Viaggio nella letteratura, 
da Ulisse ad Augie March

Giorgio Manganelli,
Concupiscenza libraria
a cura di Salvatore Silvano Nigro

Adelphi, Milano, 2020
pp. 454, € 24,00

Giorgio Manganelli,
Concupiscenza libraria
a cura di Salvatore Silvano Nigro

Adelphi, Milano, 2020
pp. 454, € 24,00


Giorgio Manganelli cominciò a scrivere recensioni nel 1946, su la Gazzetta di Parma e al Ragguaglio Letterario. Poi la svolta: la collaborazione, nel 1949, alla Rassegna d’Italia. Manganelli aveva 27 anni: era già un lettore vorace, onnivoro, e tuttavia abbastanza metodico. Sergio Solmi, subentrato a Francesco Flora nella direzione della Rassegna d’Italia, aveva bisogno di un collaboratore che si occupasse di letteratura inglese, e che scrivesse note, traduzioni, recensioni, consigli sulle novità editoriali.

“«Manganelli com’è? È consigliabile?» chiede Solmi al poeta Attilio Bertolucci; che risponde: «Per traduzioni e recensioni Manganelli può andare ottimamente: è molto giovane, un po’ aspretto, ma intelligente e vivo sul serio e pieno di passione»”.

Lo scambio di battute è riportato da Salvatore Silvano Nigro, il curatore di Concupiscenza libraria, nel saggio Breve storia di uno scrittore di recensioni posto in chiusura dell’antologia. Da lì è partita un’attività di giornalista letterario lunga quasi mezzo secolo che ha portato Manganelli a collaborare per riviste e quotidiani come Il Giorno, L’Illustrazione Italiana, Il Mondo, L’Espresso, Epoca, L’Europeo, il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero. Precisa Nigro:

“Diario critico di uno scrittore, e autobiografia di un lettore che con raffinatezza retorica maneggiava le recensioni, intensamente scritte, come concisi saggi letterari per pagine di giornali, Concupiscenza libraria è un libro strutturato che nella sua trama racconta la libertà fantasiosa, e l’ingegnosità di far giornalismo culturale come operazione intrinseca alla letteratura”.

Le recensioni raccolte in Concupiscenza libraria (il primo di due volumi in progetto, come si legge nelle note che seguono i testi) rispecchiano un’attività critica che si distingue, oltre che per il piglio/taglio sicuro e affilato dei giudizi, anche e soprattutto per la grande varietà di autori e titoli, di generi  e sottogeneri (la narrativa nelle sue plurime declinazioni – fantascienza, giallo, noir, avventure ed esotismo – la poesia, l’antropologia, la saggistica, la storia), dall’antichità greca fino agli scrittori moderni contemporanei, italiani e internazionali: dall’Iliade di Vincenzo Monti all’Endymion di John Keats, dal Seneca dei Dialoghi morali all’Edgar Allan Poe di Eureka, dal Cicerone della Pro Milone al James Joyce dell’Ulisse pubblicato negli Oscar Mondadori, dalle Etiopiche di Eliodoro (la lunga e complicata storia d’amore di Teagene e Cariclea) alle Avventure di Augie March di Saul Bellow, dalla Storia Naturale di Plinio il Vecchio a L’età dell’ansia di Wystan Hugh Auden. Questa vastità di interessi che non si arresta di fronte a confini geografici, linguistici e storici, era già una caratteristica sottolineata per le Laboriose inezie pubblicate nella collana Saggi blu di Garzanti (1986): in evidenza sulla prima di copertina campeggia lo strillo “Da Omero a Gian Burrasca, passando per Marco Polo, un drammatico paesaggio di classici descritto da un lettore vagabondo”.

“Quando l’amante è una fune che non si spezza”
Manganelli scrive le recensioni in prima persona. Non è un aspetto irrilevante, se pensiamo all’impersonalità richiesta oggi dai giornali. Scrivere in prima persona comporta già, in sé, una scelta di natura narrativa, stilistica e critica: è più adatta a uno scrittore che a un professore o un “ispido pedagogo”, giusta l’espressione che Manganelli usa in riferimento a Edmund Wilson; ed esige un gesto critico personale, a rischio di faziosità, che combini l’audacia prensile del giudizio con la capacità e la lucidità, queste sì caratteristiche del critico letterario, di cogliere i tratti somatici salienti di un autore: insomma, la recensione alterna, quando necessario, il colpo di manganello e la delicata precisione dell’entomologo che infilza una farfalla in una bacheca.

