Narrativo e coinvolgente,
ovvero, il museo necessario

Il Museo Nazionale d’Arte Medievale
e Moderna  di Arezzo è un esempio emblematico del declino del piccolo museo, uno dei tanti presenti in Italia, ricchi di tesori d’arte. Nello specifico, il museo aretino ospita capolavori d’arte medievale toscana costituiti
da croci in legno e bassorilievi.

Il Museo Nazionale d’Arte Medievale
e Moderna  di Arezzo è un esempio emblematico del declino del piccolo museo, uno dei tanti presenti in Italia, ricchi di tesori d’arte. Nello specifico, il museo aretino ospita capolavori d’arte medievale toscana costituiti
da croci in legno e bassorilievi.


Partecipazione, territorio, sperimentazione. Queste sono le parole d’ordine che definiscono il museo, al punto che si potrebbe dire che un fattore evidente del dinamismo che caratterizza il processo di globalizzazione che stiamo vivendo è dato dall’uso che facciamo di questa parola anche in ambito culturale. Le riflessioni spesso preoccupate per l’unificazione e appiattimento intellettuale imposte da questo paradigma si alternano a quelle tese a rivalutare la cultura locale, spesso intesa come processo compensatorio. Dall’altra parte e (forse paradossalmente), anche la rete è vista come il mondo dell’apertura, delle differenze e dell’individualismo, e contemporaneamente come espressione dell’unificazione dei sistemi del sapere. Il dibattito è interessante. Il pericolo invece sta nel valutare la globalizzazione solo come problema, escludendo le possibili soluzioni. L’impasse dunque si riflette nel ruolo, spesso rinunciatario e dimesso, che in provincia coinvolge alcune istituzioni un tempo ritenute essenziale strumento di cultura come appunto il museo.

Quando, per esempio, si tratta di raccolte di modeste dimensioni, è necessario sommare all’incapacità di stare al passo con la progettualità più all’avanguardia l’immodestia di assumere un atteggiamento di disinteresse verso gli utenti, concepiti solo come consumatori d’entrate. Al contrario, l’evoluzione dell’istituzione museale nel corso dei secoli e le attuali innovazioni tecnologiche lasciano vedere quanto proprio in questi ultimi anni siano in atto trasformazioni radicali nel ruolo del museo. Sia relativamente alla questione del coinvolgimento del pubblico, sia nella percezione stessa dell’oggetto contenuto nel museo che della volontà di ampliare gli utenti in un confronto più serrato. Stiamo assistendo a una vera mutazione genetica costituita da un fenomeno dalla duplice modalità interpretativa nella quale un museo online è vivo e vegeto, mentre quello reale lo è sempre meno. Quando c’è una curatela, il museo online è visitato da milioni d’utenti con modalità di ricezione simili a quelle reali dell’opera esposta, mentre quando lo stesso museo è reale e tridimensionale, ma senza curatela, approcci di mediazione o brand-name, rischia l’estinzione.

Il museo che muore è solo quello reale
Il fenomeno è così esteso che gli addetti ai lavori parlano già da qualche anno della morte dei musei. Ora ad accorgersene non sono solo gli studiosi o gli specialisti ma anche il pubblico di passaggio. I musei muoiono perché è venuto a mancare il ruolo e la funzione tradizionali. Muoiono perché sempre più spesso vengono sostituiti da nuovi servizi che offrono nuove esperienze. Muoiono perché non raccolgono le sfide e disconoscono le visite al museo più all’avanguardia come quelle con contenuti diffusi sulla messaggistica in chat. Non hanno né conoscenza né finanziamenti utili all’offerta di servizi che si comportano come assistenti personali proattivi e che in automatico forniscono tutte le informazioni. Non c’è uno staff di professionisti che faccia uso di canali IGTV per i social più diffusi o delle tecnologie Beacon.

Il  sito del museo Mart di Rovereto.

