L’arte di Fabrizio De André,
ponte tra poesia e canzone

Walter Pistarini, Claudio Sassi
Fabrizio De André
Ho paura di fare il poeta
Rizzoli Lizard, Milano, 2024

pp. 352, € 18,50

Walter Pistarini, Claudio Sassi
Fabrizio De André
Ho paura di fare il poeta
Rizzoli Lizard, Milano, 2024

pp. 352, € 18,50


“La canzone è poesia? Può rientrare nel novero delle opere letterarie?”. Si apre proprio con questi interrogativi uno dei capitoli più interessanti del nuovo libro su “Faber”, Fabrizio De André (1940-1999) pubblicato da Rizzoli, scritto da due esperti del poeta/cantautore/trovatore genovese: Walter Pistarini, classe 1959, che nel 1999 ha fondato il sito viadelcampo.com, punto di riferimento per i fan di De André; e Claudio Sassi, classe 1976, uno dei massimi esperti della discografia di Faber. A questo proposito va precisato che il volume riporta una discografia essenziale degli album di Fabrizio De André, nella quale si indicano la data e la casa discografica di prima edizione e la scaletta di ogni album. L’intera discografia di André è però consultabile sul sito succitato e verrà ristampata in occasione del venticinquennale della sua scomparsa con il progetto “Way Point. Da dove venite… Dove andate?”, realizzato in collaborazione da Fondazione Fabrizio De André Onlus e Sony Music Italia a cui si fa riferimento nella nostra discografia selezionata. Tornando alla questione iniziale, notevole era l’oscillazione preferenziale fra le tre categorie (cantautore, poeta o trovatore) da parte di De André. Come scrivono gli autori:

“Queste domande non hanno ancora una risposta univoca e condivisa da tutti. Bisogna dire che la domanda principale non è mai stata posta negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ha cominciato a farsi sempre più insistente solo alla comparsa di alcuni autori, in particolare Fabrizio De André”.

Se il testo di una canzone possa essere considerato poesia o inserito nella categoria del poetico – una sfera concettuale leppegosa come direbbe De André in buon zeneise – e quindi in un’antologia di versi per la scuola, è un problema di complessa soluzione. Per alcuni, molto sbrigativamente, è come discutere del sesso degli angeli, soprattutto se gli autori dei testi sono musicisti come Georges Brassens, Jacques Brel, Leonard Cohen, Bob Dylan. E non li citiamo a caso, visto che fanno parte della formazione musicale e letteraria di Fabrizio De André, nonché del suo personale pantheon artistico. Per alcuni teorici è una domanda non molto diversa da quella che si potevano porre i filosofi e gli scrittori stessi sulla natura del bello e del poetico. Per riprendere lo schema concettuale di Benedetto Croce, si può distinguere tra poesia e non-poesia? Oppure: esistono le arti maggiori e le arti minori? Ammesso e non concesso che queste distinzioni abbiano ancora senso. Anche nel mondo tradizionalmente accettato del poetico convivono espressioni opposte di poesia per cui in una stessa rassegna antologica potremmo trovare la dannunziana La Pioggia nel Pineto e un esempio di anti-poesia come La fontana malata di Aldo Palazzeschi che inizia come una canzone punk o non-sense: “Clof, clop, cloch,/cloffete,/cloppete,/clocchete,/chchch…”.

Un’altra famosa poesia di Palazzeschi (La passeggiata), spesso letta dagli attori, inizia così: “Andiamo?/Andiamo pure” (l’attacco è ironico perché echeggia proprio un incipit dannunziano: Settembre andiamo…) e seguono molti versi che descrivono insegne di negozi, numeri civici, strade. La poesia vera nasce spesso dall’anti-poesia, mentre la falsa poesia imita volentieri la tradizione, l’aulico, il letterario, secondo l’essenza del kitsch. Abbiamo citato Croce perché l’intellettuale dell’Estetica, il filosofo che decretò la distinzione tra poesia e struttura in Dante (con l’ovvia implicazione che la struttura non è poesia) ha a che fare anche con De André. In una delle più famose interviste televisive, Vincenzo Mollica chiedeva a De André se si sentisse poeta. Ecco la sua risposta riportata da Pistarini e Sassi:

“Benedetto Croce diceva che fino all’età di diciotto anni tutti scrivono poesie; dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini, quindi io, precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”.

