Ritrovare l’immaginazione
in una selva molto oscura

Brian Catling
Vorrh
La foresta senza fine
Traduzione di Massimo Gardella

Prefazione di Alan Moore
Illustrazioni di Gianluigi Toccafondo
Safarà, Pordenone, 2021
pp. 468, € 25,00

Brian Catling
Vorrh
La foresta senza fine
Traduzione di Massimo Gardella

Prefazione di Alan Moore
Illustrazioni di Gianluigi Toccafondo
Safarà, Pordenone, 2021
pp. 468, € 25,00


Tra i vocaboli con cui viene presentato al lettore Vorrh, il romanzo amazzonico di Brian Catling, edito da Safarà, vi sono due aggettivi, usati esplicitamente da Jeff Vandermeer, ma concettualmente ribaditi anche da altri commentatori, che nella sostanza riassumono l’interpretazione proposta in prima istanza per il romanzo: decadente e simbolico. Agli occhi del lettore colto questi due epiteti rimandano immediatamente a dei significati ben delineati, sia in un’ottica storiografica quanto contenutistica. Eppure, sebbene la cattiva abitudine di etichettare le opere e rinchiudere gli autori nei generi sia fiorente come non mai, il lettore non può lasciare che un uso indeterminato, o comunque poco indicato della lingua influenzi la sua percezione del testo, foss’anche solo per evitare la tentazione commerciale, e salvaguardare il valore letterario dello stesso.
Ancor prima di leggere gli eserghi posti dall’autore, che tra l’altro indicano in modo preciso le chiavi di lettura che Catling intende dare al romanzo, il lettore di Vorrh è colpito da una miriade di citazioni tratte dai peana scritti per questo romanzo da alcuni dei maggiori nomi appartenenti alla letteratura di riferimento per il target che si ipotizza coinvolto. Oltre al già citato Vandermeer, leggiamo brevi citazioni di Alan Moore, Tom Waits, Philip Pullmann, Terry Gilliam, Michael Moorcock, per citare i più noti, che spendono aggettivi e complimenti assolutamente non occasionali sia verso il romanzo che all’indirizzo dell’autore. In molti di questi passaggi si leggono commenti spesso affini tra loro, e ciò è dovuto al fatto che in questo romanzo alcuni elementi narrativi sono talmente preponderanti da travolgere ciò che è apparentemente secondario.

The Vorrh Trilogy di Brian Catling (nella foto) si compone di Vorrh, The Erstwhile e The Cloven.

La relazione tra la lingua e la natura, la critica alla logica white suprematist propria del colonialismo, la mitologia, la ricerca intorno a una spiritualità arcaica, sono tutti temi a tal punto travolgenti nella lettura del testo che ne diventano un contrassegno, degli elementi di riconoscimento, delle chiavi di lettura per chi segue, ma il romanzo di Catling ha delle radici molto più profonde delle tematiche troppo tendenti al pop che si tende a cucirgli addosso, e trova la sua fonte nel romanticismo e nella Grecia arcaica, dove si fonda il nostro rapporto con ciò che chiamiamo natura.
Brian Catling, in Italia, ante la pubblicazione di questo romanzo, era di fatto un Carneade, mentre nel mondo anglosassone i citati commentatori hanno avuto modo di leggere anche i due volumi seguenti, perché di una trilogia si tratta, e purtroppo questo rende la nostra lettura almeno per ora, monca, e quindi ancora più imprecisa di quanto già non lo sia. Difatti l’autore, che certamente non può essere considerato un esordiente, foss’anche solo per la rispettabile età, oltre che scrittore e docente di Belle arti, è un artista multidisciplinare, scultore, pittore, poeta e performer visivo, ma in questa sua molteplice attività è a tutt’oggi sostanzialmente ignorato dal mondo culturale italiano.
È doveroso quindi ringraziare Safarà, che, con uno sforzo editoriale certo non indifferente ha portato questo romanzo nelle nostre librerie in una splendida edizione, esprimendo così il senso migliore di quello che dovrebbe essere il lavoro di un editore, e altrettanto lo è esprimere un encomio speciale al traduttore, Massimo Gardella, che ha reso in modo magistrale la musicalità della lingua, e, in un certo senso, la sua classicità; e infine certamente non devono essere dimenticate le bellissime illustrazioni di Gianluigi Toccafondo, particolarmente adatte allo stile e al contesto.

