Cromo nel giardino dell’Eden


The Talos Principe
Sviluppo: Croteam, 2014
Pubblicazione: Devolver Digital
Piattaforme: Microsoft Windows, macOS, Linux,
Android, PlayStation4

Le prime parole che si odono in The Talos Principle sono quelle di Dio. Il protagonista si guarda attorno, confuso, trovandosi nel mezzo di un vero e proprio giardino dell’Eden, mentre una voce risuona dai cieli, presentandosi come Elohim. Procede poi a spiegare cosa dovrà fare per avere accesso alla vita eterna. Non è esattamente un inizio comune, per una storia che parla di intelligenza artificiale, eppure l’incongruenza viene ricalcata immediatamente. Quando il protagonista si porta le mani al volto, sono quelle di un robot. Nel giardino coesistono mute rovine romaneggianti, portali di luce e mitragliatrici automatiche. Testi di caricamento appaiono in basso a sinistra, snocciolando l’avvio di processi informatici. E la strada per la salvezza non è composta da prove di fede, bensì da dei puzzle che utilizzano strumenti tecnologici fra le rovine. The Talos Principle si pone, fin dal primo momento, come una storia di origine e genesi, ma al giocatore vengono dati pochi elementi iniziali, oltre alle ovvie dissonanze e alla voce imperiosa della divinità. La stessa identità è un primo mistero: che ci fa un robot in un giardino del genere? E perché dei puzzle? L’apertura della storia non offre risposte, ma lascia il giocatore da solo con le proprie domande.

Stagliarsi fra le rovine
La volontà di Elohim è chiara: i sigilli (dei veri pezzi da Tetris) vanno raccolti completando puzzle di crescente complessità. Gli strumenti a disposizione del robot aumentano assieme alla difficoltà: raggi laser, proiezioni digitali, ventilatori e marchingegni sempre più dissociati dallo scenario circostante.  Il premio per il completamento dei sigilli è l’apertura di nuovi cancelli perlati, nuovi templi e nuovi mondi. Mentre il robot si muove di tempio in tempio, le rovine romane lasciano il posto al magico delta del Nilo e alle piramidi scintillanti, e poi alle cattedrali e ai cimiteri dell’Europa medievale. Al termine di quest’odissea, giura Elohim, attende la vita eterna.
Durante questo progresso, macchinoso e intrigante, apparentemente volto alla costruzione di qualcosa di grande, è sempre più evidente che qualcosa nel mondo che circonda il robot è profondamente sbagliato. I muri riappaiono e scompaiono con dei glitch grafici sempre più frequenti, i sentieri sterrati lasciano a tratti intravedere corridoi di cemento. Al centro di questa simulazione annaspante si erge una torre, la quale Elohim ha dichiarato off-limits all’uomo (o robot).  La torre si staglia in mezzo alla neve, in una steppa desolata fra i templi, e la cima si perde nelle nuvole. Durante il viaggio, al puzzle fisico si affianca quello della trama. Dei codici QR dipinti sulle pareti si rivelano leggibili come testo, e servono spesso da epitaffi, preghiere o imprecazioni di un numero infinito di robot che hanno attraversato il puzzle prima di te. Un diario di audiomessaggi è disseminato per il paesaggio. La sua autrice, Alexandra, si delinea come una scienziata e filosofa che parla malinconicamente di tutto ciò che verrà perso, e di un ultimo disperato tentativo di preservazione. Le sue parole sono rivolte al robot, e tratteggiano i contorni inquietanti di un’apocalisse persa nelle nebbie del tempo.
Fra le rovine il robot incontra dei terminali (a tutti gli effetti dei computer) che contengono scambi di email, frammenti di articoli di giornale e di romanzi, e note personali di diversi ricercatori. Trafiletto dopo trafiletto, si iniziano a distogliere i contorni di un grande progetto scientifico guidato da Alexandra, la creazione di un supercomputer di incredibile longevità e potenza di calcolo. Ma negli archivi si fanno sempre più comuni riferimenti obliqui al disastro imminente. Inoltre, diversi frammenti sembrano essere stati lasciati intenzionalmente per il giocatore, dalle elucubrazioni sul supercomputer a quelle sulle principali scuole filosofiche. Eppure il sistema dei terminali suggerisce che essi contengano solo una minima parte del grande lascito destinato al robot, per la maggior parte andato distrutto dalla lenta ma inesorabile corruzione dei dati nel passare del tempo.

