Mircea Eliade e un supereroe
dell’antichità: Zalmoxis

Mircea Eliade
Da Zalmoxis a Gengis Khan
Le religioni e il folklore
dell’Europa orientale
a cura di Horia Corneliu Cicortaş
Traduzione di Alberto Sobrero
Edizioni Mediterranee, Roma, 2022
pp. 275, € 27,00.

Mircea Eliade
Da Zalmoxis a Gengis Khan
Le religioni e il folklore
dell’Europa orientale
a cura di Horia Corneliu Cicortaş
Traduzione di Alberto Sobrero
Edizioni Mediterranee, Roma, 2022
pp. 275, € 27,00.


Le Edizioni Mediterranee ripropongono, aggiornato e corretto, un classico della produzione saggistica di Mircea Eliade, il grande storico delle religioni romeno. Pubblicato in francese nel 1970 e tradotto da Ubaldini-Astrolabio nel 1975, il volume era ormai da parecchio tempo fuori catalogo ed è grazie alla perizia dell’eliadiano Horia Corneliu Cicortaş che vede nuova vita nel panorama culturale italiano.
Tema centrale del libro, come di gran parte dell’opera di Eliade, è il rintracciare le possibili origini sciamaniche di leggende e tradizioni storico-religiose. In questo caso l’interesse è focalizzato negli spazi culturali dell’Europa dell’Est, in particolare nel folklore romeno, terra d’elezione dell’autore. Figura sovrastante tali mitologie – che reca anche titolo al libro – è quella di Zalmoxis, taumaturgo, iniziato, supereroe.
Le testimonianze greche, a partire da Erodoto, istituivano uno stretto rapporto tra Zalmoxis e Pitagora. Si diceva che Zalmoxis, oltre a indicare la via per l’immortalità, fosse uno iatromante, cioè avesse insegnato anche una forma di medicina psicosomatica, molto rinomata, fondata su incantesimi (epoidai), finalizzati a guarire l’anima assieme al corpo. Platone ha lasciato un vivido ed entusiastico resoconto della medicina di Zalmoxis nel dialogo Carmide (156 d-157 c). Il suo culto era strettamente collegato alla regalità.
Platone riferiva che Zalmoxis era il re dei Geti (Carmide 156 d), mentre Strabone (Geografia 7, 3 ss.) narrava che inizialmente Zalmoxis era un sacerdote della divinità più importante dei Geti, successivamente associato alla regalità, e alla fine lui stesso venerato come un dio; s’immaginò che fosse vissuto in una caverna, sulla montagna sacra di Kōgaionon, dove soltanto il re e i suoi messaggeri potevano fargli visita.
Il sacerdozio sacro continuò fino al tempo di Strabone (I sec. a.C.). La caverna sacra era lo spazio più antico in cui venne venerato il dio e dove dimoravano i suoi sacerdoti. Al tempo di Erodoto (V sec. a.C.), doveva esistere un santuario dedicato a Zalmoxis, poiché lo storico greco nelle sue Storie (4, 95) trascriveva una leggenda secondo cui l’eroe si sarebbe costruito un luogo ipogeo, una camera sotterranea, dalla quale sarebbe ricomparso dopo tre anni di occultamento. Un santuario con tali caratteristiche – precisa Eliade ‒ fornito di un vasto complesso sotterraneo, è stato ritrovato a Sarmizegetusa Regia (l’attuale Grădiştea Muncelului, in Romania).

Mircea Eliade (Bucarest, 13 marzo 1907 – Chicago, 22 aprile 1986).

L’episodio della camera sotterranea, della sparizione e della ricomparsa (discesa, occultamento e manifestazione), colloca la vicenda in una dimensione prettamente iniziatica. Zalmoxis vaticina profezie; lui, i suoi sacerdoti e successori vivono isolati in una caverna sulla montagna, praticano la medicina psicosomatica e propongono complicati calcoli astronomici. Eliade fa notare come tra i Geti esistesse un gruppo di asceti che vivevano in povertà e in continenza, astenendosi dal cibo animale. Il nucleo dell’insegnamento di Zalmoxis era la dottrina dell’immortalità dell’anima, che andrebbe in realtà interpretata come una promessa ai guerrieri coraggiosi di una sopravvivenza futura in una sorta di Paradiso. In patria Zalmoxis fece costruire un andreion (una stanza ad uso esclusivo degli uomini), dove riceveva i capi dei Geti e insegnava loro che né essi né i loro discendenti sarebbero morti. Questa idea di immortalità si riferisce con ogni probabilità a tale Paradiso, nel quale i guerrieri avrebbero goduto di vita eterna e di un piacere eterno dopo la morte. In seguito alcuni tra i Geti accolsero, forse, l’idea della metensomatosi. Tutto ciò richiama insegnamenti pitagorici.