Le illustrazioni di Gianluigi Toccafondo per l’edizione italiana di Vorrh: tavola La foresta.

La lingua è quindi solo uno degli snodi interpretativi di questo testo, per quanto sia potente la tentazione di interpretarlo in modo univoco come una riformulazione del rapporto tra cultura orale e cultura scritta. Il linguaggio di Catling si dimostra estremamente liquido, flessibile da un lato nell’adattarsi ai diversi personaggi, e dall’altro contestualmente nell’aggirarli, come se si trattasse di ostacoli sul suo cammino. Non è casuale che alla fine della prima sezione (lunga centocinquanta pagine) il lettore scopra di fatto che si è appena conclusa la presentazione dei personaggi, senza che questo lungo estendersi del racconto abbia in alcun modo sminuito la sua stessa potenza.
Se il Vorrh, questa foresta immensa attorno a cui ruota il romanzo, e che le è espressamente dedicato, è un gorgo che risucchia corpi e anime, un cuore pulsante e sanguigno, un nodo gordiano in cui ogni mito trova origine, una ctonia caverna platonica dove l’umanità stessa nasce e muore, lo stesso si può dire del linguaggio in cui tutto ciò è espresso. Nel Vorrh ha sede l’Eden stesso: la foresta è, per citare Joseph Rykwert, la casa di Adamo in Paradiso, e l’antenato di ogni uomo, l’urmensch, l’uomo primigenio, l’archetipo per definizione, trova lì il suo locus (per usare un termine che Catling riprende da Raymond Roussel) e certamente parlerà la lingua perfetta, la lingua che non concede il travisamento, la lingua degli angeli. Questa lingua è quindi parimenti un vortice, un abisso, un cuore pulsante in cui affonda la ragione, un cerchio infinito in cui il tempo e lo spazio si estinguono, l’origine del tutto. Ma se il Vorrh è la natura, una natura legata alla visione kantiana del sublime, questa dovrebbe essere svincolata dall’espressione linguistica in senso stretto, che è invece espressione significativa, e in quanto tale è propria della cultura degli uomini.

Gianluigi Toccafondo: tavola Le maschere.

L’idea del sublime, così come cambia, a partire dalla sua formulazione in Immanuel Kant per giungere, passando attraverso il Romanticismo, sino al decadentismo, segue lo stesso percorso del lettore nella sua scoperta del Vorrh. Se in prima istanza questo è la foresta stessa, si identifica con ciò che Kant chiama il sublime dinamico, manifestazione della potenza primigenia della natura, espressa dalle grandi catastrofi e ben impersonificata dalla foresta. L’uomo qui individua il suo limite, e scopre la sua finitezza. Così accade che quando gli uomini entrano nella foresta, attratti in modo istintivo, dall’odore, smettono di parlare, perdono coscienza di sé, aumentando invece quella del gruppo, e si trasformano in una sorta di zombie, i Limboia, rappresentati con tutte le ambiguità del caso, sia nel loro essere una forma precapitalistica di lavoro salariato, sia nella loro condizione di esseri che hanno oltrepassato il confine tra la vita e la morte, per diventare qualcosa che non può essere rinchiuso in una polarità, proprio perché appartiene al mondo del tempo circolare. D’altronde esistono diversi studi che hanno cercato di descrivere una possibile umanità precoscenziale, antecedente la nascita dell’ego come monade, del soggetto che si riconosce in quanto isolato dal gruppo. Tra questi senza dubbio il più noto è Julian Jaynes, che introduce l’idea di una struttura diacronica della coscienza, ovvero la sua storicità, il suo essere un prodotto evolutivo (cfr. Jaynes 1984). La lingua, o almeno l’uso che ne fa Catling, riesce quindi a esprimere il senso del Vorrh, ma forse spiega solamente il libro, piuttosto che l’omonima foresta, lasciando che questa ne sia espressamente allontanata. Catling è qui ora di fronte a Ludwig Wittgenstein e al suo paradosso: il suo parlare può solo ruotare intorno al suo oggetto, ma gli è impedito di descriverlo appieno:

“Quello che il cadavere dice, il detto del suo dire (‘io sono morto’) è infatti l’indicibile stesso, è la contraddizione della parola. […]. La sola espressione propria che può avere l’autocoscienza zombi è il grugnito, il mugolio, l’urlo disperato e il lamento inconsolabile. Niente che assomigli a una voce. In quanto molteplicità senza unità, in quanto puro onkos senza mondo, lo zombi è infatti fuori dal linguaggio”
(Ronchi, 2015).

Cosa accade quindi di così determinante affinché decadente e simbolista possano diventare due termini chiave per spiegare questo romanzo? Si può ritenere che all’apparire di questi movimenti, segnato dalle crisi entrambe irreversibili sia del romanticismo e della sua visione della natura come espressione del sublime, visto da Friedrich Schiller come massima coscienza cosmica, sia del positivismo e quindi dell’idea di una natura totalmente indagabile e esplicabile, riconducibile sempre e comunque a una sua espressione numerica, prenda forma la potente propensione visiva che la lingua di Catling dimostra. Le stesse idee di immaginario e visionario assumono valori nuovi, perché la lingua di questo romanzo è senza dubbio inscrivibile sotto questi significati, ma in una modalità caratterizzata da metafore visive, piuttosto che intellettuali o ideali. L’apertura della seconda parte del romanzo è un esempio degno di sottolineatura:

“L’alba, come fosse la prima. Le nubi grigio piombo sembrano mani corazzate che stringono il pallido sole menomato nella loro morsa. La notte aleggia ancora sopra i rami più alti, enorme e poderosa, gocce di pioggia e rugiada tamburellano sul terriccio dall’odore pungente. È l’ora in cui svanisce il ricordo della notte, quando si percepisce la gloria del buio che viene risucchiato e infine spogliato della sua purezza. Il volgare ingresso del giorno non offre scampo, e riempirà tutti di menzogne con la sua luce insistente, obbligando a essere furtivi e a muoversi nel folto degli alberi dalla parte opposta del cielo”
(Catling, 2021).

Colori, forme, spazi, corpi e volti, maschere e abiti, carne e fango, pietra e legno, ogni elemento della materia si mescola agli altri, per creare immaginario, in una visione che nulla ha in sé di mistico, ma che è ben lontana dal rifiutare gli aspetti spirituali implicati da questa visione. È il momento in cui lo sguardo dell’uomo sulla natura si ripiega, per riflettersi sul suo punto d’origine, e diventare così uno sguardo sull’umano. Non è perciò sorprendente che tra i molti personaggi storici, potremmo dire archetipi, che Catling inserisce nelle pieghe del racconto, vi siano il pioniere della fotografia del movimento, l’uxoricida Eadweard Muybridge ossessionato dall’idea di cogliere l’attimo, in modo da far sì che l’essere emerga dal divenire (o la morte dalla vita), una sorta di goethiano augenblick, analogo al Du bist so schön! che il poeta tedesco fa dire al suo Faust, e un anatomista, Sir William Whitey Gull, baronetto e medico personale della regina Vittoria, sospettato tra le altre cose di essere Jack lo squartatore.

Gianluigi Toccafondo: tavola Muybridge.

