Il corpo e l’immaginazione:
una storia cyborguesca

Marge Piercy
Cybergolem
Traduzione di Andrea Buzzi,
Eléuthera, Milano, 1995
pp. 496, fuori catalogo

 

Marge Piercy
Cybergolem
Traduzione di Andrea Buzzi,
Eléuthera, Milano, 1995
pp. 496, fuori catalogo

 


Nel 1985 Donna Haraway pubblica il Manifesto Cyborg, testo fondamentale, diventato luogo di dibattito e fonte di ispirazione per la teoria culturale femminista, in quanto nella tecnologia si leggono potenzialità radicali di cambiamento per le donne (cfr. Haraway, 2018). L’originalità del pensiero di Haraway consiste soprattutto nel situare la creazione del cyborg come critica alla ragione centrata sul soggetto, ovvero alla tesi che l’uomo, quella creatura autonoma e universale, altro non è che una costruzione moderna, manifestazione del nostro sapere e potere. Per Haraway, le tecnologie del corpo che producono il soggetto moderno diventano sempre più deboli e vengono di volta in volta sostituite da tecnologie di un ordine completamente diverso. I limiti delle configurazioni moderne di potere, quei limiti di demarcazione tra io e altro, si stanno dissolvendo dando luogo a nuovi “limiti” imprecisi e fluidi, che rompono i dualismi tra io/altro, idealismo/materialismo, mente/corpo, umano/animale. Nuovi limiti resi possibili dal dispiegarsi graduale delle tecnologie cibernetiche nel campo della biologia e medicina, nella logica della dominazione delle corporazioni multinazionali, nei luoghi di lavoro, negli ambienti militari. Nuovi limiti che sviluppano nuove configurazioni di potere e di sapere e che creano nuovi “soggetti” postmoderni.

Donna Haraway, autrice del Manifesto Cyborg pubblicato nel 1985.

Nel 1986 negli Stati Uniti esce Mirrorshades: the cyberpunk anthology, un’antologia di racconti di fantascienza curata dallo scrittore Bruce Sterling, che inaugura il movimento letterario del cyberpunk, cui fondatore sarà anche William Gibson (cfr. Sterling, 1994). Per il cyberpunk la tecnologia è cambiata, è divenuta qualcosa di intimo, non è fuori ma dentro le teste, sotto la pelle: è il personal computer, il Walkman Sony, il telefono cellulare, le lenti a contatto, come spiega Sterling nell’introduzione a Mirrorshades. Non si tratta più di protesi o strumenti, ma di organi di senso, di elaborazione e motori accrescitivi delle facoltà umane, estensioni, perfezionamenti in direzione della progettazione di un essere post-biologico, e si assiste, di conseguenza, ad un mutamento nell’immaginario relativo al rapporto uomo e macchina.
È interessante a questo proposito riportare la riflessione di Antonio Caronia in merito al film Videodrome di David Cronenberg del 1982 che presenta la figura di un “cyborg assolutamente inedito”, un corpo la cui integrazione con la tecnologia non è l’esito di un’operazione chirurgica o di una produzione ad alta tecnologia, bensì il risultato di un processo sociale, di una particolare configurazione del flusso comunicativo.

“…per la prima volta è direttamente la società, e in particolare quell’apparato sociale essenziale per la modernità che è il sistema dei media, a secernere l’ibrido spaventoso tra uomo e macchina: e lo produce direttamente dalla sua quotidianità, dal suo funzionamento abituale. […] Cronenberg ci mostra un mondo che è inequivocabilmente il nostro, con una televisione pervasiva, morbosa ma domestica, elemento costitutivo della nostra vita quotidiana ma al tempo stesso catalizzatrice di pulsioni così potenti da trasformare il mondo intorno a noi, da cancellare ogni confine stabile tra l’esterno oggettivo, dato al di fuori di noi, e l’interno del vissuto psichico, delle fantasie sessuali e delle pulsioni di morte” (Caronia, 2001).

Per il mirrorshades group simbolo di anticonformismo sono gli occhiali a specchio, dato che hanno la capacità di nascondere gli occhi dell’individuo, impedendo al mondo delle regole condivise di contaminarlo, con la funzione di rigettare, riflettendola, la realtà. Caratteristica dei romanzi cyberpunk è la descrizione dei futuri sviluppi dell’alta tecnologia nel campo dell’informazione e del capitalismo multinazionale, il degrado ambientale, il corpo modificato tecnologicamente, enclavi culturali post-nazionali e, in particolare il cyberspace, termine coniato da William Gibson nel romanzo cult Neuromancer del 1984, che trova la sua origine nella parola greca kyber, che vuol dire “navigare”. Nel suo romanzo Gibson descrive uno spazio digitale e navigabile, un mondo elettronico nel quale individui e società interagiscono attraverso le informazioni. Nello specifico si tratta di un mondo nel quale multinazionali, corporazioni e pirati informatici si scontrano per la conquista dei dati e delle informazioni.

