Nuove trame per riscrivere
millenni di storie africane

(a cura di) François-Xavier Fauvelle
L’Africa antica
Traduzioni di Anna Delfina Arcostanzo,

Valeria Zini
Einaudi, Torino, 2020
pp. XVI – 624, € 85,00

(a cura di) François-Xavier Fauvelle
L’Africa antica
Traduzioni di Anna Delfina Arcostanzo,

Valeria Zini
Einaudi, Torino, 2020
pp. XVI – 624, € 85,00


Nel mondo antico (ma accadeva ancora in tempi a noi prossimi), ai margini delle mappe usate da marinai, mercanti, esploratori e predicatori, se lo sguardo si spostava a sud, poco sotto le coste del Mediterraneo, avrebbe incontrato una vasta area apparentemente ignota, degna del più profondo horror vacui, dove, rivolgendo attenzione ai dettagli, si potevano seguire poche tracce incerte e incostanti, percorsi che collegavano isolati vertici dei poligoni sottesi da questa ricerca dell’orientamento spirituale, di una geometria della mente. Erano le oasi, da El Fayyum a Kufra, da Siwah a Duez, erano i percorsi delle carovane berbere e arabe che attraversavano il gran mare di sabbia, il Sahara, da Timbuctù, Djenne, Chinguetti, Taudenni, Ouarzazate e altri luoghi molto meno noti, fino a giungere al Cairo, a Tunisi, a Orano, trasportando schiavi, avorio, legname prezioso, e i mille tesori provenienti da un luogo visto come oscuro e arcano.
Già allora però l’Africa non era il suo racconto, e oggi la documentazione storica ci conferma che quell’immaginario era il risultato di una narrazione dettata da necessità nostre interne di potere, e che ciò era ben chiaro a chi aveva una esperienza diretta dell’Africa. Hic sunt leones, oppure hic sunt dracones, così si diceva che scrivessero i cartografi, per indicare quelle terre ignote poste oltre il deserto, regno della regina di Saba e del Prete Gianni, il luogo in cui la letteratura ha incarnato l’inconscio di un continente, il cuore di tenebra che Joseph Conrad è riuscito a descrivere come nessun altro.

È dunque benvenuta un’opera come quella del volume collettaneo coordinato da François-Xavier Fauvelle, studioso dotato di un curriculum e di una bibliografia senza paragoni, che dopo molte esperienze in diversi istituti e centri di ricerca, è approdato nel 2018 al Collège de France, dove si istituisce, per la prima volta, una cattedra di storia africana: Histoire et archéologie des mondes africains (cfr. Fauvelle, 2019). L’Africa antica, a oggi il suo lavoro più ambizioso, è stato pubblicato in Francia nel 2018 e quest’anno da Einaudi in Italia, in una edizione maestosa, quasi enciclopedica e corredata di un eccezionale apparato iconografico e testuale è un volume collettivo, di cui Fauvelle oltre a essere curatore e ad aver scritto alcuni dei saggi, è autore di una importante introduzione metodologica e orientativa.
Prima però di illustrare per sommi capi l’opera, facciamo però un passo indietro.

Tra esotismi, tragedie e rimossi
L’Africa è stata per lungo tempo oggetto di curiosità e fonte di tentazioni, così come lo erano gli animali (o gli uomini) che a volte, miracolosamente, riuscivano a giungere vivi nelle corti dei papi e dei principi, e vi restavano quel tanto che bastava a divertire la corte, per essere poi dimenticati e lasciati a morire, lontano dalla loro terra. Le esplorazioni condotte dagli europei, oltre alla prosopopea della ricerca geografica e scientifica, avevano evidentemente un lato oscuro, e questo sempre più ha accompagnato la ricerca di nuovi territori, leit motiv ufficiale e positivista delle guerre di conquista. La necessità di mano d’opera dell’Occidente ha reso l’Africa protagonista di ciò che oggi è noto come Maafa, la grande tragedia (in Swahili), l’olocausto nero, la tratta degli schiavi, che ha strappato dalla propria terra e condannato all’esilio una cifra indefinibile di persone, ma che alcune stime valutano intorno ai cinquecento milioni.

