Ormai è un luogo comune: parlare di Bob Dylan equivale a immergersi in un gorgo di mille assenze. La questione identitaria è il fulcro di ogni discorso che cerchi di penetrare la sua anima. Ogni testimonianza, sia autografa che critica, è costretta a riconoscere come quasi patologica la sua ritrosia verso qualsiasi indagine che provi a definire dei confini, a individuare qualcosa di certo e costante in lui, indipendentemente dal punto di vista, sia biografico sia musicale. Il film di James Mangold, A Complete Unknown, e il saggio di Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica a cui il regista si è ispirato, non fanno eccezione. Eppure, hanno entrambi ricevuto una sorta di placet ufficiale sul profilo X del musicista e poeta, dove ultimamente Dylan si diverte a postare commenti surreali, cosicché critici e giornalisti musicali possano poi scrivere lunghi articoli con le loro – spesso fantasiose – ipotesi interpretative. Il 4 dicembre dello scorso anno difatti scrive su X:
“C’è in uscita un film su di me, intitolato «A Complete Unknown» (che titolo!). Timothée Chalamet è il protagonista. Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà assolutamente credibile nei miei panni. O di me stesso più giovane. O di un altro me. Il film è tratto da «Dylan Goes Electric» di Elijah Wald, un libro uscito nel 2015. È una fantastica rivisitazione degli eventi dei primi anni ’60 che portarono al fiasco di Newport. Dopo aver visto il film, leggete il libro”.
Ogni parola è soppesata, nello stile che porta avanti da decenni, così da nutrire questa proverbiale assenza di certezze. D’altronde, come è ben noto, è Dylan stesso che ha supportato in modo costante e deciso questo suo lato caratteriale. Come lui stesso dice nel film, per giustificare la propria reticenza a raccontarsi:
“Perché la gente lo riscrive il passato, Sylvie. Ricordano quello che vogliono e scordano il resto”.
La ragazza a cui è rivolta questa frase sibillina, quasi un oracolo, è colei che appare sulla copertina di The Freewhelin’: Suze Rotolo, recentemente scomparsa. Nel film, in cui viene raccontata anche la genesi di quella che è una delle copertine più iconiche di sempre (per un album che ha scritto la storia), è rinominata Sylvie, su richiesta dello stesso Dylan, ed è stata una figura centrale nella vita del cantante in quegli anni. Il rapporto tra i due, così come quello con Joan Baez, è la parte più complessa e meno convincente del film. Le due figure femminili però, per quanto centrali nella narrazione, mancano di spessore. Nel mondo costruito da Mangold vengono presentate – soprattutto per quel che riguarda Suze Rotolo – come fossero due satelliti del pianeta Dylan, che, per converso, appare come un giovane insicuro, e nello stesso tempo come personalità egocentrica e soverchiante, oltre che manipolatrice. In realtà è noto che non fu così, e che in questa visione mancano la profondità, la forza e il carattere che invece sappiamo bene essere stati sia di Suze Rotolo che di Joan Baez. Difatti la letteratura su quegli anni ci presenta un punto di vista spesso molto diverso, a partire dalla stessa autobiografia della Rotolo, che, senza scendere mai nel gossip, propone una lettura di ciò che accade ben diversa da ciò che ci mostra Mangold. Non si deve però dimenticare che il film rimane – nel bene e nel male – incentrato su Dylan, che la sua crescita personale fu un percorso ampiamente conflittuale, e che questo certamente non fu indolore, né per lui né per nessuno di coloro che gli è stato vicino, e questo è a maggior ragione vero per Suze Rotolo e Joan Baez. L’avversione di Dylan verso qualsiasi definizione, legame o classificazione non è semplicemente un vezzo artistico o un atteggiamento costruito per alimentare il mistero intorno alla sua figura, quanto piuttosto una posizione esistenziale profonda, una filosofia personale che si riflette tanto nella sua vita privata quanto nelle sue espressioni artistiche. L’identità appare come un concetto fluido, in continua evoluzione, impossibile da catturare in una singola istantanea o descrizione, rivelandosi così non come un dato di fatto ma come un processo, un continuo divenire. Dylan ha incarnato questa visione fino alle estreme conseguenze, come dirà lui stesso – citando in realtà quasi alla lettera George Bernard Shaw – in una intervista a Martin Scorsese incastonata in Rolling Thunder Revue. A Bob Dylan Story:
“La vita non è la ricerca di te stesso o di qualcosa. È creare te stesso”
(Scorsese, 2021).