Bruce Sterling, l’ideatore della antologia/manifesto del cyberpunk, Mirrorshades (1986).

Qualche anno dopo, nel 1991, la scrittrice americana Marge Piercy pubblica He, She and It, da noi tradotto nel 1995 con il titolo Cybergolem (lo si indicherà così d’ora in avanti, ndr), romanzo che si inserisce nel solco della narrativa cyberpunk e che nel 1994 vince il premio intitolato Arthur C. Clarke, assegnato annualmente ai migliori romanzi di fantascienza. Sono trascorsi solo pochi anni dallo “scoppio” della rivoluzione informatica e telematica, della diffusione di tecnologie come il satellite, il cavo in fibra ottica e il telefono cellulare, del primo boom degli accessi alla rete e la costituzione di vere e proprie comunità deterritorializzate, che usano la rete sia come spazio di interazione personale che di comunicazione pubblica, sia canale di condivisione di ricerche scientifiche.
In Cybergolem, Marge Piercy adotta la topografia tipica del paesaggio cyberpunk, il cyberspace, però a differenza del cyberpunk, qui il cyberspace non è un elemento per “rigettare” la realtà, ma è una “arena che riflette le tensioni sociali del mondo reale. I protagonisti del romanzo sono tutti impegnati attivamente nel mondo in cui vivono, con corpi e menti in co-operazione con altre persone” (Federici 1997, pag. 119; traduzione e corsivo dell’autrice, ndr), in altre parole la narrativa cyberpunk le permette di presentare il futuro in termini di presente e di criticarne, quindi, gli aspetti socio-culturali.
Diviso in ventinove capitoli, nel romanzo gli avvenimenti narrati non avvengono in successione, in modo sequenziale, ma si svolgono su terreni di referenza diversi, attraverso la fusione di linguaggio tecnico-scientifico e linguaggio dell’immaginazione, che apre la strada ad una pluralità di percorsi interpretativi, sfuggendo in questo modo al riferirsi unilaterale proprio dell’ordine del discorso, che fa delle parole uno strumento di produzione e rappresentazione.

L’edizione statunitense di He, She and It. Marge Piercy: foto di Ira wood.

Cybergolem si caratterizza, infatti, per una scrittura che potremmo considerare cyborg, essendo assolutamente non unitaria e identitaria ma presentandosi come un ibrido di passato, presente e futuro, come una mescolanza di generi diversi e di storie differenti che crea una particolare intertestualità tra romanzo storico, filosofico e fantascientifico. Una scrittura, cioè, “onnivora, che si nutre di un patrimonio attinto da più tradizioni e da più culture” (Fortunati, 2002).
Siamo nel 2059 e il mondo è diviso in ventitré enclavi, governate dalle multis, grandi imprese multinazionali. La maggior parte della popolazione vive fuori da queste enclavi, nel Glop, in cui dominano povertà, violenza, gangs e legge del più forte. Ci sono, poi, le città libere, come quella di Tikva, abitata da una comunità ebrea d’artigiani high-tech del software, in lotta contro il potere delle multinazionali che dominano il mondo.
La storia inizia con il divorzio di Shira, una tecnologa protagonista del romanzo che, in seguito alla separazione dal marito Josh e alla perdita della custodia del figlio Ari, decide di lasciare la Yakamura-Stichen, la multinazionale per la quale lavora, e di ritornare nella città nativa di Tikva, dove vive sua nonna Malkah, una scienziata di fama. Qui Shira accetta il compito di aiutare lo scienziato Avram ad ultimare la programmazione di Yod, un cyborg indistinguibile dagli umani, da lui creato.
Da subito si pone in rilievo il problema dell’identità e delle demarcazioni convenzionali di genere, nonostante già il titolo del romanzo ne affronti la questione, a tal punto che avrebbe potuto intitolarsi, come ci suggerisce Krestin Shands, “He, She or It” (Shands, 1994): è Yod, questo cyborg, un uomo, una donna o una macchina?
Questo interrogativo equivale a rimettere in discussione le nostre credenze e convinzioni su cosa sia l’uomo, quale sia la sua natura ma soprattutto, da un punto di vista linguistico, la sua definizione. A ciò si aggiunge la volontà di descrivere un mondo caratterizzato dalle possibilità cibernetiche e dai continui sviluppi in campo tecnologico, in cui noi stessi annulliamo la linea di separazione tra uomo e macchina, tra fisico e non fisico:

“Yod, ormai siamo tutti innaturali. Io ho subìto un trapianto di retine. Mi sono fatta inserire uno spinotto nel cranio per poter interfacciare con un computer. Malkah ha un’unità sottocutanea che controlla e corregge la pressione sanguigna […]. Siamo tutti cyborg, Yod. Tu sei soltanto una forma più pura verso cui tutti tendiamo”
(Piercy, 1995).