L’Africa è stata per secoli il grande rimosso dell’Occidente, e non è sorprendente che questo inconscio ctonio e senza tempo, questo archetipo inquietante e tentatore, sia stato sempre visto come a-storico, senza una sua dimensione del divenire, come un qualcosa di sempre uguale a sé stesso, lo specchio di un’Europa incapace di accettare la propria crudeltà, pronta a riversare nelle profondità dell’Altro l’orrore di cui è stata capace nel tempo. Lo stesso meccanismo di rimozione si replica ancora oggi, quando lasciamo che i bambini anneghino nel Mediterraneo e ci giustifichiamo scaricando la responsabilità sugli scafisti e in genere su altri immigrati, come se non fosse limpida e chiara l’incapacità dell’Europa di riconoscere la propria debolezza morale e politica. Dopo la Seconda guerra mondiale e il lutto infinito che ha portato con sé, si mise in moto il lungo e faticoso processo di decolonizzazione.
Sono cominciati decenni di studi, ricerche e soprattutto di lotte, volte a riconquistare per l’Africa una autonomia sia intellettuale che materiale, ed è un processo che ancora oggi è tutt’altro che concluso, e che ci costringe sempre più frequentemente a porre in discussione i fondamenti eurocentrici del nostro mondo e del nostro pensiero. I nomi di Franz Fanon, Nelson Mandela, Jomo Kenyatta, Patrice Lumumba, Thomas Sankara, Samora Machel, Leopold Senghor, per citare solo i più noti, sono alcuni tra i teorici e i leader politici che hanno posto la fine del colonialismo occidentale e il raggiungimento dell’autonomia dell’Africa come obiettivo alla loro prassi. È evidente che questi nomi rappresentano ideali e pratiche anche molto diverse tra loro, ma ciò che li accomuna è la volontà di restituire l’Africa alla storia, di portare alla luce un processo in divenire, dove si sono viste la nascita e la morte di imperi e città, estirpando per sempre l’idea unitaria di un continente, e riportare alla luce le mille afriche storicamente determinate.

Un’idea dominante di Africa
È nel 1961 che lo storico Federico Chabod dette alle stampe il suo Storia dell’idea di Europa, testo cruciale per la fondazione culturale di quel processo obiettivamente epocale iniziato pochi anni prima con i Trattati di Roma, e che è sfociato nell’Europa unita, oggi centro della riflessione politica nel vecchio continente. Chabod costruisce le fondamenta dell’Europa come un qualcosa di condiviso, legato al pensiero greco e al cristianesimo, ma, nel momento in cui cerca un contraltare a cui appoggiarsi, l’intellettuale valdostano lo identifica nell’Asia, che, sin dai tempi delle Termopili, e a seguire con Alessandro Magno, fino alla riflessione sul ruolo politico della Cina nella seconda metà del Novecento, rappresenta, nella sua concezione, la nemesi, l’antitesi con cui si devono confrontare l’Europa e il suo progetto. L’Africa, nella geopolitica di Chabod, non esiste, non ha un ruolo, è, appunto, astorica, mitologica (cfr. Chabod, 2007).
Nella sua mappa mentale lui sì, molto più dei carovanieri arabi dell’alto medioevo, avrebbe potuto scrivere Hic Sunt Leones. L’Europa che Chabod agogna vive nella sua torre eburnea, nonostante le faglie e le fratture che con sempre maggiore intensità in quegli anni la raggiungono, partendo dall’Indocina, dall’India, dall’Egitto, dall’Algeria. In quello stesso 1961, provenendo da un mondo completamente alieno a quello di Chabod, Franz Fanon scrisse I dannati della terra, dimostrando, con la forza di quelle pagine, come il mondo culturale, volendo, avesse disponibili tutti gli strumenti di cui necessitava per aggredire e combattere il colonialismo e lo sfruttamento del terzo mondo.

I resti della città araba Gedi risalente al XIII secolo situata nell’attuale Kenya.