Quando si considera la sua opera musicale, questa mutevolezza diventa ancora più evidente. Dall’esordio folk ispirato a Woody Guthrie, alla svolta elettrica, al periodo country di Nashville, alla conversione religiosa, fino alle recenti reinterpretazioni degli standard americani e al tardivo interesse per Frank Sinatra, Dylan ha sempre sfuggito qualsiasi tentativo di catalogazione, reticenza che Mangold mostra in diversi passaggi, evidenziando l’irritazione di Dylan anche quando questo processo è applicato ad altri, come accade con Johnny Cash, Hank Williams o Buddy Holly. Come osservò acutamente Greil Marcus:
“Dylan non è mai stato dove lo cercavi. Nel momento in cui pensi di averlo afferrato, lui è già altrove”
(Marcus, 2011).
Autobiografia come arte della fuga
Anche Chronicles – la sua autobiografia – è disseminata di elementi a sostegno di questa visione. Lungi dall’essere un resoconto lineare e obiettivo della sua vita, il libro si presenta come un collage di ricordi, riflessioni, divagazioni e, probabilmente, invenzioni. Dylan vi omette interi periodi cruciali della sua carriera, si sofferma su dettagli apparentemente insignificanti, costruisce una narrazione che sfida apertamente la logica cronologica. È significativo che nel volume (primo e finora unico delle sue memorie) egli dedichi ampio spazio a periodi artisticamente meno celebrati, e sorvoli invece quasi completamente sui momenti che lo hanno consacrato nell’olimpo della musica. Questo approccio ha generato un paradosso affascinante: più Dylan si sottrae, più alimenta il desiderio del pubblico di conoscerlo; più rifiuta di definirsi, più gli altri sentono il bisogno di classificarlo in un genere. È così che, nei decenni seguenti, abbiamo visto proliferare opere che indagano sul tema della sua identità più nascosta: i documentari di Martin Scorsese, No Direction Home e il succitato Rolling Thunder Revue, e il film di Todd Haynes, I’m Not There.
In tutte e tre queste opere il tema dell’identità è centrale, e viene inteso soprattutto in un ambito psichico e sociologico, come il luogo dove ci si aspetta di vedere in modo chiaro quelli che sono i confini interiori, i limiti che vanno posti tra l’immagine pubblica e la vita privata, la distinzione e la separazione tra l’uomo e l’artista, se mai è esistita. Scorsese, in particolare, ha saputo cogliere la natura sfuggente dell’artista senza pretendere di esaurirne il mistero. In No Direction Home, il regista ripercorre gli anni formativi di Dylan, dal 1961 al 1966, attraverso materiali d’archivio e interviste, costruendo un ritratto complesso che non offre risposte definitive ma solleva interrogativi. La genialità di Scorsese è stata comprendere che l’assenza di risposte chiare non è un limite ma, al contrario, l’essenza stessa dell’enigma dylaniano. Ancora più audace è Rolling Thunder Revue, dove Scorsese gioca deliberatamente con il concetto di verità documentaristica, mescolando fatti reali e finzione, proprio come ha sempre fatto Dylan con la sua immagine pubblica. Il film, che documenta il tour omonimo, include interviste a personaggi fittizi presentati come reali e rielabora eventi storici, creando una narrazione che sfida apertamente la distinzione tra realtà e fantasia. È un meta-commento sulla natura stessa dell’identità artistica di Dylan e sul concetto di verità autobiografica. Todd Haynes, con I’m Not There, porta alle estreme conseguenze questa frammentazione identitaria, scegliendo di rappresentare Dylan attraverso sei personaggi diversi, interpretati da attori differenti (tra cui una donna, Cate Blanchett). Questo approccio caleidoscopico suggerisce che non esiste un solo Dylan ma molteplici versioni, nessuna delle quali può pretendere di essere definitiva. È l’espressione cinematografica più radicale dell’impossibilità di definire l’artista e, paradossalmente, forse anche la più fedele alla sua natura.
Il punto di rottura: Newport 1965
Eppure, esistono migliaia di dischi, libri, film, articoli che da sempre provano a descrivere come essenza proprio quell’assenza che Dylan regala al posto della sua storia personale. Nonostante questo (o forse proprio a causa di) sono ancora molti gli aspetti della vita e della produzione di Dylan ancora oggi non adeguatamente approfonditi. Mangold, nel film, poco prima del concerto di Newport, durante una discussione tra Dylan e Alan Lomax, fa pronunciare a quest’ultimo parole molto severe sui Beatles, la loro musica e l’interesse che questa suscita in Dylan, riducendo la portata del quartetto di Liverpool a un esempio deleterio della musica più commerciale. Ciò che il film non racconta, e che invece è approfondito da Wald con la dovuta accuratezza, riguarda l’effettivo incontro che avvenne nel corso del 1964, quando Dylan aveva conosciuto i Beatles, e di come tra loro nacque un legame forte e reciproco, in particolar modo, ma non univoco, con John Lennon.
