Sono tutte ragazzate?
Non è così che ci pare

 

 

Ragazzi, libri e street art:
in alto, un lavoro di Tintho
(Walter Nomura),
un lavoro di anonimo (al centro)
e qui sopra di Jeff Aérosol
(Jean-François Perroy).

 

 

Ragazzi, libri e street art:
in alto, un lavoro di Tintho
(Walter Nomura),
un lavoro di anonimo (al centro)
e qui sopra di Jeff Aérosol
(Jean-François Perroy).


Di cosa parliamo quando parliamo di…
Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura per ragazzi?
Di cosa parliamo quando parliamo di televisione per ragazzi?
Di cosa parliamo noi adulti quando parliamo di ragazzi?
Con letteratura per ragazzi si intende “quel corpus di testi, in ampia misura narrativi, scritti da adulti esplicitamente per un pubblico di lettori compresi in una fascia tra i sei e i sedici anni circa” (Calabrese, 2013). Una letteratura quindi che parla di qualcosa e di qualcuno con un linguaggio e una visione di qualcun altro che ha vissuto quella determinata cosa (che risponde al nome di tenera infanzia o terribile e tremebonda adolescenza) minimo un decennio prima. Stesso discorso per i programmi televisivi: cartoni, giochi, documentari, serie televisive.
Noi adulti scriviamo e parliamo ai ragazzi della loro vita, di ciò che loro provano, di ciò che loro sentono, di ciò che non conoscono, di sesso, di morte, di amore, di coraggio, di paura.
Noi siamo i responsabili di tutto ciò che passa loro per la testa: siamo gli artefici dei loro sogni, intessuti favola dopo favola, fiaba dopo fiaba; siamo i pagliacci nei tombini, i Baubau nell’armadio buio, i ragni giganti in cantina; siamo la lanterna che illumina spazi sconosciuti e la bussola che li guida nel grande Oceano che è la vita.
Noi adulti siamo arroganti saccenti che sanno di cosa hanno bisogno i ragazzi, di che storie necessitano per crescere, di cosa devono guardare e di cosa non devono guardare, cosa devono sapere e cosa non devono sapere. Siamo noi adulti a decidere cosa devono leggere e vedere e siamo sempre noi adulti che scriviamo quello che altri adulti (forse più assennati o forse più bigotti) decidono di far leggere o vedere ai propri figli, nipoti, scolari e via dicendo.
Insomma noi adulti siamo anche un po’ ipocriti: facciamo, disfiamo, ci lamentiamo, critichiamo, poi scuotiamo la testa perché i ragazzini non leggono o guardano cose brutte e poi crescono male violenti drogati che picchiano gli anziani ed è tutta colpa della società; noi li abbiamo mandati nelle scuole migliori ma gli insegnanti cosa facevano adesso chi mi restituisce il mio bel bambino, insomma facciamo tutto noi. E i ragazzi? Cosa fanno i ragazzi?
Loro assorbono: se sono bambini pendono dalle nostre labbra, dalle nostre favole della buonanotte, dai nostri racconti, se sono adolescenti invece dai nostri rifiuti e dagli scontri che ne nascono. Vieta a un quattordicenne di leggere Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. e sarà il libro che saprà a memoria, consigliagli La paranza dei bambini di Roberto Saviano e lo troverai esattamente dove l’avevi poggiato tu, tra il computer e la lampada.
I ragazzi, nonostante tutto, hanno la buona creanza di comprendere che ci sono alcuni adulti, chi più chi meno, che hanno la capacità di scrivere e raccontare quello che passa loro per la testa. Ci sono adulti molto bravi nel farlo e altri che avrebbero potuto fare altro, ci sono adulti che parlano ai bambini come se fossero bambini, ma allo stesso tempo rispettandoli e trattandoli come persone intelligenti e non come raffazzonati balocchi di carne e ossa e soprattutto ci sono adulti che riescono a parlare ai ragazzi con estrema intelligenza e sensibilità, aiutandoli a capire un mondo che li circonda e talvolta li sommerge nella sua vastità e complessità.

“La letteratura è un simulatore di vita che ci consente di sperimentare situazioni difficili o pericolose in un contesto protetto, mettendoci così nelle condizioni di affrontare, se necessario, situazioni simili nella vita vera”.