Queste ultime per esempio, adottate da alcuni musei d’arte contemporanea come il Mart di Rovereto, attivano giochi con i bambini in visita attraverso il cellulare, raccontando la storia delle opere, il contesto socio-culturale nel quale sono state realizzate o svelandone i dettagli tecnici con un linguaggio adatto a questa tipologia d’utenti. 
Ognuna di queste tecnologie rappresenta il volto di un marketing apparentemente non invasivo ma presente che amplia la visibilità del museo avvalendosi del successo dell’opera nei social sostituendo così il significato e l’esigenza di pannelli, cartelli o dépliant. A questi strumenti si aggiunge da qualche anno Google Arts&Culture, piattaforma di raccolta immagini ad alta risoluzione a servizio di musei. 
A partire dal 2011 la piattaforma ha dato accesso ad oltre 15 mila musei, per un totale di sei milioni di opere d’arte digitalizzate con quasi diecimila luoghi d’interesse storico-artistico, come teatri e palazzi storici censiti e visitabili in tour virtuali di grande fascino. Tour che possono essere paragonati alle esperienze di RV quando permettono di immergersi nelle opere d’arte o fare ricerche tematiche per collezione, colore o per periodo storico.

Trasformare le antiche tare
Paradossalmente, in un rapido confronto tra le tipologie di musei virtuali e online con i musei reali è possibile vedere come i primi sentano la necessità di implementare continuamente i propri servizi mentre gli altri vengono soffocati proprio da quel loro essere luogo “di studiosi per studiosi”. 
Questa situazione di separazione di competenze è ancora oggi acuita nei musei reali italiani di provincia dove incontriamo altri fattori divisivi, come ad esempio la mancata percezione da parte del grande pubblico del contesto originario dell’opera. All’interno di un museo che rischia l’estinzione, cioè, l’opera d’arte è sistemata in una sala in cui valgono comportamenti e criteri di lettura molto diversi dal contesto nativo. 
L’osservatore attento e lo studioso conoscono ovviamente questi dati così come le precise correlazioni e trasmissione di messaggi specifici dell’opera. Al visitatore, invece, rimangono solo i pannelli esplicativi o al massimo le audioguide per avere accesso a quel complesso panorama di conoscenze. Essere un museo che non muore non significa però attivare ogni sorta di tecnologia. Significa invece far sì che ogni visitatore possa avere approfondimenti tematici, riflessioni teoriche, mostre temporanee o servizi di prim’ordine come accade nei musei reali italiani o cinesi che pur non essendo sempre presenti nel web, non per questo sono poco attivi.

Interno della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino.

Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino significa dare l’opportunità a ogni visitatore di trasformarsi in un narratore significativo grazie ai percorsi di storytelling attivati al fine di creare percorsi su misura. Così come accade già dal 2004 al Manchester Museum di Londra. Prendendo spunto dalle narrazioni dagli oggetti esposti nel museo, le performance collettive che gli utenti inglesi hanno realizzato a seguito di laboratori divertenti, hanno prodotto racconti d’arte dalla grande competenza che sono stati poi filmati dal personale del museo e caricati on line sul canale Youtube. In questo modo il museo torna ad avere il suo naturale ruolo di promotore di attività collaterali e attivatore di un pubblico appagato da un’informazione a largo raggio.

I musei reali e le mille facce di quelli online
Tuttavia le statistiche ci dicono che la visita a un museo reale, specie quello che in Italia si trova a pochi passi da casa, è ciò che il cittadino italiano pratica sempre meno volentieri. Eppure, disabituati e disinteressati, restiamo ignari di quanto potrebbero sorprenderci. Anche nella loro versione sguarnita di servizi o di apparecchiature tecnologiche complesse.
Intere generazioni di museografi del secolo scorso infatti, in collaborazione con i museologi più intelligenti, hanno saputo proporre al visitatore un confronto orizzontale dei parametri e una sperimentazione dello stato dell’arte altrimenti introvabile nei libri di testo. In alcuni casi è ancora possibile che il visitatore usufruisca del privilegio di attivare percorsi storico-artistici individuati di volta in volta dagli studiosi, avvalendosi – specie nei musei migliori – di un prezioso stimolo all’approfondimento.
I tempi di una visita però sono sempre stati limitati dagli andamenti del flusso di visitatori e spesso ancora oggi non si ha la possibilità di fermarsi a lungo di fronte a un’opera per comprenderla al meglio. Ciò ovviamente non accade nei musei virtuali. La contestualizzazione è immediata, mentre l’azione di curatori e storici dell’arte affiancati dai professionisti della comunicazione web, migliorano, potenziano e stimolano la comprensione delle opere esposte, davanti alle quali non ci sono limiti di tempo.
Non è un caso se i più importanti musei del mondo si sono dotati di siti sempre più complessi, non limitandosi ad esporre collezioni o attività ma presentandosi come veri e propri luoghi di sperimentazione tecnologica.