Scrittore colto, erudito, bibliofilo, Manganelli si muove con sicurezza e disinvoltura dai classici latini al romanzo contemporaneo, dai vocabolari amati e compulsati da poeti e filologi, alla celebrazione delle collane più popolari come l’inglese Penguin su cui scrive un articolo (Anniversario dei Penguin Books, in Tempo Presente, I, 6-7, ottobre 1956, e ora in Concupiscenza libraria) nell’occasione del ventunesimo anno dalla nascita della celebre collana (ricordiamo che gli Oscar Mondadori sarebbero arrivati sul mercato vent’anni dopo).  Una delle recensioni più emblematiche di questo approccio in prima persona, dal quale traspare il gusto per il libro raro, speciale, da lettori colti, si intitola Quando l’amante è una fune che non si spezza. Le “amanti” sono quelle corde più grosse che sostengono il peso dell’antenna. Ecco l’incipit dell’articolo, di pretta marca autobiografica:

“Le cose sono andate a questo modo: un paio di settimane fa entro in una libreria consueta, piccola ma di buon palato, e l’occhio cade subito su di un libro, posato di costa su di un tavolo, frammezzo ad altri libri; ma quel libro ha un che di strano: è di corporatura soda e agiata, rilegato in tela azzurra, con incisioni in oro. Così fatte edizioni oggi non usano; in mezzo ai suoi sodali di tavolo, quel libro ha un che di autorevole e forastico”.

Di che libro sta parlando, Manganelli? Lo rivela nel paragrafo successivo: si tratta della ristampa anastatica, per i tipi di Mursia, 1987, della prima edizione (1889) di una chicca non solo per gli amanti della nautica e delle arti marinaresche, ma anche per bibliofili e cultori di lemmi tecnici e rari, il Vocabolario marino e militare di Alberto Guglielmotti:

“Non c’è dubbio, è lui. Il Guglielmotti è quello squisito, sublime dizionario che D’Annunzio adoperava non meno del Tommaseo-Bellini, scrigno inesauribile di parole preziose, rare, esatte di una esattezza lievemente patologica; un vocabolario che ho visto citato innumere volte in nota – date un’occhiata all’edizione dannunziana a cura di Praz e Terra (Ricciardi) o all’Alcyone a cura di Roncoroni (Mondadori) e lo troverete quasi ad ogni pagina; ma chi l’aveva visto prima d’ora? Veramente, questa ristampa anastatica di Mursia è un raro omaggio per il cinquantenario della morte, e anzi non si poteva far di meglio […] Ci sono poesie, come L’onda nell’Alcyone che, senza la complice presenza del domenicano Guglielmotti, non sarebbero mai state scritte. L’onda dannunziana è nata dalla attenta e certo affascinata lettura della voce Onda nel Guglielmotti, una voce che si protrae per oltre sei colonne, e descrive le onde secondo la loro intensità e forma”.

Cicerone, il virtuoso dell’eloquenza
Visto che abbiamo accennato, tramite Manganelli, a Gabriele D’Annunzio, cui non era certo estranea una più o meno felice vena retorica e magniloquente, approdiamo, in virtù di questi richiami interni, a un’altra recensione magistrale, quella sulla Pro Milone di Cicerone: qui Manganelli evidenzia, fra l’altro, la capacità di sviluppare, all’interno di una concisa ma icastica sinossi del testo, considerazioni più generali che lo portano, senza dar la sensazione di uscire dal tema, a toccare autori e generi di un altro emisfero storico e letterario. Partiamo dall’incipit della recensione:

“Quando mi sono trovato tra le mani il volumetto giallino, ho provato un lieve sussulto. To’, chi si rivede! Cicerone, In difesa di Milone, che un tempo furoreggiava nei licei classici, un testo che ha fatto soffrire ed eccitato intellettualmente generazioni di allievi coatti al latino. […] Il 18 gennaio del 52 avanti Cristo – è una storia vecchia – sulla via Appia, presso Boville, si scontrarono due potenti uomini politici romani, ciascuno accompagnato da una scorta di «bravi»; l’uno, Milone, era di parte senatoria, l’altro, Clodio, un brillante e facinoroso popularis, oggi lo diremmo di sinistra. I due gruppi vennero alle mani, Clodio venne ferito, si rifugiò in una taverna, Milone lo incalzò, lo fece uccidere, ne abbandonò il cadavere straziato sulla strada. Ne cercò anche il figlioletto per farlo a pezzi ma non gli riuscì di trovarlo. Che le cose andassero a questo modo non lo sappiamo da Cicerone, ma da un oscuro commentatore, Asconio Pediano”.

Cicerone assunse la difesa di Milone, suo amico e della stessa parte politica, la cui posizione “era indifendibile; per salvarlo bisognava mentire; e Cicerone mentì”. Il processo si svolse in un clima che definire teso è un pallido eufemismo. Il grande oratore era così agitato che il suo discorso di difesa non convinse il pubblico (buuuheggiante) e i giudici; e Milone fu esiliato. E infatti, il testo che leggiamo oggi non è quello originario, pronunciato da Cicerone, ma il frutto di una seconda redazione che i letterati latini definirono un capolavoro:

“La lettura retorica della Pro Milone è una esperienza non facile ma straordinaria; le ripetizioni, le assonanze, le dissonanze, le opposizioni, le concordanze, le costruzioni rovesciate, gli echi, le rime, le negazioni semplici e doppie fanno della prosa di questo testo un esempio di una bravura sfrenata, qualcosa che fa pensare a certi pezzi per pianoforte proposti alle mani di un virtuoso impareggiabile”.

