Perturbazioni quotidiane
e magnifiche ossessioni

Amparo Dávila
Morte nel bosco
e altri racconti
Traduzione di Giulia Zavagna

Safarà, Pordenone, 2023
pp. 271, € 19,50

Amparo Dávila
Morte nel bosco
e altri racconti
Traduzione di Giulia Zavagna

Safarà, Pordenone, 2023
pp. 271, € 19,50


Bentornati nei mondi (ir)reali di Amparo Dávila, dove ci si imbatte in “quelle cose strane e misteriose che a volte capitano senza che si possano capire o spiegare”. Sono i mondi descritti in Morte nel bosco e altri racconti, la raccolta di racconti che segue e conclude, dopo L’ospite e altri racconti, il progetto editoriale di Safarà dedicato a questa immaginifica scrittrice.
Bentornati, dunque, nei mondi (ir)reali di Amparo Dávila, signora messicana del racconto, coetanea di Carlos Fuentes, legata da profonda stima a Julio Cortázar. Lui apprezzò la prima raccolta di racconti dell’allora giovane scrittrice (Tiempo destrozado), ammirandone in particolare il cuento eponimo, che ora appare in La morte nel bosco, un vortice onirico nel quale ci si inabissa inesorabilmente. Un pezzo di bravura, dove la verità, l’ignoto, il senso dell’altrove, gli accadimenti, tutto è dentro il flusso verbale.

“Prima ci fu un immenso dolore. Un lento sgretolarsi nel silenzio. Un disarticolarsi nel vento oscuro. Perdere d’un tratto le radici e ritrovarsi senza appoggio, in una caduta sorda. Precipitare da una cima molto alta. Un ricordo, una visione, un volto, il volto del silenzio, dell’acqua… Le parole infine come qualcosa che si tocca e si palpa, le parole come materia ineludibile”.

In seguito, lei gli dedicò un racconto (Il funerale, incluso nel precedente L’ospite e altri racconti). In La ruota, invece, architettò una storia che è un omaggio cristallino a certe storie circolari dell’argentino, a ribadire la sconfinata ammirazione nutrita per lui, “el mejor”, come tagliò corto Roberto Bolaño.
Amparo Dávila era nata nel 1928 a Zacatecas, nel bel mezzo del deserto del Gran Tunal, vissuta in seguito a San Luis Potosí e dal 1954 nella capitale lavorando con Alfonso Reyes, altro poeta e grande intellettuale. Nacque nella terra di Reyes, di Fuentes e di altri scrittori suoi contemporanei, Octavio Paz e soprattutto Juan Rulfo, nella terra dove questi immaginò Comala, teatro delle vicende narrate nel suo romanzo Pedro Páramo (1955); Comala, luogo sospeso tra materia e presenze spettrali, perché abitata da morti in vena di confidare le proprie vite. In questo contesto culturale, Amparo Dávila pubblicò nel 1959 quel primo volume di racconti che affascinò Cortázar. Non ne seguirono molti altri, soltanto tre, (Musica concreta (1961), Árboles petrificados (1977) e Con los oyos abiertos (2008), accolti tutti come il primo: adorati, coltivati, gelosamente custoditi da pochi appassionati lettori che la resero presto autrice di culto, ma ignorati da molti assieme alla sua indecifrabile autrice. Un po’ di fama in patria arriverà solo al crepuscolo, appena prima che il diciotto aprile del 2020 ci lasciasse questa scrittrice visionaria, esploratrice delle regioni del fantastico, pioniera laddove il punto di vista dei suoi personaggi è spesso femminile, perché i suoi mondi (ir)reali pullulano di delicate, inquietanti e disturbanti figure di donne, ragazze, anziane, sempre in limite tra follia, pericolo, solitudine e morte.