Oggi il processo di storicizzazione dell’immagine ideale che l’Occidente ha costruito addosso al continente africano ha fatto molti passi avanti, ma lo scalpore e il dibattito suscitato dall’opera di Fauvelle – e qui torniamo al succitato volume L’Africa antica – indicano quanto lungo è ancora il cammino da percorrere. Fauvelle aveva già fatto capolino sul nostro mercato editoriale sempre grazie a Einaudi che nel 2017, a sorpresa per il lettore italiano non specialista, aveva presentato Il rinoceronte d’oro, primo tra gli scritti dello storico francese a raggiungere il grande pubblico. Pubblicato in originale nel 2013 e più volte premiato, è una collezione di ben trentaquattro saggi che ripercorrono i cammini dei viaggiatori che ci hanno riportato testimonianze dell’Africa subsahariana nelle epoche precedenti l’inizio del colonialismo propriamente detto, concludendosi con l’arrivo di Vasco de Gama sulle coste del Mozambico.
Il volume è di lettura estremamente interessante e piacevole, e conduce il lettore moderno attraverso mondi sconosciuti e affascinanti, momenti della storia ancora ignoti al grande pubblico. Per Fauvelle, la sorpresa è un elemento centrale e fondamentale per approcciarsi adeguatamente alla storia dell’Africa. “Essere sorpresi dalla storia dell’Africa significa accettare di essere nuovamente illuminati sul mondo” – scrive in L’Africa Antica –, perché è l’intera concezione del mondo che l’Europa porta con sé a dover essere messa in discussione. La centralità dell’opera si rivela difatti, dopo solo poche righe, già nella prima pagina della prefazione, dove Fauvelle, senza esitazioni, traccia le linee di un vero e proprio programma di ricerca, che resterà il faro dell’intera opera:

“Occorrerà rassegnarsi a non comprendere, sempre, ciò che si vede, e a non essere sempre sicuri che ciò che si vede fu ben visto o ben compreso dalle nostre guide. Ciò che descrivono, infatti, e che senza di loro noi non avremmo mai potuto vedere, deriva, nella maggior parte dei casi, da ciò che costoro hanno sentito o letto. Non ci si dovrà scoraggiare per le imprecisioni geografiche del tempo, per le contraddizioni degli informatori, per le obiezioni alle quali si espone chi si avventuri da un mondo all’altro. Bisognerà, invece, liberarsi dall’immagine di un’Africa «immutabile», dell’Africa delle «tribù», dell’Africa come specchio delle origini, poiché, al contrario, è di un’Africa nella storia che parleremo” (Fauvelle, 2017).

D’altronde nella prima pagina del prologo de L’Africa antica Fauvelle è come se continuasse un discorso qui interrotto:

“Allora, diciamolo chiaramente e con fermezza […]: certo, tutte le società non sono altro che trasformazione! Come potrebbe non essere così, dal momento che sono società e che quindi conoscono evoluzioni, innovazioni, introduzioni, rivoluzioni. Se infatti la particella minima del tempo umano è l’evento, vorremmo forse negare proprio questo agli uomini e alle donne del continente africano: la loro comune appartenenza a quella forma dello stare al mondo che fa di loro dei soggetti storici, esattamente come lo sono i nostri contemporanei?”.

La costruzione di una storia, lo studio di questa, la ricerca archeologica, la datazione, la contestualizzazione degli eventi, la definizione di un quadro interpretativo di riferimento, l’esistenza stessa di un passato sono elementi essenziali per pensare il futuro. In questo senso la ricerca storica in Africa è soprattutto per l’Africa, ed è essenziale da un punto di vista politico e culturale per gestire il presente e progettare il futuro. Felwine Sarr, economista senegalese e co-fondatore insieme al camerunense Achille Mbembe dei cosiddetti workshop di riflessione Ateliers de la Pensée, nel suo saggio Afrotopia, affronta esplicitamente il problema del futuro dell’Africa, e di quale strategia sia più consona alle sue caratteristiche peculiari (cfr. Sarr, 2018). Si tratta di cogliere il continente per ciò che è nella sua unicità e nelle sue diversità, evitando di cadere da un lato in ciò che lui chiama afro-pessimismo, ovvero in quel senso di “costernazione davanti a un presente che sembra caotico e attraversato da diverse convulsioni” (ibidem), perché “le società si costruiscono prima di tutto dentro il proprio immaginario” (ibidem), e dall’altro di diventare figli di un’economia di mercato che dimostra ogni giorno di più i suoi limiti e che non può (e non deve) diventare il modello dell’Africa del futuro.

