La luna fuori dal labirinto

Paolo Volponi
I racconti
Einaudi, Torino, 2017
pp. XVIII+117, € 17,50

 

Paolo Volponi
I racconti
Einaudi, Torino, 2017
pp. XVIII+117, € 17,50

 


Se nasci sul crinale sbilenco dell’Appennino, in una città dagli intrecci già preannunciati nel corteo di cognomi ripetuti, di epiteti gelosamente trasmessi dagli avi, di personaggi goffi ma miliari lungo le stradine di borghi sbiaditi dalla neve, non puoi non sognare almeno per un momento la strada per Roma. É questa la strada che sogna e calpesta Paolo Volponi, autore tuttora poco letto, malgrado il lirismo battagliero di pagine oltremodo condivisibili al di là di ogni esperienza smarginata della vita. Volponi sogna quella strada verso la Capitale, come confessa nel suo primo scritto, in parte autobiografico, abbozzato tra gli anni Cinquanta e Novanta. Una proiezione che accompagnerà l’autore in trasparenza, tra scalate e precipizi lunghi quasi il tempo di una vita, La strada per Roma, appunto. Premio Strega 1991.
Secondo dopoguerra, un’amicizia ingenua, curiosa, avventurosa tra due ragazzi, Guido ed Ettore, si rinnova tra proponimenti e speranze, fino a quando una vocazione a incidere sul reale non sbaraglia le coincidenze. Ettore rimane a Urbino a tentare il rinnovamento in un’aula scolastica. Guido, invece, sigilla in valigia la laurea in Giurisprudenza, salta su un treno per Roma e si convince che quel tragitto di lontananza valga a realizzare il progetto utopico di un uso democratico della ricchezza. Per liberare anche chi nella provincia sia rimasto. Eppure, la metà di quelle dieci parole con cui Guido si ripromette di sistemare il mondo (Libertà, Democrazia, Giustizia, Fraternità, Educazione) si dovranno accontentare della sola eufonia di discorsi astratti, nel privilegio iniquo del concreto benessere di pochi. Ebbene, lungo la medesima traiettoria, Volponi percorre la sua marcia. Ma esploriamola attraverso i racconti di una vita, questa strada per Roma e da Roma, perché è questo tragitto di passi e parole in parallelo a rivelarci quanto lo stesso Volponi, come Guido, fosse un “incompreso […], ma […] predestinato a raggiungere risultati importanti” (Volponi, 1991). Oggi tale interpretazione di Volponi ci è concessa, perché finalmente abbiamo il privilegio di una raccolta di dodici racconti, pubblicata da Einaudi. Per la prima volta ci si può addentrare organicamente nel laboratorio di scrittura allestito dall’autore dagli anni Quaranta agli Ottanta, tra narrazioni più giovanili, fiabe dalla morale sferzante, prose dalle linee volubili e spesso traccia dei suoi futuri romanzi.

L’incontro con l’ingegnere di Ivrea
Partiamo dal principio. Volponi, al pari del suo Guido, dopo la laurea in Legge opterà per la partenza come sola possibilità di un cambiamento personale e collettivo insieme, incrociando nel 1950 Adriano Olivetti. Sì, proprio l’eroe romantico della nascente imprenditoria piemontese, colui che aveva negli occhi le mani screpolate e febbrili dei suoi operai prima ancora che la rifinitura perfetta dei prodotti da loro confezionati. L’urbinate ne condivide il progetto di un’azienda il cui profitto sia un bene della e per la comunità, un terreno comune di democrazia partecipativa, il luogo in cui la ferrigna crudezza della macchina sappia animarsi dell’emozione dell’appartenenza, della sensibilità del dialogo trasversale tra operai, dirigenti, intellettuali. Dapprima, Volponi avvierà da Roma, per conto dell’imprenditore, inchieste socio-economiche sul Sud. Subito dopo, conterà sull’assunzione dirigenziale alla stessa Olivetti di Ivrea e sul passaggio in Fiat negli anni Settanta, salvo abbandonare ben presto la stessa per le sue posizioni dichiaratamente di sinistra e non in linea con l’azienda. Da queste esperienze oscillanti, la complicità tra letteratura e industria che lo impegnerà per tutta la vita, in pari con il vivace dibattito sul tema, aperto nel 1961 da un articolo del Menabò. A firma di Vittorini, la letteratura viene qui chiamata ad abbattere la crociana barriera tra cultura umanistica e scientifica e riuscire a fotografare con occhio e stile mimetico il rivolgimento antropologico del boom industriale.
Replica vibrante fu quella sfida al labirinto lanciata sulla medesima rivista un anno dopo da Calvino, a che la scrittura non si arrendesse alla duplicazione naturalistica di quella labirintica frantumazione umana e sociale postbellica. Volponi, però, si entusiasma al confronto con il nascente filone della letteratura industriale recuperando il tesoro di immagini e voci della fabbrica, nella complessità magmatica di prospettive stranianti, sperimentazioni formali, concatenazioni metaforiche e oracolari, deformazioni espressionistiche, ardimentose enumerazioni, colori ora gelidi ora baluginanti. E, allora, possono convivere socialismo e capitalismo nel meccanismo stringente della produzione industriale? Le pagine dello scrittore, tanto nei racconti quanto nei romanzi, si accendono di cosmiche illusioni per poi rifugiarsi in un Mah! perplesso. Così, in Annibale Rama (1965), il prometeico protagonista di uno dei suoi racconti, pianifica di ampliare le prestazioni di un calcolatore elettronico a cui sta lavorando in fabbrica. Il progetto determina la fredda stroncatura dirigenziale e il licenziamento rispetto all’ostinazione dell’artefice, ma non la disillusione di Annibale, che imprime forma alla sua idea nel silenzio notturno dello stabilimento. Risultato, un’esplosione di previsioni vincenti al Totocalcio da parte della macchina e l’inebriante proposito di un’industria di quei calcolatori, in grado di tutelare la dimensione integrale dei propri operai. La fabbrica come prigione disumana si conferma nel racconto Iride. Impiegata sindacalista, Iride Grimonti vive come indipendenza la sua solitudine, quasi a riscattare la cattività a cui la fabbrica la chiama. D’altronde, nelle letture gramsciane trova la premura di salvaguardare chi in un pancione vede insinuarsi la facile minaccia del licenziamento. Perché “Gramsci resisteva e combatteva producendo in carcere, anche se sapeva di non poterne scampare” (Volponi, 2017).