Quelli che parlano sono i ragazzi volontari di Mare di Libri – Festival dei Ragazzi che leggono, i quali hanno scritto un libro intitolato Ci piace leggere! edito da add editore che non solo dovrebbe essere distribuito in tutte le scuole a tutti gli insegnanti (magari assieme a una copia di Come un romanzo di Daniel Pennac), ma dovrebbe essere letto da tutti: librai, editori, autori, scrittori, produttori e genitori. Tutti quelli che pensano di poter incrociare il loro percorso professionale, formativo o genitoriale dovrebbero leggere questo volumetto di nemmeno duecento pagine e comprendere quanto e come può essere utile ascoltare ciò che hanno da dire in merito i ragazzi che pensiamo ogni giorno di educare e crescere.

“Che pedagoghi eravamo quando non ci curavamo della pedagogia!”
(Pennac, 1993).

Leggere è formarsi. Nel bene e nel male tutti i libri per ragazzi e bambini, dagli albi illustrati ai romanzi, sono Bildungsroman: percorsi di educazione sentimentale oltre che di lettura critica del reale. Leggere permette di crescere senza dover cambiare taglia di vestiti e di viaggiare senza consumare le suole delle scarpe. Educare alla lettura è un dovere che travalica la storia della letteratura, che deve andare al di là del conoscere le risposte a Trivial Pursuit, ma è anche un dovere che noi tutti abbiamo nei confronti dei giovani e della cultura in generale. E il primo passo è non forzare la mano.

Un lavoro dell’artista Alice Pasquini a Civitacampomarano in provincia di Campobasso. Foto di Jessica Stewart.

Obbligare a leggere, imporre dei titoli, costringere a fare le schede di valutazione è controproducente oltre che togliere la voglia di leggere.
I ragazzi si allontaneranno da quel tomo, capace di divorargli tempo prezioso, capace di costringerlo a leggere e rileggere e rileggere ancora le stesse pagine del romanzo di Italo Calvino (Il barone rampante) nel tentativo disperato di capire perché Cosimo è salito su quel dannato albero. Cosa aveva da contestare? Sarà forse la nascita dello stimolo proletario anti-borghese che sfocerà nei moti rivoluzionari che saranno poi alla base della democrazia parlamentare che noi ora conosciamo e che è messa in crisi dai nuovi estremismi nascenti? O semplicemente gli andava di farlo?
E così, con la forza dell’imposizione, il lato oscuro prende il sopravvento e il barone rampante perisce, lassù nel dimenticatoio, poche righe scribacchiate su un post-it appiccicato alla bell’e meglio, giusto il tempo del compito in classe e così, la forza che forte nel libro è, si appassisce e muore inchiodato a un cinque meno e a una nota a lato del tema in cui si invita a scrivere meglio che persino un cane focomelico scrive meglio.
Ma Pennac ce l’aveva detto e i ragazzi di un Mare di Libri ce lo ripetono:

“Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo «amare…» il verbo «sognare…»” (Pennac, 1993).

Leggere è bello. Leggere è straordinariamente bello, poi se si legge un bel libro è ancora più bello e i ragazzi lo sanno o lo vorrebbero sapere. In Ci piace leggere! sono loro stessi a dirci che leggere è una delle cose più entusiasmanti e performative che ci possano essere.
Quante volte avete sentito dire: ma cosa stai chiuso qua dentro con questo sole, vai fuori! Oppure: te leggi sempre quei romanzetti là, ma la vita è altro! E quante volte avete annuito convinti? Eh sì, belli gli Harry Potter però la vita non si risolve certo con una magia! No, certo che no, non abbiamo una bacchetta magica noi, ma Harry forse non vive le stesse paure di un quattordicenne? Non perde qualcuno a lui molto caro? Non si innamora forse? Non ha paura forse? Non è forse quella la vita che c’è là fuori?

