m05.jpg Rielaborazione di Picnic, Fernando Botero, 1989, cm. 175 x 132, Private Collection

SLITTAMENTI PROGRESSIVI
DEL PIACERE
E DELLA PRIVAZIONE

di Fiorenza Gamba


Il cibo è sottoposto ad un superlavoro simbolico che pare non potersi arrestare mai. Così, a fasi alterne e ripetutamente, esso è stato inteso come istanza culturale, come indicatore di distinzione sociale (Bourdieu, 1983), come strumento di regolazione delle relazioni di gruppo, come nodo nevralgico dei disturbi nella relazione madre/figlio o, più in generale, comportamentali, come veicolo di ideologie, come oggetto di interdizioni o concessioni religiose (Levi-Strauss, 1974; Douglas, 1975) e di molto altro ancora. In altri termini la preparazione, la somministrazione e il consumo degli alimenti sono sempre stati – e sono ancora – connotati da uno speciale significato, variabile con il variare dell’osservatore e del contesto d’analisi.
Piacere e privazione sono due condizioni, opposte e complementari, legate al cibo e connotate a partire dalla società moderna fino ai nostri giorni. 
Il piacere è indubbiamente legato alla soddisfazione sensibile, alla concessione generosa nel consumo, anche all’eccesso, ma la sua vocazione alla ricerca raffinata, elevata di sensazioni esclusive e di significati traslati, si diffonde e acquista la propria legittimità con l’affermarsi della gastronomia. Pellegrino Artusi illustra chiaramente questa immediatezza del piacere sensibile declinata in forma sublime di arte attraverso i precetti della gastronomia. Il gusto, assieme al tatto, senso della conservazione, è anche più importante dei “sensi della cerebrazione” come la vista e l’udito; e la gastronomia in quanto arte consente di mettere sullo stesso piano “una dissertazione sul sorriso di Beatrice” e “una discussione sul cucinare l’anguilla”, e di riabilitare il senso del gusto poiché “ce ne dà i precetti” (Artusi, 2010).
Nella Modernità erede dell’Illuminismo e del Positivismo, delle loro idee di dominio della Ragione e di capacità del Progresso di migliorare le condizioni di vita dell’uomo, la maggior parte della popolazione inurbata vive in condizioni disastrose: ambienti malsani, igiene precaria, nutrizione insufficiente. Un panorama che mostra chiaramente come il rapporto con il cibo sia sostanzialmente un rapporto di privazione: una risorsa scarsa che svolge la funzione quasi esclusiva di riproduzione delle energie necessarie al corpo per produrre forza/lavoro. La società rurale presenta aspetti del tutto simili: in primo luogo perché il cibo, in linea teorica facilmente disponibile sotto forma di materia prima, in realtà è soggetto a diversi fattori che possono renderlo scarso come le condizioni atmosferiche, le carestie e le epidemie; in secondo luogo perché esso è la merce che assicura il reddito piuttosto che un bene disponibile a piacere. 
In questa situazione di privazione generalizzata, il cibo tuttavia intensifica il proprio legame con il piacere. Sia dal punto di vista di un sistema socialmente regolato, sia da quello di un calendario essenzialmente definito. Nel primo caso il cibo diventa elemento di distinzione sociale, di manifestazione di uno status, di esibizione di privilegi (Veblen, 1979) proprio attraverso la ricerca del piacere che corrisponde all’esecuzione di preparazioni raffinate ed elaborate, anche esotiche; ma che è assicurata dalla presenza di un officiante della trasformazione dell’alimento in piacere, vale a dire il cuoco. Averne uno al proprio servizio, indica una posizione sociale di rilievo, di livello superiore: il cuoco infatti rientrava nel personale di servizio di famiglie, aristocratiche prima e borghesi poi, come ad esempio i Monzù campani o siciliani. Al tempo stesso il cuoco regola l’accesso ad un territorio sacro, contiguo talvolta alla creazione artistica, riconoscibile per l’uso di uno spazio esclusivo e separato (la cucina), di oggetti e abbigliamento specifici (mestoli, fruste e coltelli; l’immancabile cappello o il famoso cordon bleu), per la pratica di azioni rituali quasi magiche (montare a neve, chiarificare il burro, legare una salsa) e l’uso di termini, prevalentemente di derivazione francese, comprensibili solo agli iniziati (aspic, salmì, roux, chiffonade, concassé).  Ma anche qualora si rimanga nel contesto comune, alcuni eventi del calendario popolare – contadino o meno – come ad esempio il matrimonio, la nascita, il raccolto e le ricorrenze religiose, agiscono come interruzione della privazione per ristabilire un accesso diretto e non controllato al piacere del cibo. In questo caso il piacere non è così direttamente riferibile alla ricercatezza, ma piuttosto all’abbondanza (quantità) e al consumo condiviso.
Ciò che appare chiaro è che nella Modernità la privazione è uno stato esogeno all’individuo, non volontario, al quale il piacere riesce ogni tanto a sottrarre, temporaneamente, delle piccole roccaforti: detto altrimenti il cibo è un piacere raro e in quanto tale destinato a pochi.