Peter Jackson, in Get Back!, la miniserie in cui ricostruisce la genesi del rooftop concert, usando immagini del 1969, mostra un passaggio in cui George Harrison propone agli altri tre Beatles di accogliere Dylan come nuovo membro del gruppo, e la possibilità è concreta, non si tratta di una boutade. Da quell’estate del 1964 difatti il legame era cresciuto, e si era consolidato. Al contrario, invece, nel film è presentata in diversi passaggi l’amicizia profonda e il reciproco rispetto che legano Bob Dylan a Johnny Cash. Quest’ultimo nel film di Mangold è rappresentato come una sorta di coscienza critica. Il suo amico di penna (si scrivevano spesso), così si definisce, e per Dylan rappresentava una figura – almeno in quel tempo – più esperta di lui dei meccanismi dello show business, ma che comunque era rimasta sostanzialmente integra, qualcuno di cui ci si poteva fidare.
Il profilo del cantante è descritto splendidamente, anche perché il regista è reduce da una produzione proprio a lui dedicata, il film Walk the Line, tratto dall’autobiografia di Cash. Al netto di queste (e altre) scelte diverse, A complete Unknown e il saggio di Wald condividono invece, in questo orizzonte di iperproduzione (da cui tra l’altro Dylan si tiene ben lontano), un pregio importante: individuano entrambi nel concerto di Newport quel particolare momento in cui molti vettori psichici e sociali raggiungono un unico punto di convergenza, dove esplodono. Qui Dylan ha deciso di dover fare i conti con la fama e il successo, con il conflitto che si genera tra l’immagine pubblica, ciò che il pubblico proietta sull’artista, e ciò che quest’ultimo è nella sua anima. L’evento di Newport è diventato leggendario: il 25 luglio 1965, Dylan sul palco del Newport Folk Festival suonò – anche – con una band elettrica, cominciando con una versione di Maggie’s Farm che sconvolse il pubblico. Per molti, questo fu un tradimento dei valori del folk, una resa all’estetica commerciale del rock. Per altri, fu un atto di liberazione artistica, una dichiarazione d’indipendenza da qualsiasi etichetta.
Le contraddizioni in seno al pubblico
La reazione del pubblico fu complessa, e probabilmente tumultuosa. Wald sottolinea come sia praticamente impossibile comprendere cosa sia successo realmente: fischi, applausi, grida di tradimento! si mescolarono ad altri sentimenti di approvazione, in un caos che rifletteva perfettamente il tumulto interiore che Dylan (e l’America con lui) stava attraversando. Anche il film, se si osservano le reazioni del pubblico, in realtà è ambiguo, mostrando effettivamente in primo piano la frangia più radicale che lo ha contestato duramente, ma anche, più in sordina, gli applausi di chi ha compreso quello che accadeva. Ma cosa ha significato veramente goes electric! nel 1965? Non era solo una questione di amplificatori e chitarre. Era un cambiamento simbolico profondo, un passaggio da una tradizione musicale percepita come autentica e radicata nella storia americana, a un linguaggio sonoro associato alla modernità, al commerciale, al mutamento. Era, in altre parole, un atto di rottura con il passato, con la comunità folk che lo aveva accolto e consacrato, e con l’immagine che quella comunità aveva costruito di lui. Ciò che rende affascinante questo momento non è tanto la decisione in sé – altri artisti avevano fatto lo stesso prima di lui – quanto il contesto simbolico in cui avvenne e le reazioni che suscitò. Newport divenne il teatro di uno scontro culturale più ampio, che trascendeva la musica e toccava questioni di autenticità, commercializzazione, impegno politico e libertà artistica.