Secondo gli autori di questo libro, è una non-risposta, o è un modo molto (auto)ironico di evadere la questione. De André era, però, uno dei pochi cantautori o poeti in musica a cui piaceva discutere di questi temi, vista anche la buona cultura letteraria che il musicista genovese poteva vantare. E non solo perché musicò in un famoso album l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, tradotta da Fernanda Pivano. La quale definì Fabrizio, nel 1997, in occasione della consegna del premio Lunezia per il valore letterario del testo di “Smisurata preghiera”, “il più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant’anni in Italia”. Gli intellettuali non vanno esenti da queste sparate. Edoardo Sanguineti disse una volta che Gino Paoli – lo racconta lo stesso cantautore nella sua autobiografia, Cosa farò da grande – era il più grande poeta del Novecento! Per Paoli, invece, il più grande di tutti è Giorgio Caproni, livornese ma vissuto a lungo a Genova. Comunque, bando alle esagerazioni, è ovvio che il fatto di scrivere in rima, usando schemi imparati dalla letteratura e dai manuali, non è una garanzia assoluta di buona o grande poesia. Tuttavia, è indice di preparazione e cultura letteraria. E a De André veniva facile comporre in rima. Pistarini e Sassi citano la testimonianza di Roberto Dané, produttore degli album La buona novella, Non al denaro non all’amore né al cielo, Storia di un impiegato, Canzoni, Volume 8, che racconta la volontà di De André di

“non licenziare mai, ma proprio mai, un verso senza che fosse più che perfetto, secondo le sue intenzioni e i suoi convincimenti. […] Aveva le sue tecniche particolari. Che so, una quartina con un primo verso che doveva essere importante, un secondo sempre importante e poi un terzo più semplice, per abbassare il tono e culminare poi con un quarto di nuovo importante. E non ti dico le rime. Non dovevano essere banali, e mai di poco pregio. E la metrica: precisa, puntuale ma con dei buchi ogni tanto, dei punti di rilascio. Uscire dalla metrica apposta per poi tornarci al verso dopo e così dare l’idea di allentamento della tensione e subito dopo di conforto a chi ti segue. Perché la metrica, diciamocelo, è confortante. Una tecnica raffinatissima, oggi tra l’altro assolutamente perduta. Oggi si lavora con autori che non hanno la minima idea della precisione e dell’assiduità che occorrono”.

Sul modo di comporre in versi, De André racconta il suo rapporto con la tecnica e lo stile:

“Scrivere in rima mi viene molto facile. E le facevo quasi da un momento all’altro. «La ballata dell’eroe» l’ho fatta in cinque minuti, «Bocca di rosa» in due giorni. Per «Marinella», che era già un po’ limata, ci ho messo qualche giorno in più. Ero anche abbastanza furbo da fare rime non abusate. Per «La guerra di Piero», per esempio, mi era venuto di getto il verso «Dormi sepolto in un campo di grano». Poi ho cercato sul rimario della lingua italiana cosa faceva rima con grano e ho scelto tulipano, che è una parola già di per sé evocativa di un certo paesaggio»”
(Viva, 2019 in Pistarini, Sassi 2024).

A proposito de La canzone di Marinella, che gli diede il primo grande successo dopo che fu cantata da Mina nel 1968, De André raccontava spesso com’era nata, il motivo ispiratore di quel testo così romantico, dolce ma non melenso, triste ma dignitoso: lo spunto era stato offerto da un brutto fatto di cronaca nera che aveva letto, quindicenne, su un giornale locale. Ne rimase così colpito da voler poi trasfigurare in un motivo poetico la storia di quella ragazza sedicenne che per motivi familiari era stata costretta alla prostituzione e venne poi scaraventata nel Tanaro dopo essere stata derubata. Nella canzone De André reinventa la vita della ragazza addolcendone la morte. Gino Paoli dedica un gustoso passaggio della sua autobiografia a Marinella dipingendo alcuni tratti caratteriali di De André:

“E poi, Fabrizio De André. Anche lui diceva di essere in debito con Mina, che cantò La canzone di Marinella e la fece conoscere a tutti. Era un altro non molto facile per i giornalisti: al suo confronto io sono un pezzo di pane. Era ossessionato dal suo aspetto fisico. Aveva un occhio con la palpebra che rimaneva mezza chiusa e questo lo angosciava, si copriva i capelli, cercava di nasconderlo. Io gli ripetevo: «Piantala, Fabrizio, sei un bel ragazzo. Smettila con queste stronzate che sei brutto». Ma non ci sentiva. Era terrorizzato all’idea di salire sul palco. La prima volta che si è esibito in pubblico siamo stati io e Arnaldo Bagnasco a farlo uscire. A calci in culo (no, non è una metafora). Soffriva di «timor panico», un disturbo che quasi ti paralizza, e per affrontare il pubblico doveva sbronzarsi di whisky”
(Paoli, 2023).