Leggere aiuta i ragazzi ad affrontare tutto o almeno li prepara. Non dobbiamo avere paura che tocchino argomenti che noi consideriamo scottanti come la morte, la violenza o il sesso. Se non parlano loro di sesso chi lo deve fare? Noi che siamo più vicini al colpo della strega che al colpo di fulmine? Non rifugiamoci dietro il nostro bigottismo se scopriamo che nei libri che leggono si parla di seghe, pompini o anale, perché è meglio che i ragazzi lo scoprano nell’intimità della loro camera leggendo qualche pagina o nei bagni di una discoteca? Non pensiamo che vietargli di leggere il capolavoro di Stephen King, It, o l’orwelliano 1984 li faccia vivere meglio, puri e lontani dall’orrore, perché l’orrore è là ad aspettarli. Se pensate che un film come Amabili resti di Peter Jackson (2009), sia troppo per una ragazzina di quindici anni come farà a riconoscere poi segnali di pericolo nel caso? Se non gli fate vedere la violenza in televisione, né leggerla nei libri come farà a scappare davanti a essa se dovesse presentarsi?

“Gli adulti non dovrebbero lasciarci nell’inconsapevolezza, ma piuttosto metterci nelle condizioni di riflettere, di conoscere e di discutere. Leggiamo perché non sarà certo l’ignoranza a proteggerci” (Mare di Libri, 2018).

I ragazzi sono più coraggiosi di noi, ma pretendono da noi rispetto. Se vogliamo mostrare loro la vita al di là delle pareti domestiche, al di là dello schermo della televisione, dello smartphone e del libro stesso, cominciamo a trattarli come esseri senzienti, dotati di una loro intelligenza e sensibilità. Non trattiamoli come stupidi, ma allo stesso tempo non lasciamoli soli: aiutiamoli nel loro percorso, leggiamo i loro libri, conosciamo i loro gusti e se non riteniamo di voler affrontare argomenti scomodi direttamente con loro come il sesso o il suicidio, facciamogli capire che in caso saremmo là ad ascoltarli, così come loro sono stati in grado di ascoltare quello che il libro aveva da dire. Ci piace leggere! è un libro che tutti dovremmo avere il piacere di leggere, per capire e comprendere che la letteratura per ragazzi è tutto fuorché letteratura di serie B e che, al contrario, merita più attenzione e importanza di quella, definita, per adulti. Un ragazzo e una ragazza di tredici anni hanno più possibilità di leggere di un adulto di cinquant’anni, ma non perché il ragazzo e la ragazza hanno più tempo rispetto all’indaffarato cinquantenne.

“Dove trovare il tempo per leggere? Grave problema. Che non esiste. Nel momento in cui mi pongo il problema del tempo per leggere, vuol dire che quel che manca è la voglia”
(Pennac, 1993).

La realtà è che i ragazzi sono più disponibili ad ascoltare storie e a imparare da esse, i grandi invece di storie non ne vogliono più sentire e hanno bisogno solo di realtà e concretizzazione, come se quello che si legge tra le pagine di un libro fosse solo finzione e non vita anch’essa. Il mondo si divide principalmente in due emisferi: chi pensa che la vita sia là fuori e va vissuta, direttamente, in faccia e a mani nude e chi invece pensa che alcuni strumenti possano aiutare a comprenderla meglio e a sentirsi meno soli e storditi. C’è chi pensa che gli altri siano dei deboli e chi pensa che gli altri invece siano degli zoticoni. C’è chi pensa che i libri siano delle perdite di tempo come la tv e i videogiochi e chi li fa è un perdigiorno e chi pensa invece che siano opere d’ingegno e chi li fa dei geni. Ai posteri l’ardua sentenza.

Lavoro di Alice Pasquini realizzato a Vitry-sur-Seine, Francia.

Le serie tv sono complici o assassine della lettura?
Vi è tra i due eserciti dei realistici e sognatori uno scontro interno, una schermaglia che va avanti da decenni e che si è inasprita ulteriormente con l’arrivo di piattaforme digitali e di streaming come Netflix. È una lotta intestina dell’esercito dei sognatori che vede fronteggiarsi gli amanti dei libri contro quelli delle serie televisive: i primi accusano i secondi di farsi friggere il cervello dalla tivù (o dai vari device) senza apprezzare la possibilità di spaziare con la mente grazie ai libri, mentre i secondi fanno spallucce e scaldano i pop-corn che a leggere c’è sempre tempo (basta vedere la pila di fumetti in bagno) mentre se non stai dietro alle uscite poi ti si accumulano e ti tocca stare sveglio fino a tardi per recuperare. Ma la televisione prima e le serie tv ora sono veramente i nemici della lettura? Sono più pericolose dell’analfabetismo? Delle coercizioni scolastiche e delle schede di valutazione? Del do ut des genitoriale: ti restituisco il cellulare se leggi almeno trenta pagine? È vero che il tempo che magari qualcuno poteva dedicare a leggere qualche pagina di un buon o cattivo libro ora è occupato da una puntata di una buona o cattiva serie tv, ma a quel punto ritorniamo al concetto espresso da Pennac in precedenza: se devi trovare il tempo per leggere hai già tra le mani il problema.