Si riprende qui l’idea del cyberpunk, secondo cui la tecnologia è diventata qualcosa di molto più intimo, nel senso che è sotto la pelle, dentro di noi, e il rapporto che s’instaura porta a trasformarci, in realtà, tutti in cyborg, risultato dell’unione di organismo biologico e cibernetica. Ma non si tratta solo di una questione fisica. Attraverso le parole di Yod, infatti, Marge Piercy sottolinea come noi uomini siamo, in un certo senso, programmati e costruiti da codici, da pratiche e discorsi socio-culturali attraverso i quali abbiamo sviluppato e fissato le funzioni da svolgere:

“Sai nuotare Yod?
Sì, anche se è una delle mie capacità che non ho mai messo alla prova. Sono programmato perché mi piaccia esercitare le mie funzioni”
(ibidem).

E ancora:

“Veramente non trovi bello questo vestito? Un po’ sexy?
Shira non afferrò il concetto.
Devi pur capire l’attrazione, Yod, visto che sei attratto da me.
Ma non perché hai un certo aspetto.
Non ci credo.
Non ho alcun criterio in base a cui giudicare l’aspetto umano. Non sono stato programmato per questo. Mi piace come sei fatta, ma mi piace anche come è fatta Malkah. Trovo molte persone interessanti da guardare.
Lei si ritrasse, offesa. […] Malkah gli sembrava altrettanto attraente. Non avrebbe mai dovuto preoccuparsi del proprio aspetto visto che lui sembrava incapace di accorgersi dei suoi momenti peggiori come quelli migliori, esattamente come le gattine non l’avrebbero mai giudicata per quelle che erano le sue sembianze. Spesso con Yod, quando lei assumeva i comportamenti che le erano abituali con gli uomini, si ritrovava a giocare da sola. Molti dei comportamenti uomo-donna non erano semplicemente possibili. Non avrebbero mai discusso sull’abbigliamento, su ciò che lui trovava sexy, su ciò che lei trovava degradante portare o non portare, se era troppo grassa o troppo magra”
(ibidem).

Yod non giudica le apparenze, in questo differisce dagli esseri umani; ma, come gli uomini, è capace di sviluppare proprie ambizioni e valori, è in grado di creare metafore, di amare, di godere, di desiderare, di manifestare insicurezza e ci tiene a chiarire la differenza tra le funzioni che deve svolgere assegnategli da Avram, e lo sviluppo di una sua personalità:

“Mi ha prodotto, ha scelto di farmi esistere ma non come individuo, non per quello che sono, solo per alcune delle cose che posso fare”
(ibidem).

Anche nella descrizione dell’incontro sessuale tra Yod e Shira, leggiamo lo stupore di quest’ultima nello scoprire il cyborg meno “meccanico” degli altri suoi amanti umani, ponendo in primo piano la questione che produrre robot umani o macchine “meccanizza” tutti noi (cfr. Shands, 1994), ricollegandosi, in questo modo, a ciò che sostiene Haraway quando scrive che nel rapporto tra umano e macchina non è chiaro chi crea e chi è creato (Haraway, 2018).
Yod rappresenta la creatura post-genere, è un connubio di he, she e it e trascende, in questo modo, le categorie di genere maschile/femminile: nasce in un laboratorio, con le caratteristiche fisiche di un maschio e infine viene “programmato” da Malkah per sviluppare un certo livello di autodeterminazione, in modo da sfuggire al progetto di dominazione da parte del suo creatore:

“Avram lo ha fatto maschio, in tutto. Avram pensava che fosse questo l’ideale: pura ragione, pura logica, pura violenza. Ma il mondo è scampato a stento ai maschi di questo tipo. Così ho cercato di dargli un lato più delicato, cominciando con l’enfatizzare l’amore per la conoscenza e allargandosi poi al piano emotivo e personale, creando un bisogno di contatti…”
(ibidem).