Le affinità tra Zalmoxis ed Epimenide
Tra i personaggi greci che appartenevano alla medesima classe di veggenti, indovini, guaritori e semidei (che abbiamo definito iatromanti) cui apparteneva Pitagora, l’unico affine a Zalmoxis era Epimenide di Creta, venerato come un dio in un culto autoctono. Si narrava che Epimenide avesse soggiornato nella grotta di Zeus fanciullo, sul monte Ida, dove cadde in un sonno letargico per molti decenni. Evitava il cibo, tranne per cibarsi di una pianta chiamata alimos, utilizzata per sopprimere l’impulso della fame (cfr. Dioscorides, 2005). Una pianta che lo smaliziato I. P. Culianu ritrovava in un energizzante simile alla coca boliviana e peruviana (Erythroxylon coca) oppure colombiana (Erythroxylon novogranatense), base di quell’alcaloide euforizzante, la cocaina, oggi molto diffusa nei più svariati strati di popolazione. Quantità importanti di questa pianta, cioè una overdose di foglie masticate, avrebbero poi prodotto effetti allucinatori (vi sembra alludere anche Maximus Tyrius; cfr. 1994).

Altri personaggi, che condividono il medesimo tipo di conoscenza, furono soggetti a esperienze affini. Erodoto narra che Aristea morì improvvisamente in una bottega della sua città. Quando i parenti, informati dell’accaduto, giunsero per seppellirlo, non trovarono il corpo, che nel frattempo aveva ripreso vita e si era allontanato. Il caso di Ermotimo di Clazomene è abbastanza simile, ma presenta una conclusione diversa. I suoi nemici, infatti, che conoscevano le sue capacità catalettiche, bruciarono il corpo quando giaceva inanimato e cosi egli cessò di vivere per sempre. Proprio come questi personaggi, Epimenide aveva acquisito la capacita di morire e di tornare quindi a vivere; un’attitudine da relazionare al lungo sonno e alla capacità dell’anima di abbandonare il corpo per lunghi periodi. Il tipo di esperienza vissuta, la conoscenza e i poteri acquisiti, isolano Epimenide dal mondo umano, conferendogli uno statuto eccezionale che si manifesta nella debole relazione con la vita così com’è sperimentata abitualmente dagli uomini. Tale attitudine si manifesta non soltanto nella possibilità di transitare più volte dalla vita alla morte, ma anche in altri tratti, sodali con i precedenti, quali una vita lunghissima e la metempsicosi.

Le diverse tradizioni
Epimenide sapeva predire il futuro, praticava le purificazioni ed era in grado di ricordare le esistenze anteriori. In una delle precedenti manifestazioni era stato Eaco, fratello di Minosse, figlio di Zeus. Minosse visitava il divino padre nella caverna del monte Ida ogni otto anni, e quindi non sorprende che Epimenide usasse tale luogo per l’incubazione. Si narra infine che, durante la catalessi, la sua anima dimorasse insieme agli dèi, orecchiando i loro discorsi. Secondo un’altra tradizione, un giorno, mentre Epimenide stava per dedicare un santuario alle Ninfe, una voce divina gl’impose di dedicarlo invece a Zeus. Tale episodio potrebbe essere interpretato come un’indicazione che la caverna del monte Ida non apparteneva alla sfera di influenza di quelle divinità che normalmente presiedono a tali luoghi, cioè le Ninfe, ma direttamente al dio celeste per eccellenza, cioè Zeus. Epimenide era considerato un fanciullo rinato (neos kouros), lo Zeus Ideo redivivo. Non a caso quindi egli rivestì il ruolo di corifeo e guida (come sarà Virgilio per Dante) quando Pitagora discese nella caverna del monte Ida. Né sorprende che Epimenide, autore di oracoli e di teogonie, venerato dai Cretesi come dio, verrà trasformato dal neoplatonico Giamblico (ca. 250-330 d.C.) in un discepolo di Pitagora, esattamente nello stesso modo in cui avvenne per Zalmoxis; tra i veggenti greci dell’epoca presocratica, Pitagora era semplicemente più famoso di Epimenide.