 

Anche nella nostra società attuale – inevitabile evoluzione o fallimento di quella moderna? –, per intenderci, anche nella postmodernità, il rapporto tra piacere e privazione rimane molto forte, assumendo però una dimensione e un senso del tutto nuovi. Se la scarsità del prodotto alimentare è un problema superato nella nostra società occidentale, se l’uomo non è più un corpo mantenuto efficiente per produrre forza/lavoro, ma un dispositivo postmoderno per suscitare sensazioni, come lo definisce Zygmunt Bauman (1999), in che modo permane la privazione e come si lega al piacere? L’abbondanza e la disponibilità del cibo, a partire da un certo momento che è coinciso con il secondo dopoguerra, indurrebbero a pensare ad una diffusione generalizzata, addirittura ad una democratizzazione che sconfina nell’assuefazione, nell’indifferenza. Per certi aspetti è stato così: il cibo diventa un bene di consumo che testimonia l’uscita dalla precarietà e dalla scarsità del periodo bellico proprio quanto più risponde ai criteri della produzione industriale, dell’omogeneità e dell’omologazione, della grande distribuzione e della facilità di conservazione; in altri termini è uno dei mezzi che confermano la realizzazione del progresso e il raggiungimento del benessere.
Ma proprio in questa facilità del consumo, anche esagerato, si manifesta il riemergere della privazione, ed è paradossalmente proprio da questa nuova condizione che il piacere prende il sopravvento in una forma tutta nuova. Infatti, se nella Modernità la privazione era subita, contingente, nella Postmodernità essa è volontariamente ricercata e sapientemente equilibrata. Il sovrappeso ed alcune patologie ad esso legate, nonché un rapido mutamento dei canoni estetici del corpo, inducono ad una ricerca volontaria, ancorché orientata da sistemi esperti, di mezzi di costrizione e privazione efficaci, sebbene spesso difficili da seguire, capaci di fare raggiungere l’ideale forma fisica: le diete. Di conseguenza, anche il piacere procurato dal cibo si trasforma, e da segno di distinzione sociale o celebrazione rituale, diventa principalmente luogo di una ricerca personale che contribuisce a costruisce l’identità dell’individuo tramite l’adesione volontaria a specifici stili di vita ritenuti desiderabili sulla base di una narrazione del sé che coinvolge l’uomo come unità autodeterminata (Giddens, 1999). E se il piacere alimentare è ancora un’esperienza legata alla raffinatezza del gusto, questo si declina come autenticità (termine semanticamente ancora più forte di quello di qualità). La Modernità e le sue propaggini ricercavano il piacere nell’artificio, nella costruzione del sapore, nell’architettura degli elementi, e talvolta anche nella quantità; la Postmodernità ritiene che esso si trovi nell’essenzialità, nella sottrazione del superfluo, nell’originarietà del prodotto. Sia da un punto di vista visuale che da un punto di vista concettuale tanto più l’una è barocca e opulenta tanto più l’altra è minimalista, talvolta fino all’eccesso, come per esempio la nouvelle cuisine o la cucina molecolare.
In modo diverso rispetto alla Modernità, nella Postmodernità la privazione è uno stato prodotto in maniera endogena dall’individuo – è auto inflitta – necessaria ad una maggiore esaltazione del piacere come ricerca, materialmente disponibile ma solo culturalmente realizzabile: il cibo è un piacere raffinato e autentico solo per coloro i quali sono in grado di intraprendere un percorso culturale (Gamba, 2009).