“L’Africa non deve raggiungere nessuno, non deve più correre per strade che le vengono indicate, ma camminare rapidamente su quella che ha scelto per sé. Il suo statuto di figlia maggiore dell’umanità esige di tirarsi fuori dalla concorrenza, dalla competizione, da questa età infantile […]. Deve abbandonare questa età immatura in cui le nazioni non si domandano nulla sulla quantità di ricchezza prodotta o prelevata predatoriamente ogni anno […]. Bisogna completare la decolonizzazione per un rincontro fecondo con sé stessi. Rivolgere lo sguardo verso l’interno […]. Ci vuole una profonda rivoluzione culturale che cominci con un cambiamento dello sguardo che l’Africa rivolge a sé stessa, per restaurare la sua immagine allo specchio, rispettarsi, stimarsi di nuovo […]” (ibidem).

È in un contesto come questo, quindi, che viene pubblicato L’Africa Antica. Come si è detto, obiettivo dichiarato dell’opera è portare il divenire negli studi africani, superando quelle metodologie che cercano invece le costanti, le storiografie che inseguono l’idea di africanità come collante di un continente. Questa, per Fauvelle, è uno dei due grandi pericoli in cui può cadere lo storico. Da un lato l’idea di considerare il Sahara come un limite invalicabile e legare quindi solamente all’area mediterranea le sorti del nord Africa, non considerando i contatti continui avvenuti sia in epoca neolitica che in seguito, e soprattutto dimenticando che questa visione è all’origine del razzismo negrofobo che ancora oggi subiamo. Dall’altro l’idea di un Africa unica

“un’invenzione dello sguardo occidentale moderno, incline a non differenziare per riuscire meglio a distogliere lo sguardo. Guardiamoci dunque da qualsiasi idea di africanità, quell’essenza che risiederebbe come reliquia o come dato invariato in ogni cultura del continente”.

In questo stesso contesto Fauvelle prende le distanze anche dall’esotismo, fonte della visione dell’Africa come archetipo dell’origine e della naturalità, ma che nei fatti produce una descrizione tossica del continente (“la trappola del primitivismo”, nella felice formulazione che ne dà Fauvelle), non rispondente né alla sua storia né al suo presente.

“[…] si può forse pensare che la storia dell’Africa, anche quando non venga percepita in chiave di vuoto da colmare, sia irriducibilmente esotica, la sua intelligibilità una sorta di bolla all’interno della quale prenderebbe vita un teatro d’ombre e fantasmagorie, per il piacere degli occhi e la risonanza delle emozioni? Dobbiamo smascherare questa tentazione consolatoria. […] Sono ancora questi stereotipi che a volte vediamo espressi, non senza furbizia, nelle celebrazioni di quelle «origini» di ogni sorta, di cui l’Africa avrebbe fatto dono al resto del mondo […]”.

Seguendo una logica affine a questa discriminante Fauvelle affronta criticamente anche il tema della cultura orale, solitamente vista come la principale forma di diffusione del sapere in Africa, e quindi inevitabilmente collegata a una percezione della stessa come mitologica e astorica. In realtà nel volume vengono analizzate decine di lingue e culture scritte esistite (e dimenticate) nel corso degli oltre ventimila anni su cui spazia il volume, a partire dalle civiltà precedenti la formazione del Sahara fino ai regni che sono giunti fino all’incontro fatale con gli europei, e spesso durati secoli, come per esempio quello Songhay, del Mali e dello Zimbabwe. Oltre ai riferimenti contenuti nelle singole sezioni alla questione della scrittura e più in generale al problema della raccolta delle fonti sono esplicitamente dedicati diversi specifici capitoli, tra cui il XIII, intitolato Scritture della storia in Africa (XIII – XVII secolo), a firma di Bertrand Hirsch, e l’intera sezione conclusiva del volume, intitolata L’atelier dello storico. La compresenza di scrittura e cultura orale, riflessa nella disomogeneità della mappa linguistica del continente, è esemplare per ciò che Fauvelle definisce la vera singolarità dell’Africa, ovvero la pluralità delle traiettorie storiche.