“Il tempo per leggere è sempre tempo rubato (come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare). Rubato a cosa? Diciamo, al dovere di vivere.” (Pennac, 1993).

E allora riempiamo il dovere di vivere con tutto: scuola il tempo pieno fino alle quindici, poi piscina il lunedì e mercoledì, violino il martedì e karate il giovedì, ma prima corso intensivo di inglese e francese, poi casa per i compiti che bisogna fare tutto così da partire venerdì per la montagna e avere sabato la scuola di sci tutto il giorno, domenica rigoroso pranzo di famiglia e poi su esci che stai sempre in casa o in palestra che poi mi diventi gobbo e pallido che pari quello là di Silvana e della nebbia ai mirtilli corvi. È veramente la televisione il nemico pubblico numero uno del libro? D’altronde non lavorano tutt’e due nella stessa squadra? Non sono forse tutt’e due dei cantastorie? Se abbiamo ammesso che la letteratura ha una forza comunicativa diretta e indelebile per i ragazzi, possiamo considerare questo potere intrinseco anche nella serialità televisiva (nel cinema la potenza è inferiore solamente perché non vi è la possibilità di fidelizzarsi e fraternizzare con i protagonisti). Chi ha detto che le serie tv non possono parlare al cuore e al cervello dei ragazzi?
Vi sono serie tv che hanno fatto storia e andrebbero studiate ai corsi di Storia della televisione all’università per l’impatto sociale e culturale di intere generazioni.
La possibilità di seguire le vicende giorno dopo giorno dei personaggi ha permesso di crescere con loro e affrontare con loro le problematiche. Se nel libro la lettura permette una fruizione lenta del prodotto, il soffermarsi su ogni parola e ogni pensiero tanto da farlo proprio, nella serialità televisiva è tutto più veloce, ma allo stesso tempo la dilatazione temporale su più slot narrative e la possibilità di esplorare le psicologie dei personaggi permettono e promettono un’intensa immersione.

Osservare vuol dire anche crescere
Vi sono delle serie che hanno rappresentato generazioni, influenzato i giovani e mostrato agli adulti uno spaccato sociale realistico (nei limiti della finzione) e sfaccettato, serie come Dawson’s Creek e il suo ababaduwey della sigla (qualcuno avrebbe poi felicemente decifrato quello che sembrava un canto ewok in “I don’t want to wait for our lives to be over”). Dawson’s Creek prende in mano il testimone da un morente Beverly Hills, 90210 e accompagna fino al 2003 un’intera generazione di liceali che si sono commossi, hanno pianto (tanto), riso (poco) grazie alle storie di Dawson, Joey, Peacy e Jen.
Amori contrastati, sesso, dipendenza, omosessualità, tutto. Dawson’s Creek ha parlato di tutto, e si parlava tanto in Dawson’s Creek: “i personaggi parlano di quello che provano, di quello che vorrebbero fare, di quello che hanno passato e di tutto quello sta loro capitando” (Marino, Gotti, 2016).