Nella Modernità piacere e privazione si sono disposti secondo un’alternanza esclusiva – spaziale o temporale – in cui l’uno elide l’altra, dando vita a una composizione complementare. Nella Postmodernità piacere e privazione sono invece i due atteggiamenti compresenti di un comportamento nei confronti del cibo che si potrebbe definire schizoide, tale per cui l’indulgenza edonistica alla percezione dei sensi, sicuramente prevalente e visibilmente più diffusa, incorpora allo stesso tempo un prezzo da pagare che si stigmatizza nella dieta, la quale non può sfuggire ad una trasfigurazione estetica che la rende desiderabile quasi quanto il piacere del cibo. Detto altrimenti il cibo è un piacere raggiungibile a condizione che si seguano le tappe di un percorso mai concluso. Nella contemporaneità, e almeno fino ad ora, tutto si complica: il piacere è il risultato paradossale, faticoso e quasi obbligatorio di una doppia valenza che si alimenta nel cuore di quella svolta sensibile che così bene ci definisce e che rientra nei caratteri della Postmodernità. Si tratta di un piacere affatto spontaneo, che viene gestito da diversi officianti per il bene, anzi per il piacere dell’individuo: gastronomi, enologi, critici, nutrizionisti e dietologi.
Ma si diceva, appunto finora. Ora che tutto si trasforma, si cancella e precipita, abbiamo perso anche la certezza dell’incertezza e della contraddizione a cui la Postmodernità così stabilmente transitoria ci aveva abituati. Forse questo ci obbligherà ad intrattenere un rapporto ancora diverso con il cibo: abbandonata la sovra-estimazione, l’intellettualizzazione e l’estetizzazione, ma ancora memori di tutto questo e quindi attenti alla sua integrità e alla sua autenticità, senza precipitare in privazioni esogene, cominceremo a considerarlo con saggezza un tesoro da non sprecare e magari anche da condividere seguendo sobrie e più dimesse regole del buon senso, come già alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi profeticamente suggeriva. Nella Prefazione alla trentacinquesima edizione della sua opera culto La scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene si legge: “Cieco chi non lo vede! Stanno per finire i tempi delle seducenti e lusinghiere ideali illusioni e degli anacoreti; il mondo corre assetato, anche più che non dovrebbe, alle vive fonti del piacere, e però chi potesse e sapesse temperare queste pericolose tendenze con una sana morale avrebbe vinto la palma” (Artusi, 2010).

 


 

LETTURE

× Artusi Pellegrino., La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Edizioni BUR, Milano, 2010.

× Bauman Zygmunt, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.

× Bourdieu Pierre, La distinzione, Il Mulino, Bologna, 1983.

× Douglas Mary, Purezza e pericolo: un’analisi dei concetti di contaminazione e di tabù, Il Mulino, Bologna, 1975.

× Gamba Fiorenza, La portata… dissacrante del postmoderno, “Quaderni d’altri tempi”, anno V, n. 20, maggio-giugno, 2009.

× Giddens Anthony, Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999.

× Levi-Strauss Claude, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1974.

× Veblen Thorstein, Teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 1979.