Ci sono due aspetti da sottolineare in questo passaggio: il primo è il tema del desiderio della procreazione da parte dell’uomo, dello scienziato Avram che lavora in segreto nel suo laboratorio (“Yod is a secret project of my own” [ibidem]), che tanto ci ricorda il Frankenstein di Mary Shelley; il secondo riprende l’idea di Haraway dell’importanza da parte delle donne di comprendere la presenza della cibernetica in ogni aspetto della realtà sociale e di prendere parte attivamente nella costruzione dei nuovi limiti, come strumento di liberazione. Tutte le donne in He, she and It, hanno conoscenze ed esperienze nell’ambito tecnico-scientifico al pari degli uomini, proprio perché la scrittrice vuole incoraggiarle a sentirsi partecipi nella costruzione della futura tecnologia. Malkah, infatti, spiega a Yod l’importanza del ruolo da lei svolto nella sua creazione:

“Avram mi ha proibito di vederti, ma possiamo ancora comunicare attraverso la Base ed è qui che creerò le mie buba masiod, le favole della nonna, per te. […] Sono la figura […] che ti insegna a mitigare la violenza attraverso un rapporto umano”
(ibidem).

È, come vediamo, Malkah a programmare Yod nello sviluppo del suo lato emotivo, a dargli un’educazione sentimentale iniziandolo al racconto della creazione del suo antenato, del Golem Joseph da parte del rabbino Judah Loew nella Praga del 1600 (la celebre e antica leggenda ebraica sul mito dell’uomo artificiale creato da un altro uomo mediante la costruzione di un simulacro d’elementi naturali, la terra, che prende vita grazie a formule magiche).
Marge Piercy vuol mostrarci come tra il Seicento e il 2059 ci siano tante differenze, soprattutto culturali, ma come nello stesso tempo e allo stesso modo Yod e Joseph sono espressione di subjects in process, decentrati, che suggeriscono la possibilità di innumerevoli altre storie ma soprattutto tematizzano la costruzione dell’identità decostruendo, di conseguenza, le dicotomie su cui si basa il pensiero occidentale.
Viene, inoltre, evidenziato che è il potere delle parole a creare la realtà: il Golem prende vita quando sulla sua fronte viene scritta la parola emet, verità e può essere distrutto trasformando la parola da emet a met, ovvero morte; allo stesso modo Yod è il risultato di un linguaggio di programmazione, di un lavoro di studio, ricerca e “inserimento di dati” che lo rendano perfettamente integrabile nella società:

“Bisogna insegnargli a parlare agli umani, a comportarsi in società, a gestire le sue funzioni”
(ibidem).

E come un bambino che viene alla luce protestando e piangendo, allo stesso modo Yod vive la sua “nascita” con spavento, sofferenza, come spiega a Shira:

“Ti ricordi l’equivalente della tua nascita?
Nel momento in cui presi coscienza nel laboratorio tutto cominciò a precipitare verso di me. Sentìì un dolore acuto, terribile, bruciante. Emisi un urlo di terrore. […] Tutto mi aggrediva. Il suono, la vista, il tatto, tutti i miei sensori mi inviavano enormi masse di dati, tutti apparentemente di uguale importanza, ugualmente forti. Mi sentivo bombardato fin quasi allo stordimento. […] Ho dovuto subire l’esperienza di grandi flussi di informazioni casuali che si facevano strada nella coscienza. Ero tempestato da controlli interni, temperature, distanze fra me e gli altri oggetti, analisi chimiche, rapporti sulla temperatura di parti diverse della mia pelle e dell’atmosfera, definizioni di parole, calcoli, traiettorie, funzioni trigonometriche, algoritmi, ora esatta, storia locale e mondiale, quaranta lingue. […] Ero troppo confuso e stravolto per poter distinguere le varie sensazioni. Non sapevo nemmeno cosa fossero. Sapevo solo che sentivo male”
(ibidem).

Leggendo questo passaggio notiamo come la descrizione della nascita avvenga attraverso l’impiego di termini scientifici, quasi a porre l’accento sulla sua natura di macchina, ma nello stesso tempo siamo coinvolti emotivamente dalla sofferenza e dalla confusione che prova, proprio come essere umano. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’impossibilità di definire, di inserire Yod in una categoria fissa, stabile. La stessa difficoltà che incontriamo nella scrittura, dato il susseguirsi degli eventi senza una continuità logica.
Una scrittura che, per questo, potrebbe considerarsi cyborguesca, per riprendere il termine coniato da Giulia Colaizzi (2006), da cyborg e dalla nozione di corpo grottesco di Michail Bachtin, ovvero un corpo non confinato in sé stesso, ma che vive in un rapporto di simbiosi con altri corpi, di trasformazione e rinnovamento, ricorrendo anche a mescolamenti e contaminazioni che non conoscono soluzione di continuità tra umano e non umano, animale e vegetale, organico e inorganico (cfr. Bachtin, 1971 e 1988).