Oppure Buffy l’Ammazzavampiri (1997-2003) che prende lo stereotipo della material girl del college bella, bionda e perfettina e la trasforma in una cacciatrice di forze oscure. Forze talvolta troppo più grandi di lei e che riesce a sconfiggere solo grazie all’amicizia (immenso topos delle narrazioni per adolescenti e bambini): quella con Willow la maga dei computer e futura potentissima strega, nonché protagonista di una storia d’amore con un’altra ragazza che ha fatto di Buffy una serie d’avanguardia (tanto da essere censurata da Italia1); Oz il primo vero amore ma che in realtà è un licantropo “ma dopo il suo drammatico coming out gli amici gli vorranno bene come prima” (ibidem); l’estroverso Xander con la sua love story con un ex demone della vendetta; Angel il vampiro che non brilla ma con l’anima che è destinato a perdere tutto per una maledizione e Spike, altro amore e altra corsa di Buffy, che da spietato vampiro diventa un alleato prezioso (anche dal punto di vista sentimentale). Buffy l’Ammazzavampiri prende i cliché dei licei americani (che sono micromondi universali uguali nelle loro dinamiche alle scuole francesi, italiane, tedesche, se non per qualche dettaglio come i balli di fine scuola e la squadra di football fatta di arroganti bastardi) e li stravolge e, allo stesso tempo, li usa per parlare di quello che i ragazzi provano e sentono ogni giorno. Omosessualità, paura del diverso e dell’essere diverso, amori proibiti e amori impossibili, vendette spietate per cuori spezzati, questo riusciva a mettere in scena Buffy ed è per questo che ha avuto il successo che ha avuto: “i mostri dovevano poter funzionare anche da metafora del disagio e delle paure che si provano quando si fanno le superiori” (ibidem).

“Mamma, devo uscire stasera, è davvero importante”.
“Lo so. Se non esci è la fine del mondo. È tutta una questione di vita o di morte quando si hanno sedici anni.”
(Buffy l’Ammazzavampiri, 1997-2003).

Il liceo è una terra fertile per la serialità televisiva. Le scuole superiori americane poi diventano specchio di quella realtà addirittura a livello globale, se non mondiale almeno occidentale. I corridoi con gli armadietti, i balli di fine anno, i laboratori dove si può accedere tranquillamente, professori sempre disposti al dialogo, psicologi, campi da atletica e football enormi, cheerleader e giocatori, nerd e reietti, è tutta roba che in altre realtà scolastiche non ci sono o almeno non così. Gli Stati Uniti e l’Italia sono incredibilmente diverse nei loro micromondi scolastici, estranee l’una all’altra, eppure ci sono delle storie comuni, dei momenti di vita simili per tutti i ragazzi; se i particolari sono differenti i generali sono simili per tutti: “Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?” accusava Shylock nel Mercante di Venezia. E non è forse così?

Un bullo che picchia un ragazzino grassottello nei bagni della scuola, che abbia una divisa da atleta o un paio di pantaloni con il risvoltino e la sigaretta dietro l’orecchio, lo farà comunque sempre sanguinare nello stesso modo. E il colore del sangue sarà lo stesso che sia americano, italiano, francese, cinese, tunisino. Padri violenti che picchiano mogli e figli non ci sono forse dappertutto? Giovani ragazzi che si trovano a essere scherniti per l’orientamento sessuale, costretti a nascondersi e a fuggire fino a tragici gesti non occupano le pagine di tutti i giornali?
I problemi dei ragazzi sono sempre gli stessi, per questo le serie televisive statunitensi, che hanno sempre imposto la loro egemonia culturale sul mondo occidentale, sono apprezzate e comprese e amate da ragazzi che vivono in un’altra dimensione e in un’altra realtà. La serie 13 Reasons Why (tratto tra l’altro da un libro intitolato 13, scritto da Jay Asher, molto meno brodoso e più interessante) è un esempio calzante di come può una ragazzina morta suicida in una piccola cittadina americana parlare a tutti.
Le cassette di Hannah Baker sono uno scossone emotivo per la città, per il liceo, per i suoi ragazzi ma anche per tutti quelli che guardano la serie televisiva: il mondo dei giovani è un mondo difficile fatto di rabbia, risentimento, dolore, le violenze psicologiche e fisiche e anche sessuali non sono rare in un momento della crescita dove tutto può sembrare senza fine, eterno e dolorosamente senza senso.
Gli anni delle superiori sono i più delicati e formativi, trasformano un ragazzo nell’uomo e nella donna che saranno, sono il primo assaggio di vita vera e la scoperta che, finito il fantastico mondo dell’infanzia, la vita per la maggior parte del tempo fa schifo. Eppure è la vita e va mostrata ai ragazzi per far capire che non sono solo loro a provare quei sentimenti, che non sono solo loro a trovare difficile vivere quel momento della loro vita, ma è un momento pieno di dubbi e paure che accomuna tutti i ragazzi della stessa età. Tuttavia se lo dicono gli adulti nessuno ci crede, invece se lo dice la televisione qualcosa di vero ci dovrà pure essere.