Interno del Manchester Museum di Londra.

Nel panorama europeo, all’interno del museo reale oggi si comincia a sentire l’esigenza di rispondere ad una molteplicità di funzioni che vanno ben oltre la classica attività di conservazione o di realizzazione di mostre temporanee. Sempre più spesso si organizzano conferenze e momenti di svago e si tenta di rispondere in vario modo alla richiesta diversificata di modalità di fruizione dell’opera. 
Dall’altra parte, ci sono musei che online replicano il museo reale (come lo Smithsonian National Museum di Washington), musei che semplicemente si dotano di un archivio elettronico altrimenti inaccessibile nella realtà (come nel Museum of Modern Art di San Francisco) e musei virtuali intesi come vero e proprio completamento del museo reale, come l’Imamuseum di Indianapolis. Alcuni musei hanno deciso di presentarsi solo come musei virtuali con uno spazio esistente esclusivamente sul web. 
Anche in Italia abbiamo musei al passo con i tempi, ma purtroppo in provincia sono pochi. 
Ancora una volta il Mart, per esempio, ha previsto a monte un team che si occupa del piano social e web. Persone che lavorano in diversi ambiti del museo (collezioni, didattica, archivi, ufficio stampa) che contribuiscono cioè alle pubblicazioni sui social media con contenuti specifici di loro competenza. Ciò permette di condividere con il pubblico contenuti che riguardano un più ampio ventaglio di aspetti della vita del museo, non solo le mostre e la comunicazione istituzionale. In questo modo, i musei all’avanguardia non solo si rivolgono facilmente al pubblico ma riescono a rispondere a interessi diversi: dagli appassionati d’arte alle famiglie con bambini, dagli studiosi agli insegnanti. Hanno dunque una o più pagine sui social per i più diversi target, rispondendo al pubblico di settore o a quello dei teenagers, ognuno con un post condiviso anche sulla pagina principale del sito.

Bacheca su Pinterest del Museo Mart di Rovereto.

I musei piccoli sono poco frequentati
Questa attenzione al pubblico manca nei musei di dimensioni più modeste che pure vantano veri e propri capolavori. Pertanto, la condivisione di contenuti ovviamente non si verifica in provincia e non caratterizza i musei pubblici. 
Quando il museo non è dotato di un proprio bilancio che gli permetta di sottoscrivere, anche per la didattica, convenzioni con enti pubblici, perfino le associazioni di volontariato non possono prestare aiuto nel garantire il normale orario d’apertura.
Il Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, per esempio, è emblematico perché in questi mesi è un museo che muore (cfr. Arezzo Notizie, 2019). In ragione del fatto che non si tratta di un caso isolato, abbiamo modo di assistere alle conseguenze di una discutibile gestione del tempo e delle risorse. In provincia, cioè, abbiamo la dimostrazione di quanto poco un’istituzione come il museo sopporti lo spostamento ed eccessivo ampliamento del territorio di competenza delle sovrintendenze regionali così come i tempi d’attesa per interventi su immobili vincolati.
A questi antichi problemi si aggiungono gli insormontabili veti di avvalersi del necessario personale di custodia. D’altra parte, investito da una riduzione progressiva dei finanziamenti, anche il Ministero a livello macroscopico ha negli anni mostrato incapacità a spendere le risorse fino al punto di trovarsi in situazioni imbarazzanti. Lo dicono le migliaia di denunce e il rischio collasso corso da moltissimi musei. Troviamo infatti da un lato grandi musei italiani finanziati in maniera contorta e contraddittoria e altri praticamente abbandonati con direttori e intellettuali che s’interrogano su querelle stantie tra valorizzazione e tutela.
Il museo aretino abbandonato e negletto si avvale di un vanto (solo dichiarato) di essere espressione di una precisa volontà ministeriale di conservare e restaurare quelle collezioni senza fissa dimora, diventate di proprietà pubblica a seguito della soppressione degli Ordini religiosi dei secoli XVIII e XIX. 
La scarsa documentazione e l’assenza nel web raccontano che già nel 1958 le opere provenienti dal collezionismo antiquariale ed erudito trovarono asilo in un bel palazzo rinascimentale, al fine di salvaguardare le espressioni di una cultura che non esisteva più. Tuttavia, è facile immaginare che negli anni del miracolo economico si ponesse anche in provincia il problema se concentrare o meno in pochi grandi musei l’intero patrimonio posseduto. Erano gli anni cioè in cui ci si accorgeva che per l’Italia era necessario parlare di museo diffuso, in modo da rispettare le sedimentazioni storiche e dunque non strappare le opere dal contesto.

