L’insolita musica cosmica
di Horacio “Chivo” Borraro

Horacio “Chivo” Borraro
Blues para un cosmonauta
Formazione: Horacio “Chivo” Borraro
(sassofono tenore, organo, pianoforti, sintetizzatori, flauto,
xilofono, percussioni),
Fernando Gelbard (sintetizzatore,
piano elettrico),
Stenio Mendes (craviola),
Jorge Gonzalez (contrabbasso),
Nestor Astarita (percussioni),
Miguel “Chino” Rossi
(percussioni, effetti).
Altercat, 2023.

Horacio “Chivo” Borraro
Blues para un cosmonauta
Formazione: Horacio “Chivo” Borraro
(sassofono tenore, organo, pianoforti, sintetizzatori, flauto,
xilofono, percussioni),
Fernando Gelbard (sintetizzatore,
piano elettrico),
Stenio Mendes (craviola),
Jorge Gonzalez (contrabbasso),
Nestor Astarita (percussioni),
Miguel “Chino” Rossi
(percussioni, effetti).
Altercat, 2023.


Per tutti gli anni Settanta, l’unico ponte tra jazz e Argentina noto a tutti, fu quello edificato da Leandro Barbieri, detto Gato, sulle note delle musiche scritte per L’ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Sassofono tenore, cappello Fedora a tesa larga, che piegava di lato o in giù, il tema accattivante del film: così nacque un’icona del decennio, complice il burro mal digerito dalla morale dell’epoca e le disavventure con la censura in cui incappò la pellicola. Sulla scena internazionale non si registrava altro, e mentre il nuovo fioriva ovunque, finanche nel tango con Astor Piazzolla, il jazz argentino aveva trovato nel gatto randagio con il cappello il suo unico ambasciatore nel mondo.
Il gato arrivava da Rosario, dove nacque nel 1922, mentre la capitale aveva dato i natali l’anno prima al chivo (caprone), ovvero Luis Horacio Borraro, in arte, appunto, Horacio “Chivo” Borraro. Il tenore era anche il suo strumento prediletto, ma si adoperava con profitto anche al clarinetto, al flauto, alle tastiere e alle percussioni; fu bebopper promettente in gioventù, in seguito ottimo esecutore di un hard bop non calligrafico. A lasciare il segno fu però un disco registrato tra il 18 luglio e il 13 ottobre del 1973, opera davvero singolare che vide la luce due anni dopo: Blues para un cosmonauta pubblicato dalla Trova Industrias Musicales e che appare tuttora per certi versi incatalogabile, risentendo poco o nulla del mezzo secolo trascorso. Ristampato su cd (oramai fuori catalogo) dalla Whatmusic nel 2002, il disco riappare in vinile grazie alla Altercat, etichetta berlinese dedita alla riscoperta di lavori e/o artisti dimenticati provenienti dall’intero Sudamerica, pur senza trascurare nuovi talenti emergenti. Borraro non poteva non trovare posto in quel catalogo: è un altro musicista rimasto nell’ombra per decenni anche per via di un mercato che soltanto oggi si è fatto davvero globale e animato da una incessante attività di riscoperta.
In realtà tutti i musicisti argentini innamorati del jazz nordamericano hanno acquisito un minimo di notorietà fuori dai confini nazionali in tempi lunghissimi. È il caso, per esempio, di Jorge López Ruiz, contrabbassista, compositore e arrangiatore sulla scena sin dalla fine degli anni Cinquanta e con all’attivo collaborazioni internazionali di peso (Tony Bennett, Nat King Cole, Ella Fitzgerald). Esordì discograficamente nel 1961, dando alla luce b.a. Jazz by López Ruiz, disco che schierava al tenore un giovanissimo Barbieri. López Ruiz era anche responsabile artistico alla Trova Industrias Musicales, che oltre a Blues para un cosmonauta, pubblicò tra gli altri diversi lavori di Piazzolla. La scena argentina, insomma, era frizzante e ricca di voci e di incroci. López Ruiz è un altro jazzman ripescato dalla Altercat, che ha ristampato uno dei suoi lavori più noti e impegnati, Bronca Buenos Aires (1971), lavoro di grande respiro eseguito da un ampio organico e articolato su un testo del poeta, giornalista e autore di canzoni, Jose Tcherkaski che lo recitava. Nella grande formazione convocata per la realizzazione del disco, c’era anche Horacio “Chivo” Borraro, che di lì a poco avrebbe messo a punto il suo ambizioso, Blues para un cosmonauta, mescolando jazz, improvvisazione, sperimentazione elettronica e psichedelia con risultati stupefacenti.
Quando uscì, passò inosservato, ma nel tempo si è fatto spazio tra gli album di culto nati in quel decennio, testimonianza convincente del fervore creativo dell’epoca, durante la quale si seminarono i futuri incroci e meticciati sonori chiamati world music, cosmic e spiritual jazz, tra gli altri. All’album presero parte Fernando Gelbard, pioniere in Argentina del suono elettronico, alle prese nell’album con piano elettrico (un Fender Rhodes) e Minimoog, Jorge González al contrabbasso e Néstor Astarita alle percussioni entrambi prelevati dalla sezione ritmica al servizio di Gato Barbieri nei primi anni Sessanta, e Miguel “Chino” Rossi, che con percussioni insolite ed effetti speciali caratterizzò non poco il sound dell’album, ma di cui in seguito si persero le tracce. Quanto al leader, il “Chivo” si adoperò al piano (acustico ed elettrico), all’organo elettrico (un hammond), allo xilofono, al sintetizzatore, alle percussioni e al flauto dolce, oltre al tenore, naturalmente. Ai quattro argentini si aggiunse in due brani, scritti di proprio pugno, il chitarrista brasiliano Stenio Mendes, che impiegò la craviola, sorta di mutante nato dall’incrocio tra una viola e un clavicembalo, qui in una versione a dodici corde. Del tutto immerso nello spirito del tempo, tra suggestioni cosmiche, generi musicali travalicati e fascinazione per le nuove tecnologie, anche i meriti del disco vennero ripartiti da Borraro tra tutti i partecipanti alle sedute, come precisò egli stesso nelle note di copertina.