Il lato ctonio di Epimenide era rivelato dal dimorare in una caverna e dal rapporto con le Ninfe. Nelle leggende di Pitagora e di Zalmoxis tale aspetto ctonio è evidenziato da un dettaglio, rivelato dal sommo Walter Bunkert: Pitagora era probabilmente considerato un rappresentante della dea ctonia Demetra, un’ipotesi confermata dalla tradizione che Pitagora una volta mostrò la sua «coscia d’oro» ad Abaris (cfr. Giamblico, 1973), un altro estatico e iatromante dotato di poteri taumaturgici. Ciò significa che la leggenda attribuiva a Pitagora un tatuaggio sulla coscia, il marchio, o il sigillo, della grande dea anatolica.
Il tatuaggio nel mondo antico era il metodo più pratico e indelebile per evidenziare il superamento di una prova iniziatica, imprimendo nella pelle un segno della mutata condizione esistenziale; un espediente che troveremo codificato nell’azione rituale dell’«unzione», cioè l’atto dell’imprimere un sigillo (in greco sphragis), la sigillazione dei neofiti diffusa nel cristianesimo delle origini e nei rituali gnostici. Nel caso di Pitagora si tratterebbe infatti del segno che indicava come il filosofo fosse disceso e risalito dai regni oscuri dell’Ade. Nella Vita pitagorica, il neoplatonico Porfirio trascriveva una strana leggenda secondo la quale Zalmoxis era discepolo di Pitagora (cfr. Porfirio, 1998); all’epoca della rivolta dei cittadini di Crotone contro Pitagora, Zalmoxis fu catturato da alcuni banditi che lo tatuarono sul volto, che da allora in poi tenne sempre coperto. Il breve racconto è estremamente importante, poiché la pratica del tatuaggio era attestata, tra i nobili della Tracia meridionale, sin dai tempi di Erodoto ed è confermata da numerose testimonianze (cfr. Erodoto 2014).

Un segno religioso: il tatuaggio
Il tatuaggio tra i Traci era ovviamente un segno religioso; tra i Traci settentrionali, i Geti e i Daci, esso era forse associato al dolore che un tempo i nemici inflissero a Zalmoxis. Poiché il tatuaggio tra i Geti era menzionato due volte in relazione alla schiavitù, si potrebbe dedurre che l’antica leggenda che faceva di Zalmoxis uno schiavo si basasse su una autentica figura proveniente da un mito arcaico, che avrebbe incluso in origine i temi della sofferenza e dell’imprigionamento. Plutarco (I sec. d.C.) narrava che i Traci tatuavano le loro donne per vendicare le sofferenze inflitte ad Orfeo dalle baccanti. Plutarco, che conosceva più Orfeo che Zalmoxis, ha probabilmente frainteso una tradizione genuina legata all’eroe tracio. Si può quindi dire che i Geti tatuavano gli schiavi, e forse le mogli, sia per tenere viva una memoria religiosa, sia per esprimere un sentimento di vendetta per il marchio a suo tempo impresso nella carne di uno Zalmoxis in cattività.