“[…] nel continente hanno sede svariati ambiti storici, non isolati gli uni dagli altri, bensì articolati, a volte compenetrati: hanno resistito al fenomeno di quell’omogeneizzazione culturale di lunga durata prodotta altrove da rapide e reiterate migrazioni transcontinentali, dalla diffusione su larga scala di complessi tecnici ed economici, o dalla quasi uniforme patinatura linguistica, politica e religiosa veicolata dalle egemonie a vocazione universale. Di conseguenza, i grandi periodi preistorici e storici – Paleolitico, Neolitico, età dei metalli, Protostoria, Medioevo, età moderna – in Africa coesistono e al tempo stesso di annullano a vicenda perché non delineano più un tempo di tipo lineare (che è quello della trasformazione ineluttabile, quasi teleologica, delle società), né organizzano lo spazio in termini di estensione da un centro di influenza a delle periferie riceventi. Di conseguenza non è possibile attribuire al primo colpo l’appartenenza di una traccia a un dato spazio e tempo della storia […]”.

In conclusione, la massa di informazioni e sollecitazioni culturali a cui l’opera di Fauvelle sottopone chi vi si avvicina è oggettivamente immensa, e un approccio corretto alla lettura richiede, oltre a una notevole apertura mentale, anche una particolare attenzione, proprio per le singolarità sopra espresse e che caratterizzano l’oggetto della ricerca. Il risultato però è adeguato all’impegno, e lo stupore infantile, la sorpresa, la fascinazione che il lettore ne otterrà, lo ripagheranno della dedizione.

Le rovine della città denominata Grande Zimbabwe, fondata nell’XI secolo e tra le più antiche e imponenti strutture architettoniche dell’Africa del Sud precoloniale.

Fauvelle insiste in molti passaggi su questo aspetto, e ne ha ben donde. Difatti non si tratta solo di un testo accademico dedicato a un mondo di studiosi e di addetti ai lavori, per quanto nasca proprio in quel contesto e ne mantenga tutte le caratteristiche, ma rientra anche a pieno titolo in quella saggistica di tipo divulgativo che ha tra i suoi obiettivi quello di ampliare l’orizzonte del lettore, sradicandolo dalle sue certezze e proponendogli nuovi modelli interpretativi da utilizzare. È un principio soprattutto di democrazia culturale e, a maggior ragione, ambizioso per un volume di questo spessore e con un approccio così radicalmente innovativo. Fauvelle parla apparentemente ai suoi studenti, e in seconda istanza ai suoi lettori, ma, allargando i suoi orizzonti, come le onde di un sasso gettato nell’acqua, si rivolge anche alla Francia, all’Europa e al mondo intero, diventando il portavoce di quel continente a cui ha dedicato la vita.

“Spazziamo via, dunque, questi falsi dubbi: le società africane del passato, tutte le società africane, di qualsiasi passato, sono sempre state contemporanee di altre società, ugualmente e peculiarmente coinvolte nella maglia del tempo e della narrazione. Se c’è un riguardo che è loro dovuto, è quello di rafforzare il loro posto nel cosmopolitismo dei saperi del mondo. Il libro che avete tra le mani è dedicato a loro”.

Letture
  • Federico Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari, 2007.
  • Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2007.
  • François-Xavier Fauvelle, Il rinoceronte d’oro, Einaudi, Torino, 2017.
  • Felwine Sarr, Afrotopia, Edizioni dell’Asino, Roma, 2018.
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