laica di sofferenza, per tradurre in dolore legittimato la malattia, un tradimento, la fine di un’illusione. Ma lo è anche perché esiste una correlazione, in funzione dell’andamento di ciascuna storia, tra una dinamica consolidata tra due esistenze e l’inserimento in essa di un terzo elemento che ne altera la stabilità o quantomeno il procedere ordinario.
È l’evidenza di un problema, noto come quello dei tre corpi, da cui nasce il titolo della raccolta. Problema affrontato anche da Isaac Newton e lo stesso di cui Jules-Henri Poincaré (1854-1912) offrì un margine più ampio di discussione e una base sufficiente per i successivi sviluppi e che già con il materiale fornito dal matematico francese poteva agevolmente spingersi fin dentro la scoperta della dimensione del caos matematico. La formulazione della questione è quella per cui tre punti materiali si muovono nello spazio esercitando ciascuno la propria forza gravitazionale sugli altri e subendo su di sé quella svolta dagli altri, in una reciproca interconnessione. Fissate le condizioni iniziali, sarebbe possibile prevederne il moto nel prosieguo. Questo spiega, su solide basi matematiche, il senso dell’esito atteso, ma non tutto quello che lo precede, quasi l’autrice si prendesse beffa del naturale tentativo di ricondurre a una visione meccanicistica l’intero mondo dell’agire umano.

Se è vero che, date le premesse attentamente poste in ciascuna delle storie, ci si avvia inevitabilmente verso un dato finale condizionato dal subentro di un terzo elemento che concretizza in realtà un malessere già presente nelle condizioni di partenza, è la scomposizione del processo di conoscenza che interessa all’autrice, come se il corpo fragile dei tre si andasse a infrangere contro qualcosa che non ha voluto vedere e che ha preso la consistenza di un corpo estraneo frapposto fra esso e l’altro elemento della coppia originaria. Si perde l’aspirazione alla visione unitaria e si apprende il reale possibile in una frammentarietà che si radica in un’idea di salvezza contaminata dalla morte.
Si perde il progresso della ragione e non si precipita nell’apologia di un sentimentalismo d’accatto. La dimensione emotiva, distorta dalla sofferenza, ci relega ben al di sotto del portato di ogni teoria scientifica: ci rammenta la nostra precaria condizione di stabilità, facendo vacillare ogni certezza, ma rivelando al contempo l’altra storia, dove il sogno è più forte di tutto e trascina con sé ogni resistenza terrena e matematica.