La serialità televisiva per ragazzi non deve essere per forza un focus sulle problematiche esistenziali che spingono a trovare tredici ragioni per cui si sta guardando questa serie tv. Nella serialità per ragazzi c’è spazio anche per l’avventura come nel ben riuscito Trollhunters di Guillermo del Toro (già conosciuto per lo straordinario Il labirinto del fauno da vedere per capire quello che la fantasia di una bambina può fare), ma soprattutto come l’immortale e immaginifico Doctor Who.
L’idea del Dottore più conosciuto dell’Universo e della sua cabina blu nasce grazie a Verity Lambert che, chiamata a riempiere un buco nella programmazione, diede forma all’idea di Sydney Newmann: uno show per famiglie basato sulla figura di un dottore non si sa bene in cosa.

“Verity Lambert era destinata a diventare una delle donne più potenti dello showbusiness britannico, ma prima doveva vincere i pregiudizi dei colleghi maschi e, con un budget ridicolo, portare a casa un prodotto educativo che mostrasse ai bambini eventi storici importanti ed esplorasse i temi scientifici più attuali con il pretesto dei viaggi nel tempo” (Marino, Gotti, 2016).

Fu così che nacque uno dei programmi più longevi della storia della televisione, che vide alti e bassi, ma che con la sua storia decennale ammalia bambini e non con il suo approccio “sci-fi intriso di estetica fanciullesca, design retrò e humour inglese” (Marino, Gotti, 2016). Doctor Who, soprattutto nella nuova versione degli anni Zero che vede al timone uno Steve Moffat già in odore di Sherlock, è un esempio eccellente di come la televisione per ragazzi possa far emozionare, commuovere, spaventare con storie intelligenti e fantasiose. Forse non nelle corde degli adolescenti, il Dottore è capace di far sognare chi è disposto a farlo, per lo più bambini e grandi che vorrebbero ogni tanto tornare a esserlo, poiché quello che veramente è da invidiare ai più piccoli è il senso di meraviglia che provano di fronte a tutto. Senso di meraviglia che per motivi empirici il grande è destinato a perdere: forse per questo le prime esperienze non si scordano mai.
Forse qualcuno ritiene che Doctor Who sia solo per bambini oppure che sia troppo complicato per loro, eppure come dice Moffat:

“I ragazzini di otto anni non sembrano avere alcun problema con la serie. Leggono libri lunghi e complessi mentre twittano o giocano al computer allo stesso tempo. Dobbiamo stare un passo avanti a loro. Oggi la guardano molto di più i grandi, certo, ma se alla fine della sigla di apertura ci si sente ancora adulti, significa che non si sta prestando attenzione” (Harrison, 2013).

Il Dottore è molto vecchio (è un alieno semi-immortale che si rigenera con due cuori) e ogni tanto può sembrare eccessivo: può cadere talvolta nell’infantilismo della Melevisione, altre presentarsi e presentare le storie con effetti speciali che andavano bene vent’anni fa, mostri che si potevano trovare nelle serie tv come Piccoli Brividi, e trovate stravaganti; tuttavia presenta nel suo percorso delle idee geniali, dei personaggi indimenticabili, delle emozioni profonde e mature. Vi sono delle puntate di estrema bellezza e di estrema intelligenza che andrebbero fatte guardare come per esempio Vincent and the Doctor, dove il Dottore e Amy, insospettiti da un mostro dipinto in un famoso quadro di Van Gogh (L’Eglise d’Auvers-sur-Oise), decidono di aiutare il famoso pittore: l’avventura sarà un modo per conoscere meglio un personaggio tanto affascinante quanto disturbato.