Nella lettura eliadiana, Zalmoxis fu il leggendario fondatore di una gerarchia sacerdotale ereditaria, legata indissolubilmente alla regalità dei Geti e dei Daci, i popoli traci più settentrionali del mondo antico. Sostenere che si tratti di una figura leggendaria oppure storica è argomento controverso, così come sono incerte le sue attitudini religiose. Legato al sacerdozio e alla regalità, Zalmoxis fu divinizzato e divenne oggetto di un culto ampiamente diffuso tra i popoli traci. Il nome Zalmoxis è attestato negli autori antichi, da Erodoto e Platone (V-IV sec. a.C.) a Diodoro di Tiro (II sec. a.C.) e Giordano (VI sec. d.C.). Erodoto conosce la forma nominale Salmoxis; Strabone invece scrive Zalmolxis. L’espressione originaria appare Zalmoxis, confermata da vari nomi traci come Zalmodegikos e Zelmutas e da numerosi suffissi come –zelmis, –zelmos, –selmios.
Porfirio (III sec. d.C.) spiega l’etimologia di Zalmoxis con la parola tracia zalmos (pelle; greco dora), e a sostegno della sua tesi narra una leggenda che vede Zalmoxis, alla nascita avvolto in una pelle d’orso (Vit. Pyth. 14). Altri studi hanno dimostrato che anche i corrispondenti indoeuropei di zalmos significano scudo, protezione, il che si adatta perfettamente sia a un dio sia a un sommo sacerdote. Ma Porfirio fornisce anche un’altra spiegazione del significato del nome: straniero (greco xenos anēr).

Il nome e il culto di Zalmoxis
Su tale base alcuni hanno avvicinato la forma metatetizzata Zamolxis con il frigio zamelen (schiavo barbaro; greco barbaron andrapodon, barbaro coi piedi umani), con Zemelo, il nome di una dea della terra tracio-frigia (cfr. il greco Semele) e con lo slavo zemlja (terra) spiegando il significato di Zalmolxis come “signore degli uomini” ‒ per –xis, si paragoni l’avestico xšaya-, signore, re (cfr. Bartholomae, 1979). La storia delle interpretazioni della figura di Zalmoxis è sconfortante. Autorevoli studiosi hanno a lungo discusso se il culto di Zalmoxis fosse una forma di monoteismo oppure di politeismo; se Zalmoxis fosse un dio oppure un uomo, forse un riformatore religioso; e infine se fosse connesso con la terra oppure con il cielo (di fatto era associato a entrambi). Alcuni studiosi hanno affermato che il culto di Zalmoxis rappresentava per la popolazione daco-romana una specie di rivelazione primordiale e catechesi mistagogica. Altri, d’ispirazione sociobiologica, hanno tentato di dimostrare che esso era, al contrario, molto più ‘primitivo’ di quanto non mostrino le testimonianze.

Il libro di Eliade pone quindi termine a tutta una serie di polemiche, dimostrando che le testimonianze riguardanti Zalmoxis sono credibili e vanno interpretate alla luce della comparazione con altri materiali religiosi. Per Eliade, Zalmoxis era un dio misterico, nel cui culto erano celebrati l’«occultamento» e la manifestazione della divinità stessa. Nel tentativo di decifrare la figura di Zalmoxis, restituendogli una dimensione originaria, Eliade stabilisce importanti legami tra l’eroe e le tradizioni greche arcaiche riguardanti indovini e iatromanti, quali lo stesso Pitagora. Dio oppure uomo, ma soprattutto riformatore religioso dei Geti, Zalmoxis si colloca nel modello pitagorico di un iatromante come Epimenide, che era venerato come un dio. Il suo mito è poco noto, ma probabilmente conteneva un episodio di segregazione e di sofferenza. Il tatuaggio rituale tra i Geti era inflitto agli schiavi e alle donne in segno di espiazione di un peccato mitico. Zalmoxis probabilmente insegnò l’immortalità per i guerrieri coraggiosi. Era venerato in una grotta, che aveva una funzione importante nell’iniziazione di sacerdoti e guerrieri. Il sacerdote e consigliere del re, che lo rappresentava nella grotta, era considerato un profeta e ottenne una tale influenza nelle questioni politiche che la Dacia unificata da Burebista (ca. 70 a.C.-44 a.C.) poteva essere definita una autentica teocrazia.