Tra personaggi fantastici che diventano reali e figure effettivamente vissute che si idealizzano in un’aura fantastica, spicca quella del Francese, forse il personaggio principale del romanzo, se in questo caso una tale tassonomia ha senso, che scopriamo dopo poche righe, come ci informa lui stesso, “essere stato Raymond Roussel”. Roussel, di cui Michel Foucault scrisse una importante biografia, fu una figura d’avanguardia per quanto riguarda gran parte dei movimenti artistici e letterari di inizio Novecento in Francia, e nelle cui Impression d’Afrique (o Impressions of Africa, la lingua in cui viene declinato ha un suo perché nell’economia del romanzo) ha preso corpo l’idea stessa del Vorrh, a cui si è ispirato Catling. Il decadentismo, di cui un dandy come Roussel si può certamente considerare un esponente, e che nasce come modalità di contrapposizione al positivismo e allo spirito razionalista che nella seconda metà dell’Ottocento sembrava aver invaso e colonizzato ogni espressione del sapere umano, qui si esprime soprattutto nella sua passione per l’artificiale e l’artefatto, per il prodotto dell’umana pena, che, a partire dal cupo sguardo interiore che lo caratterizza, crea una bellezza sublime, ma di una modalità che certo non è più l’omonimo sentimento definito nella kantiana Critica del Giudizio,  ma piuttosto ne è figlio, seppur troppo spesso non riconosciuto e imbastardito. Analogamente, seppure in momenti diversi, ciò che oggi chiamiamo simbolismo nasce per contrastare l’idea di un legame univoco tra la forma e il significato. Questo, se esistesse, porterebbe a escludere ogni forma di interpretazione, ogni lettura metaforica e allegorica, riportando ogni espressione linguistica a un idioma ideale che ha nell’espressione matematica il suo modello.

Gianluigi Toccafondo: tavola La danza degli spiriti.

Una lettura di tipo simbolico di un romanzo, per esempio come accade nella psicoanalisi, è chiaramente antitetica a una visione così diretta, e si esprime in funzione di una modalità che leghi tra loro elementi si diversi, ma ugualmente appartenenti alle intenzioni dell’autore. Vi sono quindi degli spunti condivisibili e certamente adeguati, in una interpretazione di Voorh come di un romanzo decadente e simbolista, ma individuare in ciò la sua originalità, soprattutto in uno spazio letterario che sempre più negli ultimi decenni si è espresso come minimalista e sottile piuttosto che travolgente, erosivo invece che alluvionale, non gli rende giustizia.
Il sublime come è inteso nel Romanticismo è il sentimento che si prova di fronte alla grandiosità del fenomeno naturale, dall’oceano in tempesta alle eruzioni vulcaniche. La definizione kantiana del sublime dinamico per cui il sublime sarebbe quel sentimento generato dalla visione della nostra limitatezza di fronte alla grandezza della natura, si applica perfettamente anche alla foresta del Vorrh, che è esattamente ciò che ci pone di fronte al nostro limite. Eppure, se è vero che nel romanzo esplode la portata dell’amplificazione semantica, dell’immaginazione estesa, della ridondanza che spesso caratterizza l’intreccio, per quanto tutto questo sia un elemento costante nell’opera, lo è in modo più simile all’Odissea omerica piuttosto che a Charles Baudelaire.
Il campionario mitologico della Grecia arcaica è a fondamento di questo romanzo, e non a caso Catling stesso cita Erodoto e John Mandeville, e i loro cataloghi di creature mostruose. Vi sono ciclopi, antropofagi, zombie, assassini, streghe e sciamani, riuniti in una sorta di circo Barnum dei mostri, in un freak show, che però non si pone immediatamente come espressione del tema dell’alterità e dell’accettazione del diverso.

Gianluigi Toccafondo: tavola Adamo.

Qui tutti sono diversi, la mostruosità è la norma, che sia esteriore o interiore: in ogni caso l’intero corpus dei personaggi è una escrescenza del Vorrh, o perché ne è fuggito o perché ne è attratto e vi vuole entrare. In ogni caso questo elastico psichico lega ogni personaggio in modo inscindibile alla foresta, e lo trasforma, rendendolo mostruoso, ma in questa metamorfosi, in questa sorta di samsara, ciò che si mostra è la vita stessa, quella arcaica, sorgiva, acoscienziale e alinguistica, che emerge in questa mostruosità, dandole corpo e anima.
Molti sono i sentieri lasciati aperti nella foresta, così come le trame interrotte e le domande irrisolte. I due volumi seguenti della trilogia scritta da Brian Catling sono l’occasione per percorrerli. Speriamo quindi che Safarà riesca nel miracolo di una rapida e altrettanto bella pubblicazione.

Letture
  • Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano, 1984.
  • Rocco Ronchi, Zombie Outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus, L’Aquila, 2015.