È per questo che la maggior parte dei musei statali – ad eccezione dei quattro poli importantissimi di Venezia, Firenze, Roma e Napoli – facevano tutt’uno con le soprintendenze. Questo modello, entrato progressivamente in crisi (dalla fine degli anni Novanta fino al Decreto-legge 83 del 2014), crolla quando si aggiunsero alla tutela anche i compiti di rilancio del turismo con la valorizzazione e fruizione dei musei chiamati a fare il computo degli ingressi. Una situazione già critica divenuta ingestibile chiama i musei a far cassa e a rendere conto della propria produttività. In quel momento, musei non ancora competenti rinunciano a implementare pratiche di partecipazione consapevole o non costruiscono esperienze di visite di qualità. Sprovvisti del battage pubblicitario dei grandi poli, musei come quello aretino hanno accentuato la propria natura di servizio pubblico ma non hanno saputo guardare ai bisogni del cittadino e concentrati sul burocratico quotidiano non hanno risposto con proposte adeguate. A ciò si aggiunge il fatto che il museo è pressoché sconosciuto ai cittadini. 
È vero però che la dispersione non è addebitabile solo a fattori esterni al museo: gli addetti ai lavori spesso si sono chiusi in azioni autoreferenziali incapaci di confronto. Pur avvalendosi di una collezione eccellente di sculture medievali in legno policromo e della presenza di alcuni tra i migliori pittori del Duecento italiano, il museo ha sostituito al bisogno di una capillare attività di promozione l’attesa delle risorse e del supporto per rinnovare gli allestimenti, mantenerli in funzione o per provvedere all’atavico bisogno di personale. Ne conseguono uno scarso rispetto dei livelli minimi di qualità per i musei stabiliti nel nuovo decreto del 2018, l’insufficiente comunicazione con il territorio, orari di apertura limitati e un continuo stato di disagio nel quale si disperdono le responsabilità.

Un aggregatore di musei che ha molto da insegnare
A questo impasse il dinamismo del web ha risposto sovvertendo e mettendo in discussione il paradigma, presentandoci il ruolo che assegniamo alla cultura come processo costitutivo d’identità. Ci ha mostrato l’esistenza di modelli comuni nello sviluppo della cultura e raccontato le novità ricettive dell’arte sotto l’influenza della globalizzazione. 
Fortificando le particolarità di ogni spazio da un lato e la gratuità e l’ubiquità delle immagini online dall’altro, i traffici artistici sulla piattaforma Google Arts&Culture ci parlano di cosa significhi essere un aggregatore di musei. Visitare virtualmente mostre, collezioni e luoghi d’interesse storico e artistico e consumare immagini tramite smartphone, ci rendono difficile capire le pressioni, la posta in gioco della trasformazione tecnologica e il tipo di angoscia che genera tra i conservatori.
Passeggiare virtualmente nelle sale del MoMa, spostarsi al Taj Mahal per ammirare le cupole dall’alto o studiare dettagliatamente le pennellate della Notte stellata di Van Gogh, significa invece sperimentare come le esperienze vissute online siano reali. 
Inoltre, i musei, le fondazioni e i teatri che ottengono uno spazio all’interno di Google Arts&Culture danno ottimi frutti sul versante della qualità dei contenuti e della visibilità anche nella loro veste reale in un processo di progettazioni unitarie che si avvalgono del continuo confronto. Con una digitalizzazione realizzata tramite una tecnologia simile a quella di Google Street View è possibile avere a che fare con immagini ad altissima risoluzione che difficilmente potremmo sperimentare dal vivo. 
Peraltro, anche l’attuale ricerca neuroscientifica afferma che la questione concettualmente più interessante di questo modo di percepire è che cambierà radicalmente il nostro modo di pensare alla fruizione artistica. È risaputo infatti che la ricezione mediata della realtà ha già assunto una presenza così forte nella nostra esistenza da condizionare irrevocabilmente il nostro essere nel mondo.