Dalla grotta alla camera sotterranea
Il suo santuario era fornito di una camera sotterranea, intesa probabilmente come un sostituto della grotta e luogo iniziatico per officiare la rituale katabasis agli Inferi. Tutto ciò induce a credere che la leggenda dell’occultamento di Zalmoxis narrata da Erodoto fosse connessa con l’esistenza di tale antico santuario. Nelle Vite pitagoriche di Porfirio e di Giamblico (9; 27) leggiamo che Pitagora aveva fondato una scuola nella sua patria natale, Samo, il cosiddetto emiciclo di Pitagora, ma soprattutto aveva predisposto “una grotta fuori città dove potersi consacrare alla sua filosofia, trascorrendo lì la maggior parte del giorno e della notte in compagnia di rari discepoli” (Porfirio, 1998). Giamblico dissente per minimi dettagli, scrivendo che “lì passava la maggior parte del giorno e della notte a indagare sull’utilità pratica del sapere scientifico, con le stesse intenzioni del figlio di Zeus Minosse” (Giamblico, 1973). La grotta è la soglia che conduce agli Inferi, un cammino sotterraneo dal quale uscire rigenerati, uno spazio sacro rinvenibile sul fianco settentrionale del promontorio roccioso di Eleusi, oggetto di venerazione sin dall’età arcaica e interpretabile quale luogo della scomparsa di Korē, la pargola di Demetra catturata da Ade.

Eliade si spinge oltre, coinvolgendo Orfeo, artefice di un messaggio religioso arcaico, in contrasto con la religione greca ufficiale: Orfeo è un fondatore di iniziazioni e di misteri, e questo è confermato dai suoi rapporti con Dioniso e Apollo. È un personaggio religioso di tipo arcaico, che alcune tradizioni rivivono nello straordinario tempo delle origini, prima di Omero. Orfeo non appartiene né alla tradizione omerica, né all’eredità mediterranea. Eliade lo mette morfologicamente in rapporto a Zalmoxis, eroe civilizzatore dei Geti, Traci che si credevano immortali. Il suo prestigio e gli elementi più importanti della sua vita ricordano le pratiche sciamaniche: guarigioni, musica, ammaestramento di animali selvaggi, discesa agli inferi e la testa tagliata utilizzata come oracolo. Per parafrasare Giovanni Casadio, Eliade realizza, a partire dalla produzione saggistica, quello che è l’assioma fondamentale della sua visione del mondo, secondo la quale ogni ierofania è tale non solo perché rivela il sacro nascosto nell’oggetto profano ma perché permette di avvicinare esperienze religiose distanti nei luoghi e nel tempo.

Letture
  • Ezio Albrile, Iperborea, Il Cerchio, Rimini, 2018.
  • Christian Bartholomae, Altiranisches Wörterbuch, Zusammen mit den Nacharbeiten und Vorarbeiten, Karl J. Trubner, Strassburg 1904-1906.
  • Carlo Brillante, Il sogno di Epimenide, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, Nuova Serie n. 77, 2004.
  • Walter Burkert, I Greci, I-II, Jaca Book, Milano, 1984.
  • Giovanni Casadio, Raccontare è come ballare, in Storia Antropologia e Scienze del Linguaggio n. 36, 2021.
  • Ioan Petru Culianu, Iatroi kai Manteis. Sulla struttura dell’estatismo greco, in Studi Storico Religiosi n. 4 ,1980.
  • Pedanius Dioscorides, De materia medica, traduzione di Lily Y. Beck, Olms-Weidmann, Hildesheim, 2005.
  • Erodoto, Le storie, a cura di Aristide Colonna e Fiorenza Bevilacqua, Utet, Torino, 2014.
  • Giamblico, Vita pitagorica, a cura di Luciano Montoneri, Laterza, Roma-Bari,1973.
  • Maurizio Giangiulio (a cura di), Pitagora. Le opere e le testimonianze, I-II, introduzione di Walter Burkert, Mondadori, Milano, 2000.
  • Orfici. Testimonianze e frammenti nell’edizione di Otto Kern, traduzione e note di Elena Verzura, Bompiani, Milano, 2011.
  • Platone, Teage. Carmide. Lachete. Liside, BUR, Milano, 2006.
  • Porfirio, Vita di Pitagora, monografia introduttiva e analisi filologica, traduzione e note di Angelo Raffaele Sodano, Rusconi, Milano, 1998.
  • Strabo, The Geography of Strabo in eight volumes, Heinemann-Harvard University Press, London-Cambridge (Massachusetts), 1967.
  • Matteo Taufer, Zalmoxis nella tradizione greca. Rassegna e rilettura delle fonti, in Quaderni di Storia n. 68, 2008.
  • Maximus Tyrius, Dissertationes, a cura di Michael B. Trapp, B. G. Teubner, Stuttgart-Leipzig, 1994.