La puntata è un omaggio di Richard Curtis (per dirne due: Quattro matrimoni e un funerale, I Love Radio Rock) a Van Gogh, alla sua persona delicata e grandiosa, alla sua malattia, al pregiudizio a cui era soggetto e alla sua estrema solitudine, caratteristiche che si ritrovano anche nel mostro da sconfiggere, ma che solo Vincent può vedere e ciò spiegherebbe in parte la sua presunta follia e, allo stesso tempo, eleva il pittore a essere sensibile e capace di vedere cose che altri non vedono, come fanno i bambini. Il Dottore ci invita a vedere con i loro occhi, a non essere sempre grandi e noiosi:

“Significa: vieni con me”
“Dove?”
“Ovunque tu voglia.”
[…]
“Quindi, vieni?”
“No…”
“Volevi venire quattordici anni fa.”
“Sono cresciuta…”
“Non ti preoccupare. Presto rimedierò.”
(Doctor Who: The Eleventh Hour, 2010).

Il nostro dovere e il nostro impegno
Impariamo ad apprezzare noi per primi il bello di essere ragazzi e bambini, impariamo ad apprezzarne il valore e la necessità, per crescere c’è sempre tempo, c’è un mondo intero che li costringerà a crescere e a diventare noiosi. Ci sarà un lavoro a farlo, ci saranno le bollette da pagare, le rate del mutuo, la morte di qualcuno a loro caro, ci saranno tante cose che gli faranno rimpiangere di essere cresciuti, ma fino ad allora permettiamo loro di essere quello che sono ossia tutto quello che vogliono essere.
Investiamo nella letteratura, nel cinema e nella televisione, diamo loro la possibilità di avere prodotti validi, originali, che li aiutino e li educhino. Siamo responsabili degli adulti del futuro, siamo i responsabili della terra su cui viviamo e dell’Universo che esploriamo, siamo noi che dobbiamo trasformarli in esseri umani, fallaci e perfetti allo stesso tempo.

Parziale di un lavoro di Julien Malland in arte Seth realizzato in Ucraina per Unicef e intitolato Per Aspera ad Astra.

Noi siamo i custodi della loro cultura e quindi del loro futuro, non sprechiamo questa occasione di rendere il mondo un posto migliore.
Libri, racconti, film, serie televisive sono mappe e carte nautiche, alcune un po’ fantasiose con mostri serpenteschi disegnati ai margini, altre più accurate e precise; insegnanti, genitori, autori, sono bussole che indicano la rotta ed evitano flutti pericolosi. Dobbiamo insegnare ai più giovani a essere marinai coraggiosi, impavidi di fronte alla paura di annoiarsi e sordi a sirene negazioniste. Dobbiamo aiutarli a costruire la loro nave, che da scialuppa diverrà sempre più vascello, così da poter sopportare i venti della modernità e non far loro stracciare le vele dal terrore e dall’ignoranza.
Raccontare è il modo migliore che abbiamo di aiutarli: d’altronde si sa che per far diventare capitano un mozzo serve una buona storia.

Letture
  • Mario Bellina, Scrivere per l’animazione. Progettare e sceneggiare un prodotto animato per cinema e tv, Dino Audino Editore, Roma, 2018.
  • Stefano Calabrese, Letteratura per l’infanzia. Fiaba, romanzo di formazione, crossover, UBM-Università Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2013.
  • Le ragazze e i ragazzi di Mare di Libri, Ci piace leggere!, add editore, Torino, 2018.
  • Matteo Marino, Claudio Gotti, Il mio primo dizionario delle Serie Tv Cult. Da Twin Peaks a Big Bang Theory, Becco Giallo, Sommacampagna, 2016.
  • Daniela Palumbo, Cos’è la letteratura per ragazzi?, IBBY Italia, Bologna, 2018.
  • Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1993.
  • Manuela Salvi, Scrivere libri per ragazzi. Manuale di scrittura creativa per autori non affetti da adultità, Dino Audino Editore, Roma, 2011.
Visioni
  • Brian Yorkey, Tredici, Netflix, Stati Uniti d’America, 2017 – in produzione.
  • Guillermo del Toro, Trollhunters: I racconti di Arcadia, Netflix, Stati Uniti d’America, 2016-2018.
  • Joss Whedon, Buffy l’Ammazzavampiri, The WB e UPN, Stati Uniti d’America, 1997-2003.
  • Kevin Williamson, Dawson’s Creek, The WB, Stati Uniti d’America, 1998-2003.
  • Steven Moffat, Doctor Who, BBC, Regno Unito, 2005 – in produzione.