Il perturbante all’angolo della strada
Bentornati, dunque, nelle sue storie che rifiutano una precisa collocazione per via dei confini incerti che li segnano, come succede ai loro protagonisti privi di certezze, oppure in possesso di poche maniacali sicurezze che finiscono per travolgerli. Irruzioni minime dell’Unheimliche, in punta di piedi, come gli si addice, anche solo a partire da un accenno, ma che ribaltano il mondo quotidiano, l’ordinario scorrere degli eventi, l’agire consueto, il rapporto familiare con le cose, quello naturale con i propri legami e affetti, smarrendo i protagonisti, disorientando i lettori anche per via di un non detto centellinato quanto basta. I mondi (ir)reali di Amparo Dávila brulicano di situazioni del genere. Storie surreali, orrorifiche, strane, limpidamente fantastiche oppure realiste ma sempre graffiate da qualcosa di sinistro.
Un bell’esempio è quello di Matilde Espejo, che disegna il ritratto di una signora elegante, raffinata nei modi, amabile ospite che cattura l’attenzione della candida narratrice alla quale doña Matilde affitta un appartamento. In realtà, l’anziana è una vedova nera, ereditiera a più riprese, che, amorevolmente, non fa mai mancare i fiori sulle tombe dei suoi cari; tre mariti, due fratelli, una sorella, uno zio, una zia e forse un gatto. È un sospetto, solo un sospetto, ma Dávila è abilissima nell’insinuarlo tra le righe. In altre pagine, si apre la voragine dell’inconscio più oscuro, la scrittura si svincola da qualsiasi legame, diventa flusso circolare come nel surreale e tombale Il patio quadrato, dove fuoriesce tra un incubo e l’altro, una delle leggi a cui sottostanno le storie di Amparo Dávila:

“Non c’è via di scampo possibile quando fuggiamo da noi stessi; il caos che abbiamo dentro si proietta verso l’esterno; l’evasione è un percorso che non porta da nessuna parte”.

Altrove si fa appello ai topoi più consolidati del gotico, a iniziare dai classici fantasmi. Ecco che nella casa di Calle Estocolmo 3 si aggira una presenza, ma a vederla è soltanto l’amica della coppia da poco trasferitasi lì. Uno spettro si aggira anche ne La casa nuova, ma appare solo a una delle figlie della proprietaria, il resto della famiglia, incredula, la riterrà malata di mente, salvo poi ricredersi. Fantasmi interiori, ma rumorosi assai, invece, sono quelli che perseguitano la protagonista de La signorina Julia. Lei passa nel terrore notti insonni per via di rumori notturni, e con il sonno perde salute, presenza e umore. “La signorina Julia, come la chiamavano i colleghi in ufficio, non dormiva da più di un mese e la cosa cominciava a notarsi”. La danza notturna dei topi è un sabba che si accende nella mente della signorina Julia o no? L’ambiguità è un’altra chiave per accedere ai mondi (ir)reali di Amparo Dávila. Gotico nerissimo, invece, nel terribile racconto Griselda, la cui cornice è tipica del genere (un giardino interno di una casa signorile in decadenza, uno stagno, malerba ovunque, e così via), mentre la rivelazione finale appare come una prefigurazione del body horror. Griselda è una storia d’amore conclusasi tragicamente, ma l’amore è irraggiungibile sempre nei racconti di Amparo Dávila, anche impiegando altri registri. il meraviglioso Radio Imer Opus 94.5 illustra a meraviglia questo vano affannarsi. L’irruzione dell’insolito, anche in questo caso, avviene nel cuore della banalità quotidiana. Alla protagonista, Irene, si presenta alla radio, per puro accidente, come pura phōnḗ:

“Irene rimase subito conquistata dalla voce dell’annunciatore, era la voce più bella che avesse mai sentito in vita sua…”.

Ne sarà ossessionata, ma si schianterà contro un’amara verità. Strani eventi e paranoie implacabili non vengono risparmiate neanche agli uomini. Capita all’abitudinario protagonista di Arthur Smith, per esempio, al quale una repentina metamorfosi lo riporta a essere un bambino assieme ai suoi due figli mentre Mrs. Smith osserva attonita quanto accade. Oppure succede a Marcos, in Un biglietto per un posto qualsiasi, di cadere vittima di una ridda di ipotesi che lo porta a fuggire da pericoli via via più ipotetici ma non per questo meno terrorizzanti.
Fiabe, sogni, incubi, follie, allucinazioni, qualcosa si spiega, qualcosa resta inspiegabile, le prospettive si alterano, le certezze si sbriciolano.
Bentornati nei mondi (ir)reali di Amparo Dávila.

Letture
  • Amparo Dávila, L’ospite e altri racconti, Safarà, Pordenone, 2020.