L’amara realtà della vita in fabbrica
In controluce, sembra di rivedere Albino Saluggia del romanzo d’esordio, Memoriale, l’operaio dalla certezza paranoica di una mistificata diagnosi di tubercolosi ai propri danni da parte dei medici della fabbrica, al solo fine di una rimozione dall’incarico. Del resto, l’ottica deformata con cui l’operaio analizza l’intera filigrana dei suoi ricoveri in sanatorio e reintegri nello stabilimento, di fatto disvela come la ragione alterata di Albino abbia il volto della distorta ratio industriale: “La fabbrica non perdona […] chi non si arrende al suo potere, chi crede alla giustizia umana e invoca la sua clemenza; la fabbrica non perdona gli ultimi” (Volponi, 1962).
Ecco sfumare l’entusiasmo giovanile di Volponi nell’esperienza indocile e desolante degli interessi industriali. Ma la risposta non sa di umano. Nel racconto del 1987, Talete, in un tempo imprecisato, il filosofo greco si vede accerchiato dal caotico rimescolarsi di bivacchi, incendi, orrore e sangue, lungo il confine guerriero di due file opposte. In uno squarcio caravaggesco, la legge morale del rispetto brucia tra i lividi lampi di fuochi diversi. Cibo è il corpo inanimato accanto, amico o nemico che sia. Ciascuno pare aver atteso solo quel momento, il cannibalismo verso chi è prossimo, tanto più fragile e appetibile quanto più implorante. In una regola che duplica quella della fabbrica, lo sguardo di Talete è ferito da una verità che era menzogna fino a poco prima. Allora, nella pratica collettiva di isterica fagocitazione, il filosofo elegge il suo stesso corpo quale medium di autosalvazione e prende a cibarsi di sé. Paga, così, con la morte il suo rifiuto alla barbarie e svapora nel puro splendore di una fiammata. Suicidio foscoliano, analogo all’apocalittico epilogo del romanzo La macchina mondiale, Premio Strega 1965. Lì, un visionario contadino marchigiano autodidatta, Anteo Crocioni, ipotizza una rigenerazione cosmica attraverso un progressivo perfezionamento di quelle macchine che sono gli uomini, a loro volta fabbricate da altri uomini, nell’intenzione di una graduale convivenza prospera e pacifica. Soprusi assenti. Ma il progetto non prevede la sorda ferocia quotidiana del suo paese, di sua moglie Massimina e, soprattutto, di quella Roma nella cui avanguardia aveva riposto intima fiducia di accoglienza. Non resta che l’esplosione sul finale. Anteo svanisce nel fuoco roteante di una statuetta dinamitarda tenuta stretta: “Non credo alla morte, anche se ho deciso di servirmi del suo passaggio” (Volponi, 1965). Un suicidio di rinascita in chi vorrà e saprà recuperare la rara, entusiastica fede che i nevrotici dei romanzi volponiani hanno sempre abitato, nella lucida consapevolezza che solo a un folle appartiene. Perché, se per l’autore e i suoi personaggi malcerta riesce la strada per Roma, terminata nel labirinto soffocante del capitalismo, non si accettano barricate. Lungo quel sentiero qualcuno troverà il modo di condividere il progresso nel segno dell’equità. Per reimparare lo stupore pirandelliano di Ciàula fuori da un labirinto.

Letture
  • Paolo Volponi, Memoriale, Einaudi, Torino, 2015.
  • Paolo Volponi, La macchina mondiale, Einaudi, Torino, 2015.
  • Paolo Volponi, La strada per Roma, Einaudi, Torino, 2014.