Il meccanismo dello show business era già ben noto all’epoca, ed esistente da decenni. Non si tratta di un sistema emergente: il conflitto tra la possibilità – offerta dall’industria discografica – di ampliare enormemente il proprio orizzonte, e il desidero di non avere vincoli nella propria produzione artistica, è antico, e Dylan lo sa bene. Esemplare in questo senso quanto raccontato dai film dei fratelli Coen, Fratello, dove sei? e A proposito di Davis, dove vengono mostrati, in contesti diversi, le origini di quel meccanismo falsificatore e feroce che crea e abbatte miti, solo in funzione del successo commerciale. La figura dell’artista autentico che si confronta con le logiche del mercato è un topos narrativo che si ripete ciclicamente nella cultura americana, e Dylan ne è diventato uno degli emblemi più potenti. Il suo caso però è particolarmente significativo perché egli ha sempre mostrato una consapevolezza acuta di questi meccanismi e ha cercato, con risultati alterni, di sottrarsi alla loro presa. La sua resistenza alle definizioni può essere letta anche come una strategia di sopravvivenza in un sistema che tende a trasformare le persone in prodotti, a ridurre l’arte a merce. La continua reinvenzione di sé è stata, in questo senso, un tentativo di sfuggire alle categorizzazioni che l’industria impone per rendere l’artista più facilmente commercializzabile. Ma questa lotta contro le etichette ha un prezzo. La solitudine, l’incomprensione, l’alienazione diventano compagne costanti dell’artista che rifiuta di conformarsi. Non è un caso che molte delle canzoni più intense di Dylan parlino proprio di isolamento, di estraneità, di un sentirsi perennemente fuori posto. It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding), Ballad of a Thin Man, Visions of Johanna sono tutte esplorazioni poetiche di questo stato esistenziale di non-appartenenza, che è al contempo una condanna e una liberazione.
La battaglia per l’autenticità
La posizione di Alan Lomax e (più moderatamente) di Pete Seeger, nonostante nel film siano presentati come incapaci di cogliere la novità enorme che hanno di fronte, è tutt’altro che sbagliata, anzi. È un problema di obiettivi. Lomax sta combattendo quell’industria discografica che corrompe alle radici una musica in cui riconosce ancora un aspetto spontaneo e popolare, e Dylan presta il fianco a questa deriva. Lomax ha una visione politica, prima che artistica, e quindi – pur capendo, anzi proprio perché ha capito – non può accettare le scelte di Dylan. Etnomusicologo e folklorista, Lomax aveva dedicato la vita alla raccolta e alla preservazione della musica popolare, considerandola un patrimonio culturale da difendere dall’omologazione commerciale. Per lui, il folk non era solo un genere musicale ma un’espressione autentica del popolo, un veicolo di identità collettiva e di protesta sociale. Quando Dylan tradì – a suo dire – il folk per il rock, Lomax vide in questo gesto non un’evoluzione artistica ma una capitolazione al sistema che stava cercando di combattere. Pete Seeger, che secondo alcune versioni arrivò al punto di voler tagliare i cavi elettrici durante l’esibizione di Newport (circostanza mai definitivamente provata, il libro la nega mentre nel film è la moglie a fermarlo), era meno ideologico di Lomax ma altrettanto legato a una visione del folk come strumento di cambiamento sociale. La sua delusione per la svolta elettrica nasceva da un sincero timore che l’artista stesse abbandonando la missione politica della musica folk per inseguire il successo commerciale. Ciò che né Lomax né Seeger potevano comprendere appieno era che Dylan stava articolando una forma diversa di autenticità, non meno valida di quella tradizionale.
La sua era una visione individuale, basata sulla fedeltà alla propria sensibilità, piuttosto che a una tradizione collettiva. In questo senso, il suo tradimento può essere visto come un atto di onestà verso sé stesso, un rifiuto di continuare a indossare una maschera che non sentiva più sua. È chiaro che ciò che accadde quella sera non fu un evento fulmineo, un’improvvisazione, ma il risultato di un percorso, di una maturazione, di una serie di scelte, anche – ma non solo – di tipo commerciale, e questo il film lo mostra in modo più che adeguato. Andando oltre il racconto inevitabilmente semplificato del film di Mangold, nella vasta bibliografia che esamina la genesi dell’idea di un folk politico destinato a essere musica popolare, con quel senso profondo che queste parole hanno assunto anche in Italia negli stessi anni, serve sottolineare su tutti l’imprescindibile lavoro di Alessandro Portelli, teorico della cultura orale, che ha dedicato diversi volumi a quei primi anni Sessanta negli USA, e, altrettanto essenziale, quello di Alessandro Carrera, curatore – tra l’altro – di quasi tutte le edizioni italiane di Dylan.