L’elogio al virtuosismo retorico della Pro Milone conduce Manganelli verso riflessioni attualizzanti di più ampio respiro: “l’eloquenza come genere letterario non esiste più. Ci sono politici, avvocati, ecclesiastici eloquenti: ma da secoli non appartengono più alla storia letteraria. L’ultimo in assoluto fu forse Bossuet, morto nel 1704; in Italia, credo sia stato padre Segneri, morto nel 1694”. La recensione volge alla chiusura con un’ipotesi sorprendente: l’eloquenza finisce verso la conclusione del Seicento per rinascere nel romanzo:

“Non ci sarà qualcosa in comune tra eloquenza e romanzo? Ad esempio, la persuasione emotiva, un certo animo deduttivo, una volontà di irretire. Se penso a uno dei primi romanzi europei, il Robinson Crusoe di Defoe, mi è difficile non sentirci qualcosa che non posso non chiamare ‘eloquenza’. E poi La principessa di Clèves, o magari i Promessi Sposi, o Guerra e pace, o La signora Bovary, o I demoni di Dostoevskij, e magari Kafka”.

Una tesi originale; ma non è forse anche questo il compito del critico: stupire, spiazzare con arditi collegamenti?

Un ritratto del perfetto recensore
Pur consapevole della mancanza di una teoria generale della tecnica e dell’arte della recensione, Manganelli guardava anche (se non principalmente) al modello offerto da Edmund Wilson:

“Wilson è riuscito critico di gran classe. Nulla manca di ciò che fa la buona e cortese recensione: l’informazione insinuata con garbo, l’affabilità, la dotta discrezione; ma in realtà il centro è altrove: è nel tessuto critico compatto ed agile, nella assoluta definitezza della scelta intellettuale; in tre, quattro pagine riconosciamo, nitidissimo, non tanto il giudizio, che pare compito da professore o da irto pedagogo, quanto il gesto critico, esatto, lucido, veloce e non precipitoso, felicemente prensile”.

Wilson, continua Manganelli in questo articolo, non solo “è critico anche nelle recensioni, ma, oltre che critico, o insieme, è straordinario scrittore. Wilson ha ‘l’autentico amore dello scrivere’, quella passione seria e dominante che riconosceva, ad esempio, nel frivolo Firbank […] e che negava al serioso Huxley, goffo messaggero di grandi verità”. Anche il critico americano è caratterizzato dalla sensualità dell’intelligenza: “non scrive stroncature: non è un becero papiniano, né uno sciatto, ossuto ideologo; è, dobbiamo dirlo, un letterato. Al letterato spettano in primo luogo obblighi di stile: odio e disprezzo, sentimenti del tutto naturali in una sana intelligenza letteraria, vogliono buone letture e periodi impeccabili…Non è compito del critico aver sempre ragione, ma è suo dovere aver torto in modo razionale; e basterà vedere, tra questi saggi, l’articolo su Kafka, che mostra Wilson al «best worst»”.

Anche i giudizi di Manganelli sono penetranti e fulminanti, hanno la definitezza scultorea dell’epitaffio o dell’epigramma; a volte la critica è sottilmente ironica, e nel contempo volutamente ambigua: “Longanesi è scrittore. Malaparte è un’altra cosa: è uno che sa scrivere”. Un giudizio tagliente, dove il lettore non sa, a tutta prima, se a offendersi dev’essere Longanesi o l’autore della Pelle o di Kaputt. Manganelli sta recensendo uno dei libri più noti di Longanesi, Parliamo dell’elefante. Ed è uno degli articoli che più consigliamo (“Leo Longanesi: ecco, ho appena iniziato a scrivere e debbo far sosta. Quel nome è strano; è fatto di un cognome che si porta a spasso un nome, come un cagnolino”; così l’incipit).  Ma qui siamo ancora nella benevola ironia; che a volte si converte in elegante cattiveria. Emblematica, in questo senso, la recensione a Fogli di Diario di Carlo Cassola, della quale proponiamo questo assaggio:

“Come prosatore, egli si rivela il maestro della segnaletica stradale, nel senso più cauto: tra sobrio e neghittoso, peritoso ed imbronciato… Ha anche – giacché scrive – delle acciabattate idee letterarie, molto casalinghe: «La letteratura è una parafrasi della vita. E la vita è lì, pronta a farsi parafrasare». Stretto nella teca dei suoi calzoni accanitamente abbottonati, il ritroso Cassola ha della letteratura un’idea che fa apparire «La famiglia cristiana» l’organo dell’Ente per lo Scambio delle Mogli”.

D’altronde, questa critica su Cassola non deve stupire, se consideriamo l’appartenenza di Manganelli al Gruppo 63, la punta di diamante della Neo-avanguardia, che con l’autore della Ragazza di Bube non fu meno tenero definendolo “Liala del ‘63″…

Letture
  • Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, 2004.
  • Giorgio Manganelli, Laboriose inezie, Garzanti, 1986.
  • Giorgio Manganelli, Antologia privata, Quodlibet Compagnia Extra, 1989.
  • Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Adelphi, 1994.
  • Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere, Adelphi, 1989.