Secondo Colaizzi il corpo cyborguesco è un corpo che eccede costantemente i suoi limiti, non è chiuso in una totalità ma è un corpo dialogico, identico a sé stesso e nello stesso tempo altro, un corpo strutturato come un’articolazione di discorsi e differenze, che si ha nel e attraverso il linguaggio. Quindi scrittura cyborguesca poiché non è chiusa in una totalità, ma è eterogenea, risultato della fusione di linguaggio magico, mitico della tradizione cabalistica attraverso l’uso del passato e linguaggio informatico, scientifico rappresentato dal mondo virtuale con l’uso del presente/futuro. Le unità di tempo, di spazio vengono completamente stravolte e la scrittura si pone come la grottesca parodia di ogni forma di coerenza.
Di conseguenza, i canoni della narrativa basata su criteri di verosimiglianza e naturalismo, che offre una visione monolitica e chiusa del mondo, vengono sconvolti. Qui, alla monologicità della parola, si sostituisce la pluralità di voci e punti di vista dei personaggi che popolano il romanzo e che non s’inquadrano in un progetto unico e unitario. Piercy, infatti, si nasconde, si rende invisibile e lascia che siano i suoi personaggi a narrare e narrarsi. Realizza, cioè, il suo discorso attraverso un gioco di rinvii da interpretato ad interpretante, cosicché la sua parola “si situa in un dialogo infinito” (cfr. Ponzio, 2004), non si lascia imprigionare nella sua realtà, ma rompe i confini del suo tempo e rivive nel dialogo con gli interpretanti di mondi differenti: quello futuro ricco di suggestioni cyberpunk e quello passato, della tradizione orale, della magica atmosfera della Praga secentesca.

Nel “ri-scrivere” il mito della figura del doppio, del non-definibile, del non-circoscrivibile, come quella cyborg e del Golem, la scrittura di Marge Piercy trasgredisce i confini, permettendoci di uscire dal labirinto dei dualismi (Haraway, 2018) e presentandosi come una lotta al diverso, al molteplice, soprattutto per l’impossibilità di rinchiuderla in una sola lettura. Non ci mostra, infatti, un solo “volto”, ma si apre alla pluralità delle interpretazioni possibili: si apre, cioè, all’eteroglossia in quanto si pone fuori dalla produzione di un senso che si propone rassicurante e immutabile, fuori da un sapere che pretende di dargli un corpo preciso, che abbia appunto senso.
La scrittura di Marge Piercy fornisce a suo modo conforto in chi crede profondamente nella possibilità di un cambiamento positivo, poiché i suoi testi permettono di intravedere le infinite possibilità che il nostro vivere quotidiano soffoca e, soprattutto, rafforzano la convinzione che l’immaginazione sia lo strumento di liberazione più potente: se non siamo capaci di concepire qualcosa di diverso, non possiamo sperare di ottenerlo.

Letture
  • Michail Bachtin, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino, 1971.
  • Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino, 1988.
  • Antonio Caronia, Il cyborg. Saggi sull’uomo artificiale, Shake Edizioni, Milano, 2001.
  • Giulia Colaizzi, El cuerpo cyborguesco, o el grotesco tecnológico in Genero y representación. Postestructuralismo y crisis de la modernidad, Biblioteca Nueva, Madrid, 2006.
  • Eleonora Federici, The écriture féminine of a ‘hideous progeny’. Marge Piercy’s He, She and It as a Postmodern Intertext of Mary
  • Shelley’s Frankenstein, in Versus. Quaderni di studi semiotici, 77/78, maggio-dicembre, Bompiani, Milano, 1997.
  • Vita Fortunati, Intertestualità e citazione fra Modernismo e Postmodernismo. Il pastiche di Antonia Byatt fra letteratura e pittura in Leitmotiv. Motivi di estetica e di filosofia delle arti, 2, rivista elettronica, 2002.
  • Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 2018.
  • Augusto Ponzio, Linguistica generale, scrittura letteraria e traduzione, Guerra Edizioni, Perugia, 2004.
  • Krestin W. Shands, The repair of the world: the novels of Marge Piercy, Greenwood, Westport, 1994.
  • Bruce Sterling, Mirrorshades. L’antologia della fantascienza cyberpunk, Bompiani, Milano, 1994.