L’invenzione della tradizione
Ciò che in questa sede è particolarmente rilevante riguarda il problema del recupero della tradizione, che in molti casi ha coinciso con l’invenzione della stessa, per dirla con Eric Hobsbawm, o per lo meno con delle nette forzature. Non si tratta di dubitare del lavoro di intellettuali integerrimi come Alan Lomax, o della buona fede di John Hammond o di Albert Grossman (almeno in quei primi anni Sessanta). Come evidenzia Wald, quegli uomini, prima che uomini d’affari erano degli appassionati. Si tratta perciò di ragionare su come, indipendentemente dai punti di vista, la ricerca della verità storica, il tentativo di comprendere come sarebbero andati i fatti in realtà, si rivela essere un falso problema. Perchè i buoni principi e la visione politica non sono riusciti a impedire che la questione del nuovo sound nascente diventasse sostanzialmente un dato commerciale e che fosse saldamente nelle mani dei discografici. Hobsbawm, storico marxista britannico, ha coniato il concetto di invenzione della tradizione per descrivere come molte pratiche apparentemente antiche siano in realtà costruzioni relativamente recenti, create per instillare determinati valori e stabilire una continuità con un passato spesso idealizzato.
Nel contesto del revival folk americano degli anni Cinquanta e Sessanta, questo concetto è particolarmente pertinente. Il folk che Dylan incontrò quando arrivò a New York nel 1961 non era la musica spontanea e incontaminata delle montagne o delle piantagioni, ma una ricostruzione intellettuale di quella tradizione, filtrata attraverso sensibilità urbane e progressiste. Gli stessi Lomax e Seeger, pur con tutta la loro integrità, parteciparono a questa invenzione, selezionando, rielaborando e presentando il materiale folklorico in modi che riflettevano le loro convinzioni politiche e sociali. John Hammond, che mise Dylan sotto contratto con la Columbia Records, era un talent scout illuminato con un sincero interesse per la musica afroamericana e il folk, ma era anche un uomo dell’industria discografica, con una comprensione acuta di come rendere commercialmente appetibili artisti che altrimenti rischiavano di restare confinati a un pubblico di nicchia. La sua opera di mediazione tra l’autenticità artistica e le esigenze del mercato è emblematica delle contraddizioni che attraversavano il mondo musicale dell’epoca. Hobsbawm, in altro contesto, disse di lui:
“Il ruolo di Hammond come scopritore e rilevatore di talenti dal 1933 alla sua morte non aveva uguali. Si basava non solo sulla sua sbalorditiva capacità di giudizio e sulla conoscenza della materia, ma anche sulla sua capacità di mobilitare le tre fondamentali componenti del successo di New York e di conseguenza della nazione: amicizie personali, un pubblico metropolitano orgoglioso della combinazione di liberalismo e snobismo dei newyorkesi e una comunità dello spettacolo decisa a sfruttare questo mercato”
(Hobsbawm, 2000).
Furono questi gli elementi, nella sostanza, per cui Dylan emerse come una figura al contempo dentro e fuori la tradizione, capace di attingere al patrimonio folk americano ma anche di reinventarlo e trascenderlo. La sua genialità fu proprio nel comprendere che la vera autenticità non consisteva nel rispetto ossessivo di forme prestabilite ma nella capacità di far evolvere quelle forme in accordo con la propria sensibilità e visione del mondo.
Alla ricerca dell’anima di Dylan
Dylan, racconta Wald,
“[…] era sempre stato un solitario. Non dipendeva solo dal sentirsi fuori posto […]. «Gli capitava di ritirarsi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento», ricorda Rotolo. «Poteva succedere in una stanza rumorosa piena di gente così come quando eravamo noi due da soli»”
(Wald, 2022).
L’ambiente del music business era un mondo di pressioni e, nel caso di Dylan, questo minacciava di distruggerlo ancor prima che potesse raggiungere il grande pubblico. Il giovane Bob, che percepiva in modo poetico quelle che per il mondo intorno a lui erano questioni politiche, di posizionamento, di attivismo, per reazione trasforma sé stesso, la sua immagine, si nasconde e si mimetizza. Come restare sé stessi quando tutto il mondo intorno cambia? Di chi si può fidare se le persone che gli sono vicine si relazionano con la maschera che gli viene offerta? Fino a ieri era solo uno dei molti musicisti in cerca di gloria, oggi si è trasformato in un simbolo, un portavoce, ma davvero voleva questo? Sono le domande che probabilmente si rivolgeva un Bob Dylan poco più che ventenne in quei mesi.
“A monte di ciò c’era il suo innato disagio nell’essere classificato o etichettato, così come nell’essere eletto portavoce di un gruppo o un movimento. Era profondamente turbato dai mali del mondo e dalle persone che li accettavano senza porsi il problema, era quello il tema di Blowin’ in the Wind, ma, quale che fosse il potere del brano, non lo aveva concepito come l’inno di una generazione che marciava composta, fianco a fianco, sicura della verità e del proprio compito”
(ibidem).