Esplorando il cosmo del jazz
Per aprire le danze si pose in cima alla scaletta del disco una composizione di Mendes, l’affascinante Lineas Torcidas. Vi primeggia la craviola ma si ascolta un doppio caldo e seducente assolo al tenore su una base resa liquida dal suono del Fender. Tutt’altra atmosfera nel brano eponimo, assai più inquietante e misterioso, eerie, potrebbe dirsi, specie per quelle perturbazioni di suono elettronico in apertura. È un blues, come ammette il titolo, ma svolto come sarebbe piaciuto a Sun Ra, che però, va ricordato, ai tempi non andava proprio per la maggiore tra i jazzisti di Buenos Aires. Lo spazio e il futuro segnavano anche il successivo Cancion De Cuna Para Un Bebe Del Año 2000 (Dedicado a Patricio) anch’esso tutto nel segno del suono elettronico in avvio, un turbamento sonoro proveniente dallo spazio esterno che si dissolve introducendo la ninna nanna affidata al tenore lirico di Borraro. Il secondo lato apriva anch’esso con una composizione di Mendes, La Invasion De Los Monjes, brano assai coltraniano, maggiormente nel segno dello spiritual jazz, come si sarebbe detto anni dopo. Borraro fornisce un saggio in compendio di jazz modale, la craviola stratifica piani sonori e ritmi a un certo punto quasi tarantolati, in una fase ritmica intensa e assai brasiliana, inclusa, accresciuta, una breve ma energica esplosione vocale senza parole, sottolineando qui più che altrove quanto spazio e timbro fossero gli assi portanti dell’intero lavoro. Quasi a disorientare ulteriormente, il conclusivo Mi amigo Tarzán preme sull’acceleratore mostrando, al tempo stesso, il lato più ritmico e aggressivo di Borraro, la sua solida formazione di bopper. È l’Africa secondo Borraro, reinventata, immaginata, colorata dal suono del Fender, resa selvaggia dal tenore graffiante del leader, sostenuto da un tempo medio-veloce, sorprendendo ancora una volta per le affinità con esperienze di certo poco note nei barrios, come quella degli Head Hunters di Herbie Hancock. D’altronde, la musica non ha confini, come il cosmo, e questa è una spiegazione plausibile…