“No, non sono un poeta”
Quando uscì l’album Tutti morimmo a stento, alla solita domanda se si sentisse poeta De André rispose così su Ciao 2001 del 16 settembre 1969:

“No, non sono un poeta. La poesia è un mestiere, ma non il mio. Io cerco soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone”
(Daniele del Giudice, Tutti morimmo a stento, in Pistarini, Sassi, 2024).

Anche sulla parola “cantautore” Faber nutriva qualche dubbio. Non che lo rifiutasse, ma ero solito fare dei distinguo, e comunque preferiva il termine “trovatore”, forse in ricordo di, e in onore a, quei poeti provenzali che lui aveva studiato a scuola e dopo:

“Cantautore? Lo sono, sì. Ma è un termine vago, che non definisce nulla. Se proprio fa comodo un’etichetta, preferirei si dicesse trovatore. Mica per altro, solo perché mi sembra che i provenzali, non so, Jaufré Rudel, Rambaldo di Vaqueiras e gli altri siano entrati in misura abbastanza sensibile nell’orientamento del mio gusto letterario. Ho fatto il liceo classico anch’io, come tutti gli aspiranti poeti”.

De André adorava tutto ciò che era francese, con una passione per autori del maledettismo: come François Villon, e –facendo un salto direttamente nella seconda metà dell’Ottocento -–Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud. E in materia di predilezioni musicali anche Brassens e Brel. Brassens musicò quindici poesie e per i testi scritti da lui ricevette il Grande Premio di Poesia dell’Accademia Francese nel 1967. Inoltre, Leonard Cohen, cantautore canadese scomparso nel 2016, esordì come poeta. Vent’anni prima dell’assegnazione del premio Nobel a Bob Dylan nel 2016, in un’intervista rilasciata a L’Unione Sarda l’8 dicembre 1996, gli fu chiesto cosa ne pensava dell’eventualità di riconoscere a un cantautore il Nobel per la letteratura:

“Se per letteratura si deve intendere l’arte del raccontare, la canzone – o meglio, il testo di una canzone – può entrare a pieno titolo nel novero delle arti letterarie. Nella maggior parte dei casi, però, i versi da soli non stanno in piedi, non si possono, cioè, confrontare, da un punto di vista puramente estetico, alla forza espressiva dei versi di una poesia che, da un lato, raccolgono già in sé un loro ritmo, un loro metro musicale e dall’altro non sono costretti agli spazi ridotti che concede loro la musica”
(De André, Nobel ai cantautori? Qualche volta si può, in Pistarini, Sassi 2024).

Quindi De André esprime più volte la convinzione che poesia e canzone siano due arti assolutamente diverse e distinte. Ma era altrettanto convinto (come Benedetto Croce) che non esistessero arti maggiori e arti minori. Nella medesima intervista, dichiarò:

“Ma sono altrettanto convinto – come lo era il buon Benedetto Croce – che non esistono arti maggiori e arti minori. Altrimenti arriviamo all’assurdo di considerare Maggiolini, che aveva scelto l’ebanisteria, un’artista minore rispetto a Pantalone Cecioni, che aveva disegnato e fatto costruire un orribile Arco della pace; in quanto architetto, dovremmo considerarlo un artista maggiore?”
(ibidem).

Il Maggiolini a cui De André allude, dovrebbe essere Giuseppe Maggiolini (1738-1814) ebanista di corrente barocca e neoclassica.

È esistita una scuola genovese?
Non era il solo De André a dubitare dell’effettiva esistenza di una scuola genovese nel senso stretto e letterario del termine. I musicisti e i cantanti che si frequentarono a Genova negli anni Cinquanta-Sessanta, come Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Gino Paoli, avevano ciascuno storie personali e retroterra musicali diversi. Per non parlare degli stili. Per esempio, a livello formativo, il jazz ha avuto una notevole importanza soprattutto per Tenco, Lauzi e De André. Il jazz improntò anche la carriera di Gianfranco Reverberi, vibrafonista, poi con il fratello Giampiero e Nanni Ricordi molto influente nella vita e nella carriera di Fabrizio De André. E oltre che su Faber, la cultura francese ha esercitato grande influenza anche su Gino Paoli e Umberto Bindi: i principali punti di riferimento erano Charles Trenet per Bindi o Charles Aznavour e Léo Ferré per Paoli che condivide con Fabrizio l’amore per Brassens. Fatto sta che le smentite sono più di una:

“Quel movimento, la scuola genovese, non è mai esistito. Si è cercato di mitizzare in qualche maniera la nostra storia, tutti insieme e quasi tutti nello stesso periodo. Se vogliamo è stato un periodo speciale e anche un po’ magico; essenzialmente è stata la stampa a creare questa situazione. Ancora oggi quando ci chiedono di parlarne, siamo abbastanza imbarazzati, non sappiamo cosa dire”
(Umberto Bindi in Viva, 2008).