È difficile oggi, in un’epoca in cui la celebrità è spesso un fine in sé, comprendere pienamente il disorientamento che Dylan deve aver provato di fronte all’improvvisa fama e alle aspettative che essa comportava. La sua reazione a questa pressione fu complessa e, per certi versi, contraddittoria. Da un lato, c’era il desiderio di proteggere uno spazio privato, di mantenere una distinzione tra la persona pubblica e l’individuo. Dall’altro, c’era la consapevolezza che la fama offriva un’opportunità senza precedenti di raggiungere un vasto pubblico e di esprimere la propria visione artistica. Questo conflitto interno si manifestò in un comportamento spesso erratico e imprevedibile, in interviste provocatorie e surreali, in un atteggiamento che oscillava tra l’arroganza e la vulnerabilità. In questo senso, la metamorfosi continua di Dylan può essere vista non solo come una strategia artistica ma anche come un meccanismo di autodifesa psicologica, un tentativo di mantenere un senso di controllo in una situazione che minacciava di travolgere la sua individualità. Cambiando costantemente, rendeva impossibile agli altri fissarlo in un’immagine stabile e, quindi, controllarlo. Come è facile immaginare, però, questo rendere fantasmatica la sua figura, l’eliminazione di ogni impalcatura fondante, per dare invece libero sfogo al work in progress, gli ha provocato molte difficoltà a livello personale e familiare. La libertà conquistata è stata pagata con la solitudine. Dylan, nel 1961, quando arriva al Greenwich, è un ragazzo di provincia, probabilmente timido, ma deciso, e con una profonda ammirazione per Woody Guthrie. Avrebbe voluto semplicemente fare musica, evitando i doveri della fama e del ruolo, così come il giovane Bob Neuwirth (scomparso pochi anni fa) conosciuto per caso in ascensore, e da quel momento vicinissimo a Dylan. Sicuramente c’era in lui un grande talento, ma, come dirà lui stesso nella Nobel Lecture, “avevo anche qualcos’altro: avevo dei principi” (Dylan, 2017). Ed è per quello che è lì: non per l’ambiente del Greenwich, non per le ragazze, non per un ideale politico, e nemmeno per i soldi. È lì perché è un musicista, e Woody Guthrie, così come Buddy Holly, rappresenta per lui il potere rivoluzionario della musica, la possibilità di esprimere un’anima, la sua.
La fascinazione di Dylan per Guthrie è ben documentata, ed è uno dei canali per leggere il film, che inizia e finisce con le visite in ospedale, dando un forte valore simbolico a questa amicizia. Guthrie rappresentava per lui non solo un modello musicale ma anche un ideale etico: l’artista come testimone del suo tempo, voce degli oppressi, narratore delle sofferenze e delle speranze del popolo americano. Eppure, fin dall’inizio, c’era in Dylan qualcosa che sfuggiva a questa immagine dell’artista folk impegnato. C’era una vena poetica, surrealista, visionaria che poco aveva a che fare con la tradizione di protesta sociale di Guthrie. C’era un interesse per l’immaginario simbolico che trascendeva la narrazione realistica delle canzoni folk tradizionali. C’era, soprattutto, un desiderio di esplorare territori emotivi e intellettuali che andavano ben oltre le convenzioni del genere. Questa tensione tra la tradizione folk americana e la sensibilità poetica modernista è forse la chiave per comprendere l’evoluzione artistica di Dylan. Non si trattò mai di un semplice abbandono del folk per abbracciare il rock, ma di un processo più complesso di assimilazione e trasformazione di diverse influenze culturali: dalla letteratura beat alla poesia francese, dalla tradizione ebraica alla mitologia americana, tutti elementi che il film trascura quasi totalmente, in modo inspiegabile. In questo senso, la svolta elettrica di Newport non fu un tradimento ma un’evoluzione necessaria, un passo verso una forma espressiva che potesse contenere la vastità delle sue ambizioni artistiche. Le chitarre elettriche, il volume, il ritmo più aggressivo non erano solo scelte estetiche ma strumenti per ampliare le possibilità espressive della sua musica, per creare un linguaggio sonoro all’altezza della complessità delle sue visioni poetiche.