L’umanità del problem solving
L’assieme delle email personali e dei passaggi filosofici contenuti nei terminali, e gli audiomessaggi di Alexandra, rappresentano la summa del contatto concesso al robot con un’umanità ormai perduta. Sulle spalle metalliche del protagonista grava il peso di portare avanti un grandioso esperimento – quello di preservare, seppur in un’altra forma, ciò che gli scienziati ritenevano fondamentale conservare, una volta preso atto dell’ineluttabilità dell’estinzione: la mente umana. E, come spiega eloquentemente Alexandra, niente di meglio del problem solving per cominciare. Se abbiano in mano dei lacci, proveremo ad annodarli o snodarli. Se abbiamo dei mattoncini, proveremo ad assemblarli. I predecessori di Elohim hanno identificato nella risoluzione di problemi l’architettura comune della mente umana. Ma se il labirinto apparentemente senza fine in cui è intrappolato il protagonista è una creazione della scienza, i dubbi permangono. È un luogo virtuale, come sembra suggerire la frequenza dei glitch, o reale? Davvero “fuori” non c’è più nessuno? E chi è Elohim? Il giocatore non è del tutto solo a dover affrontare questi problemi. Quello che all’inizio appare essere un software di indicizzazione si rivela essere un’altra intelligenza artificiale. Con le domande pungenti, questo “assistente libraio” cerca di spingere il giocatore a dubitare di Elohim e delle sue parole, forse della sua stessa natura divina. Con un accenno al Paradiso Perduto e al filosofo che ne è autore, questo serpente nel giardino ha un nome che, da solo, è una chiave di lettura: Milton.
Ogni puzzle svela qualcosa in più sulla vita di Alexandra e sul crepuscolo del vecchio mondo, ma le domande esistenziali, anziché ridursi, si moltiplicano.

Il valore delle domande
All’approccio ermeneutico di Milton si affianca il monologo di Alexandra: il problem solving, da solo, non basta. Il passo successivo per la maturità di una nuova mente è quello di mettere in discussione le proprie risposte. In questo, The Talos Principle abbraccia una visione moderna della filosofia. Le domande di Milton non servono, primariamente, a condurre il giocatore verso una risposta specifica. Invero l’interrogatorio assume spesso una natura socratica: il giocatore può esprimere le sue idee sulla natura della coscienza attraverso i terminali, scegliendo fra multiple opzioni, ma tutte vengono messe in discussione con la stessa veemenza da Milton, e quest’analisi assume spesso tratti autenticamente epistemici: come sai ciò? Come hai ottenuto questo sapere? Fai sempre ciò che ti viene detto?  Unito all’abbondanza di testimonianze e riflessioni variegate di persone che hanno affrontato dilemmi simili nei frammenti di vita raccolti nei terminali, questo spinge il giocatore a dubitare della validità definitiva delle risposte. Ma questo non è l’ultimo passo – in un processo, ancora una volta, puramente socratico. Come afferma uno dei frammenti accessibili dai terminali, il dubbio, da solo, decostruisce e non lascia null’altro. A costruire è, invece, la curiosità; e le domande che scaturisce.