“Genova, negli anni sessanta e settanta, ha sfornato un numero di musicisti impressionante. Anche se io non ho mai creduto all’esistenza di una «scuola genovese», ritengo questo fatto più una casualità. Reverberi, Tenco, Lauzi, De André e tutti gli altri: noi, prima di fare i cantanti, eravamo semplicemente amici, sempre insieme, spesso al baratto della Foce. Era una normale amicizia che è rimasta tale anche quando siamo saliti alla ribalta. Abbiamo continuato a sfotterci anche quando gli altri ci consideravano divi”
(Paoli, 2023).

De André “mosaicista”
In La citazione sintomo d’amor, Francesco Ciabattoni ha preso in esame il lavoro di sei cantautori italiani (nell’ordine dell’indice: Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Angelo Branduardi, Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Claudio Baglioni) i cui testi riportano, più o meno direttamente, attraverso immagini, procedimenti stilistici, rimandi e citazioni o rielaborazioni, a uno spazio letterario quanto mai variegato, che abbraccia tanto la letteratura colta quanto le tradizioni popolari, senza limiti di tempo o di nazionalità. Fabrizio De André è un altro cantante colto e tendenzialmente “mosaicista” come si definì lui stesso, dichiarando più volte di prendere spunto per la stesura di una canzone dalla lettura di un libro, di una novella, persino di un articolo di giornale (è il caso de La canzone di Marinella). L’influenza può essere dichiarata sin dal titolo (per esempio, il citato quinto album di De André, Non al denaro, non all’amore né al cielo, 1971), o recuperata indirettamente attraverso le interviste o le dichiarazioni dell’autore. Anime Salve (1996), l’ultimo album registrato in studio, deve non poco alla lettura di Àlvaro Mutis, in particolare La neve dell’ammiraglio, che gli regalò nel 1991 l’amico Vittorio Bo, ma anche alla raccolta di poesie Summa di Maqroll il Gabbiere, sempre di Mutis. Un altro lavoro che rispecchia letture e interessi culturali del cantautore genovese è La buona novella (1970), basato sui Vangeli apocrifi, anche se non meno rilevante è l’influenza della poesia religiosa medievale (Donna de paradiso di Jacopone da Todi). Il capitolo su De André è sviluppato sul metodo del soulignement (cfr. Compagnon, 1979), che consiste nella ricostruzione delle influenze letterarie partendo dai brani sottolineati (e dalle note a margine) sui libri letti.

Ascolti
  • Fabrizio De André, Volume 3, RCA, Edizione Way Point, 2024.
  • Fabrizio De André, La buona novella, RCA, Edizione Way Point, 2024.
  • Fabrizio De André, Non al denaro non all’amore né al cielo, RCA, Edizione Way Point, 2024.
  • Fabrizio De André, Storia di un impiegato, RCA, Edizione Way Point, 2024.
  • Fabrizio De André, Canzoni, RCA, Edizione Way Point, 2024.
Letture
  • Francesco Ciabattoni, La citazione è sintomo d’amore, cantautori italiani e memoria letteraria, Carocci, Roma, 2016.
  • Antoine Compagnon, La second main ou le travail de la citation, Editions du Seuil, Parigi, 1979.
  • Giuliano Malatesta, La Genova di De André, da Corso Italia a via del Campo, Giulio Perrone Editore, Roma, 2019.
  • Gino Paoli, Daniele Bresciani, Cosa farò da grande. I miei primo 90 anni, Bompiani, Milano, 2023.
  • Walter Pistarini, Fabrizio De André, Il libro del mondo, la storia dietro le canzoni, Giunti, Firenze, 2021.
  • Luigi Tenco, Lontano, lontano, lettere, racconti, interviste, a cura di Enrico de Angelis ed Enrico Deregibus, ilSaggiatore, Milano, 2024.
  • Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, Vita di Fabrizio De André, Feltrinelli, Milano, 2008.
  • Luigi Viva, Falegname di parole, Le canzoni, la musica di Fabrizio De André, Feltrinelli, Milano, 2018.