Screenshot della piattaforma di Google Arts& Culture.

A ciò si aggiunga che il nuovo pubblico dei musei, diverso da quello di un decennio fa, è difficilmente monitorabile. Ha esigenze e caratteristiche che sono ancora oggetto di studio. Attualmente sembra interessato alla documentazione di qualità, ma anche a esperienze che abbattano coscientemente ogni distinzione di valore tra la fruizione diretta e la fruizione mediata dell’arte. Un pubblico che nel caso di musei reali si sta allontanando dall’idea che l’esposizione permanente sia l’unico servizio possibile e che considera importante elemento per valutare la propria soddisfazione dopo una visita, l’offerta di servizi accessori di qualità, come bookshop, sale per incontri, didattica e postazioni di approfondimento. Strumenti tutti che tendono a diversificare le modalità di sosta e ad allungare i tempi della visita. Dunque, il museo che si va così configurando come reale e virtuale si presenta come un “museo non fragile”, proprio in ragione del fatto che le differenti funzioni si armonizzano con i differenti servizi che il pubblico sceglie, senza che questo sottragga senso al progetto e alla narrazione che il museo intende fare di se stesso e della cultura di cui si fa portatore.

 La sopravvivenza ibrida
Moltissimi musei ibridi (presenti nel web e fisicamente visitabili) hanno superato i limiti del loro bacino d’utenza, guadagnando un pubblico non legato all’arte ma affascinato dalla viralità e pienamente soddisfatto dalle immersioni coinvolgenti. Utenti che nella visita online vanno alla ricerca dello zoom che permette di esplorare ogni singolo dettaglio dell’opera e tramite i tour virtuali entrano nei più importanti musei del mondo attivando l’app che permette di farsi una collezione personale, salvando o condividendo contenuti sui propri social. 
Nella visita reale la sfida che potrebbe essere raccolta anche dai musei come quello aretino si appoggia un’altra volta su di un progetto museologico che assicuri l’esistenza di musei orientati alla narrazione e non più solo all’oggetto. Ciò significa avere la capacità di presentare i pezzi della collezione come sintesi utili ed emblemi di un racconto più ampio. 
Significa fare ricorso a molteplici codici narrativi ed essere aperti alla fruizione di differenti tipologie di utenti evitando di considerare la visita come semplice intrattenimento turistico. Significa dare un valore più ampio e articolato della parola cultura. L’immagine è sempre un pretesto di interrogazione e questa possibilità di esplorazione critica (che è poi ciò che studia la sociosemiotica) ce lo conferma la piattaforma di Google dove, tramite centinaia di percorsi in base a numerosi filtri, si possono fare ricerche significative dal punto di vista antropologico e sociale.

La mappa dei musei italiani virtuali.

Basterà andarsi a cercare non più il movimento artistico o il genere pittorico ad esempio, ma l’impatto della povertà, del razzismo o dell’emarginazione per accorgersi che l’arte è cultura d’immagine e questa sta già trasformando la parola cultura in qualcosa che ha a che fare con i valori e i principi sociali. Il museo ibrido cioè è in grado di caricare di sfumature di senso profondamente valide proprio quelle ipotesi già formulate nella visita virtuale. Forse in questa duplice modalità il museo potrebbe finalmente assegnare un senso fondativo all’espressione “pratiche artistiche” occupandosi dello sviluppo della mente all’interno della vita sociale.
Vedere infatti non è più solo riconoscere, ma è anche dovere e in alcuni casi vedere è potere. L’interpretazione di molti fenomeni passa attraverso la comprensione del ruolo che giocano le immagini. Quelle provenienti dal passato sono inoltre immagini che non solo traducono competenze acquisite ma ne richiedono di nuove. La conoscenza di una lingua fatta d’immagini non è un sapere riflesso, ma una consapevolezza pratica, un saper fare che interferisce anche su chi non conosce il codice. 
Un museo che accetti questa sfida potrebbe rendere conto dei nostri tentativi di costruire percezioni significative anche di un’esperienza socialmente condivisibile da recuperare come quella di andare al museo e assicurarsi un ruolo formativo anche su temi specifici come l’immaginario contemporaneo.

Letture
 Visioni