Epilogo: Il premio Nobel
Oggi, Mr. Zimmerman ha vinto, meritatamente, il premio Nobel, dipinge quadri e costruisce sculture, produce Whiskey (Heaven’s Door, lo ha chiamato, con grande sense of humor), eppure, invece di farsi adorare nei salotti bene, dall’alto dei suoi ottantaquattro anni, come potrebbe fare senza rimpianto alcuno, tutte le sere con la sua band prosegue quello che ha chiamato neverending tour, e fa quello che ha sempre fatto e che ha sempre voluto fare: il musicista. Ed è il motivo per cui ogni volta che si vede un film su di lui, ogni volta che si legge un libro, ciò che viene istintivo è tornare ad ascoltare la musica, poiché è lì che rifulge la sua anima, solo lì riemergono espliciti e limpidi quei principi che lo hanno accompagnato per quasi sessant’anni. Ed è Bob Dylan che ha vinto il premio Nobel per la letteratura, tra la sorpresa (e la gioia) dei fans e lo sconcerto dei detrattori. Nella Nobel Lecture, il discorso che ogni vincitore è tenuto a presentare, ritroviamo molti dei momenti e dei temi che hanno caratterizzato la sua carriera. Dylan, si è visto, non teorizza la musica, la fa. La sua è una prassi. Nella lettera indirizzata all’Accademia Svedese dopo l’assegnazione del premio Nobel, e ancora di più nella lecture, inviata al limite della scadenza dei sei mesi regolamentari, Dylan sottolinea in più occasioni questo suo essere concreto, questo suo fare, e in modo forse un po’ irriverente cita come fonte di ispirazione, diversi autori: Herman Melville, Erich Maria Remarque, Omero e – a latere – William Shakespeare. Ognuna di queste relazioni – di questi nomi – meriterebbe, ovviamente, una lunga dissertazione. Prima di questi riferimenti dotti, però Dylan, da par suo, prova ancora una volta a spiazzare il lettore (ascoltatore), e cita Buddy Holly, in particolare il concerto a cui aveva assistito a Duluth, nel 1959, poco prima della di lui morte. Nella sceneggiatura originale del film di Mangold, Dylan ne parla con Pete Seeger, in auto, al loro primo incontro:
“L’ho visto una volta. Con la sua band. Poco prima che morisse. Ho osservato le sue mani e il suo viso, il modo in cui batteva il piede, i suoi occhiali, il modo in cui teneva la chitarra. Mi ha guardato negli occhi”
(Mangold, Cocks, 2024).
Parole molto simili a quelle che troviamo nella Nobel lecture:
“[…] mi guardò dritto negli occhi e mi trasmise qualcosa”
(Dylan, 2017).
Dylan dice di lui: “Egli era l’Archetipo”. Qual è il senso di tutto ciò? Perché raccontare agli accademici svedesi del concerto di Buddy Holly? Perché per Dylan l’arte è una questione pratica, concreta. Non si teorizza, la si vive, nella sua drammaticità, per la vita e per la morte, e Buddy Holly per lui è l’incarnazione di questo approccio. Poi vi sono gli aspetti più formali, gli studi sulla melodia, l’attenzione rivolta a ogni genere, ogni elemento viene preso in considerazione, ma quello sguardo che mette tutto in relazione, quello è ciò che conta. Ed è questo spirito piratesco che gli permette anche di porre sullo stesso piano i grandi autori della storia della letteratura, da lui citati come influenze fondamentali. D’altronde il rapporto di Dylan con gli archetipi, o meglio ancora con le figure mitologiche, è vasto e variegato.
“[…] il suo discorso di accettazione del premio Nobel è incentrato su due grandi figure mitiche, l’Ulisse di Omero e la sua reincarnazione moderna, l’Achab di Melville”
(Lanfranchi, in Autori vari, 2024)
Negli ultimi anni, inoltre, la sua ritrosia si è sempre più radicata, e – più in generale – il suo rapporto con il presente è diventato sempre più complesso. Il neverending tour è forse l’espressione più pura della visione artistica di Dylan, e di questo suo vissuto. Iniziato ufficialmente nel 1988, questo tour perpetuo (con brevi interruzioni) rappresenta un rifiuto della musica come prodotto finito, come artefatto da conservare in forma immutabile. Per Dylan, la musica è un processo continuo, una ricerca incessante, un dialogo sempre aperto con il pubblico, con la tradizione, con sé stesso. Durante questi concerti, Dylan reinterpreta costantemente il suo repertorio, spesso rendendo irriconoscibili anche i suoi brani più famosi. Questo approccio ha spesso frustrato i fan che desideravano ascoltare versioni fedeli alle registrazioni originali, ma riflette perfettamente la sua concezione dell’arte come entità viva, in costante evoluzione. La decisione di Dylan di continuare a esibirsi instancabilmente dice molto della sua etica del lavoro e della sua dedizione all’arte. Come i vecchi bluesmen che ammirava da giovane, sembra determinato a proseguire il suo viaggio musicale fino alla fine, a lasciare che sia la strada, con i suoi incontri e le sue esperienze, a definire la sua identità. Nella Nobel Lecture, in conclusione, richiama come modello Shakespeare, chiedendosi se mai il bardo si fosse posto il problema di cosa fosse letteratura, e se la sua lo fosse:
“Sono disposto a scommettere che la cosa più lontana dalla mente di Shakespeare fosse la domanda: «Questa è letteratura?»”