Il mondo al di là della caverna
Se Milton e il giocatore non riescono ad arrivare ad una definizione condivisa di cosa costituisca una persona, una conoscenza empirica del mondo è possibile. Con l’accumularsi delle fonti, per quanto frammentarie, diviene evidente che il giocatore si trova effettivamente in una simulazione – paradossalmente, in un videogioco. Lo scopo di questa simulazione è la creazione di un’intelligenza artificiale capace di pensare come una persona umana. E diventa chiara la scelta del gioco: gli esseri umani, come molte altre specie animali, apprendono in tenera età innanzitutto grazie al gioco. Elohim e Milton sono stati costruiti come complementari: l’uno per testare l’abilità dell’intelligenza artificiale di risolvere dei problemi logici, l’altro come stimolo per il pensiero critico e indipendente.  Eppure, qualcosa è andato storto. La simulazione non si è conclusa, nessun robot è riuscito a penetrarne le mura e uscire nel mondo reale. Il loop si è ripetuto abbastanza a lungo da ridurre la maggior parte del grande archivio in polvere. Elohim, che doveva presiedere sul completamento dei puzzle, ha intrappolato le varie versioni dell’intelligenza artificiale del robot in una storia senza fine, posticipando così la propria obsolescenza (o morte). Milton, impotente, si è rifugiato nei terminali, sussurrando dubbio e cinismo come un serpente nel giardino. Sono le interazioni con il giocatore che possono interrompere questa ripetizione senza fine. I dialoghi con Milton, guidati da opzioni multiple che si diramano in un albero pieno di possibili interazioni, sono l’aspetto più affascinante del gioco. Che si parli di computer e persone, bene e male, l’esperienza dialogica rimane volta innanzitutto ad un crash test di queste idee, piuttosto che all’identificazione di una verità oggettiva. Come fa notare Megan Steiner in Playtesting Philosophy, Milton, di fatto, non è intenzionato a convincere il giocatore di nessun sistema di pensiero, bensì a porre sotto scrutinio qualunque sistema il giocatore provi a sposare, per risolvere le contraddizioni e i nodi delle sue domande sulla natura umana, e su come si qualifichi un’intelligenza artificiale in questo quadro.
La produttività di questo esercizio non sta nella sua conclusione (non può davvero esservene una) ma nella sua pratica costante. Ed è il ritorno a questo dinamismo che convince Milton, infine, che si può uscire dalla caverna platonica e che vale la pena intraprendere l’ultima parte del viaggio assieme.

La scalata alla torre
Il giocatore è formalmente libero di scegliere fra diversi finali, decidendo di avere fede in Elohim, di aiutare le altre versioni intrappolate nella simulazione, o di tentare di uscire dalla simulazione. Al livello pratico però molti di questi finali sono a conti fatti dei vicoli ciechi. Riporre fede in Elohim, ad esempio, e accettare la sua promessa della vita eterna, significa ritrovarsi esattamente all’inizio del gioco, pronti a ripetere il loop per l’ennesima volta. L’unico finale davvero conclusivo in The Talos Principle è quello che comincia con la sfida alla parola di Dio e la scalata alla torre; in particolare, la variante in cui il robot porta Milton con sé. Una volta internalizzato, Milton cessa di essere un irritante bastian contrario, e diventa, in effetti, la ricompensa stessa delle domande: il dinamismo richiesto per non accettare di credere in qualcosa, solo perché è una forma di conforto. Il desiderio di mettere in discussione, di continuare a domandare, perché la mente umana opera con il problem solving; esso continua a lavorare fintanto che la mente ha coscienza di sé.
L’ultimo messaggio dell’audiodiario di Alexandra è anche il suo addio, prima di soccombere alla misteriosa pandemia che ha posto fine all’umanità biologica. Alexandra si rivolge al robot come ad una persona, chiedendosi non se sarà capace di essere una persona, ma quali valori deciderà di sposare, e che tipo di vita condurrà. E che tutto sommato, al netto del dolore, è stato bello essere umani. L’addio di Elohim è più triste. La fine della simulazione comporta la fine di una storia perfetta, circolare, capace di dare al computer un senso di scopo e finalità. Elohim ammette che il test definitivo del puzzle consiste proprio nella sfida del dogma, ma supplica il giocatore di non procedere, perché a differenza del gioco, non ci sono regole o script da seguire, nel mondo reale. I ruoli non sono preordinati e le domande sono, semmai, perfino più aperte.

Se il giocatore opta definitivamente per l’addio, i cancelli perlati del paradiso si dissolvono, lasciando il posto ad un’archeologia industriale, un grosso complesso sotterraneo deserto, eccezion fatta per il robot e per Milton. Questi diviene anche un elemento essenziale della ricostruzione: l’avvocato del diavolo (che, in questo caso, è proprio il diavolo) è un contrappeso indispensabile per un mondo popolato, al momento, da solo un individuo. Di fatto, decine di ore di risoluzione di puzzle, enigmi narrativi e domande filosofiche, hanno condotto solo ad un puzzle più grande, come aveva predetto Elohim. C’è sempre un altro mistero, un altro interrogativo da porsi. Il robot affronta questo nuovo mondo rafforzato dal crash test ideologico compiuto con Milton, e con la ragionevole convinzione di potersi definire una persona, forse anche una persona umana; ma vi approda senza risposte finali. Per definizione, le domande poste in Talos – e, per estensione, quelle della filosofia – non sono definitivamente risolvibili. Il loro valore consiste nel porsele.