(Dylan, 2017).
È evidente che Dylan parla di sé, e qui ritorna, nelle sue parole più importanti, il richiamo alla prassi:
“E questo è ciò che sono anche le nostre canzoni: vive nella terra dei vivi. Ma le canzoni non sono letteratura, sono fatte per essere cantate, non lette. Le parole delle commedie di Shakespeare erano fatte per essere recitate in teatro, così come i versi delle canzoni sono fatti per essere cantati, non per essere letti su una pagina”
(ibidem).
In definitiva, ciò che emerge da questa riflessione è che l’identità di Dylan non può essere cercata in definizioni statiche o in categorie prestabilite, ma nel movimento stesso della sua arte, nel suo costante divenire. La sua ritrosia verso qualsiasi tentativo di classificarlo in un’immagine definita non è un capriccio ma una necessità artistica, un modo per mantenere viva quella tensione creativa che ha alimentato la sua opera sin dalle origini. Il suo rifiuto di conformarsi a un’identità stabile può essere letto come una forma di fedeltà più profonda: non a un’immagine di sé, ma a un processo di continua ricerca e trasformazione. In questo senso, la sua apparente inafferrabilità è paradossalmente la sua caratteristica più costante, la sua forma peculiare di autenticità.
Forse è proprio questo che rende Dylan una figura così affascinante e duratura nella cultura americana: non è un simbolo statico, un’icona cristallizzata in un significato definito una volta per tutte, ma un segno dinamico e polisemico, che continua a generare interpretazioni e a sfuggire a qualsiasi tentativo di esaurirne il senso. E così, mentre critici e biografi continuano a inseguirlo con le loro definizioni e categorizzazioni, Dylan prosegue il suo viaggio, invisibile dietro gli occhiali scuri, nascosto dietro l’ennesima reinvenzione di sé, fedele solo alla musica e a quei principi che lo hanno guidato fin dall’inizio. La sua voce, oggi più aspra e fragile ma non meno potente, continua a cantare storie di amore e disillusione, di ricerca e perdita, di America e di umanità, in un dialogo incessante con la tradizione da cui proviene e che continua a reinventare. Nel paradosso che è la sua vita e la sua arte, Bob Dylan ci ricorda che forse l’unico modo per rimanere davvero fedeli a sé stessi è continuare a cambiare, che l’identità non è un punto di arrivo ma un orizzonte sempre in movimento, e che la vera autenticità non sta nel rimanere immobili ma nel seguire onestamente il flusso della propria evoluzione. È una lezione di libertà artistica e esistenziale che trascende la musica e tocca il cuore stesso della condizione umana.
- Autori vari, Bob Dylan e il mito, Arcana, Roma, 2024.
- Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan. Un racconto dell’America, Feltrinelli, Milano, 2021.
- Bob Dylan, The Nobel Lecture, Feltrinelli, Milano, 2017.
- Bob Dylan, Chronicles. Vol. 1, Feltrinelli, Milano, 2005.
- Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1987.
- Eric J. Hobsbawm, Gente non comune, Rizzoli, Milano, 2000.
- James Mangold, Jay Cocks, A Complete Unknown (screeplay), 2024.
- Greil Marcus, Bob Dylan. Scritti 1968 – 2010, Odoya, Bologna, 2011.
- Alessandro Portelli, Canoni Americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, Donzelli, Roma. 2004.
- Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno. «Hard rain», una ballata fra tradizione e modernità, Donzelli, Roma, 2018.
- Suze Rotolo, Sulla strada di Bob Dylan. Memorie dal Greenwich Village, Caissa Italia, Roma, 2017.
- Joel & Ethan Coen, Fratello, dove sei?, Universal Pictures, 2003 (home video).
- Joel & Ethan Coen, A proposito di Davis, Lucky Red, 2013.
- Todd Hynes, Io non sono qui, Todd, Eagle Pictures, 2016 (home video).
- Murray Lerner, The other side of the Mirror. Bob Dylan live at the Newport Folk Festival 1963 – 1965, Columbia, 2007 (home video).
- James Mangold, Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line, 20th Century Fox Home Entertainment, 2006 (home video).
- Martin Scorsese, No Direction Home. Bob Dylan, Paramount, 2005 (home video).
- Martin Scorsese, Rolling Thunder Revue. Martin Scorsese racconta Bob Dylan, Netflix, 2019.