Jorge Luis Borges, l’artefice
di lezioni indimenticate

Jorge Luis Borges
Il mestiere della poesia
Traduzione di Vittoria Martinetto

e Angelo Morino
Introduzione di Massimo Sideri
Saggi di Vittoria Martinetto
e Cālin-Andrei Mihāilescu
Luiss University Press
Roma, 2024
pp.159, € 18,00

Jorge Luis Borges
Il mestiere della poesia
Traduzione di Vittoria Martinetto

e Angelo Morino
Introduzione di Massimo Sideri
Saggi di Vittoria Martinetto
e Cālin-Andrei Mihāilescu
Luiss University Press
Roma, 2024
pp.159, € 18,00


Il mestiere della poesia raccoglie i testi delle conferenze sulla poesia, le Charles Eliot Norton Lectures tenute da Jorge Luis Borges a Harvard nel 1967-68. Accogliendo il suggerimento di Massimo Sideri, autore della prefazione al volume, possiamo a ragion veduta definirle le “lezioni americane” dello scrittore argentino riprendendo il titolo del libro di Italo Calvino Lezioni americane, il volume con i cinque interventi che lo scrittore italiano preparò per il ciclo di conferenze a Harvard da tenre nell’anno accademico 1985-1986, ma che vennero pubblicate postume (Calvino scomparve il 19 settembre del 1985).
Le Charles Eliot Norton Lectures, ricordiamolo, vantano una nobile storia. Presero avvio nel 1926 e furono affidate a personalità della cultura come T.S. Eliot, Igor Stravinskij, appunto Borges, Northrop Frye, Octavio Paz, Umberto Eco, Luciano Berio. “Lo spettacolare precedente del Poetics of Music in the Form of Six Lessons di Igor Stravinskij – proposto sotto forma di Norton Lectures nel 1939-40 e pubblicato dalla Harvard University nel 1970 – dimostra che un lungo ritardo nel passaggio alla stampa non priva necessariamente l’opera della sua rilevanza. Le lezioni di Borges sono interessanti oggi quanto lo erano state tre decenni fa” commenta Cālin-Andrei Mihāilescu nel saggio Di questa e di quell’arte versatile posto in chiusura del volume.
Il mestiere della poesia è un’introduzione alla letteratura, ma soprattutto ai gusti di Borges stesso, ai suoi scrittori preferiti, ai libri che hanno lasciato un’impressione indelebile nella sua vita. Conversa con autori e con testi che non ha mai smesso di amare e citare a memoria, e che vanno da Omero, Virgilio, il Beowulf, l’Edda, Le mille e una notte, al Corano e alla Bibbia, a François Rabelais, Miguel de Cervantes, William Shakespeare, John Keats, Heinrich Heine, Edgar Allan Poe, Robert Louis Stevenson, Walt Whitman, James Joyce, e ovviamente se stesso. Visto che abbiamo citato Whitman, ne Il credo di un poeta, un testo confessionale, una sorta di autobiografia letteraria, Borges fa a un certo punto un’affermazione di capitale importanza:

“All’inizio, ad esempio, ero convinto, come tanti giovani, che il verso libero fosse più facile del verso in rima. Oggi sono quasi sicuro che il verso libero sia molto più difficile delle forme in rima o di quelle classiche. La prova – se ce ne fosse bisogno – è che la letteratura è cominciata in versi. […] perciò, a meno che non siate Walt Whitman o Carl Sandburg, il verso libero è più difficile”
(Borges, 2024a).

Questo sì che è un tema tecnico di grande rilievo per chi scrive poesia, soprattutto per chi inizia a comporre, ma non solo. Poteva originare un saggio, una conferenza a parte. Eppure questo argomento spunta quasi inaspettato, come parentesi all’interno di una conferenza (appunto Il credo di un poeta) fortemente orientata alla rievocazione del proprio apprendistato di lettore e scrittore.

L’enigma della poesia
È sempre affascinante sentir parlare Borges (i testi hanno proprio il sound e le movenze tipiche, inattese, dei discorsi non letti, ma improvvisati) di poesie e scrittori legati a momenti e fasi della sua vita. Nella conferenza d’apertura, L’enigma della poesia, il primo testo citato è una poesia di Keats poco nota al grande pubblico: On first looking into Chapman’s Homer, da noi tradotta come Appena letto l’Omero di Chapman:

“l’emozione che traevo dalla poesia di Keats risiedeva proprio in quel lontano momento della mia infanzia, a Buenos Aires, quando per la prima volta avevo ascoltato mio padre leggerli ad alta voce”
(ibidem).

Il ricordo del padre e della sua biblioteca torna anche ne Il credo di un poeta che chiude questo ciclo di conferenze ed è il testo più autobiografico. Dopo aver precisato, all’inizio, e con molta modestia, di vedersi più come lettore che come autore (“ritengo che quello che ho letto sia molto più importante di quello che ho scritto”), Borges rievoca una sera di circa sessant’anni prima, nella biblioteca paterna, a Buenos Aires:

“La vedo, vedo la luce a gas, potrei posare la mano sugli scaffali. So bene dove trovare le Mille e una notte di Richard Burton e la Conquista del Perù di William Prescott, anche se la biblioteca non esiste più. Faccio ritorno a quell’ormai remota sera sudamericana e rivedo mio padre. Lo rivedo in questo stesso momento e ascolto la sua voce dire parole che non capisco, ma che, tuttavia, sento. Quelle parole vengono da Keats, dalla sua Ode to a Nitghtingale (Ode a un usignolo). L’ho riletta moltissime volte, come avrete fatto anche voi, ma voglio di nuovo tornarci sopra”
(ibidem).

Il fascino del Borges conferenziere risiede anche in questo: affrontare e discutere da lettore (e lui fu un lettore specializzato, compulsivo e diversificato per generi e autori) un tema con competenza e leggerezza, con un taglio non troppo cattedratico né tecnico: non da professore, insomma. Una testimonianza della fama di conferenziere awesome, incantevole e degno di reverenza, di cui Jorge Luis Borges fu ed è tuttora aureolato, ci è offerta da un ricordo dello scrittore peruviano (morto quest’anno, poco prima di Pasqua), Mario Vargas Llosa:

“Ho la civetteria di credere che, nell’anno 1963, sono stato testimone del coup de foudre o amore a prima vista dei francesi per Borges. Era venuto a Parigi per partecipare a un omaggio a Shakespeare organizzato dall’Unesco, e l’intervento di questo anziano precoce e semi invalido, che Roger Caillois presentò con una retorica effervescenza, sorprese tutti. Prima di lui aveva parlato il sagace Lawrence Durrell, paragonando il Bardo con Hollywood, e dopo Giuseppe Ungaretti, che lesse con talento istrionico le sue traduzioni in italiano di alcuni sonetti di Shakespeare. Ma il discorso di Borges, in un francese pulito, nel quale fantasticava sul perché certi creatori diventano simbolo di una cultura – Dante di quella italiana, Cervantes di quella spagnola, Goethe di quella tedesca – e su come Shakespeare si era eclissato affinché i suoi personaggi risultassero più nitidi e liberi, sedusse per la sua originalità e raffinatezza”
(Vargas Llosa, 2022).

È abbastanza tipica del Borges che tratta temi inerenti alla letteratura e alla poesia, questa oscillazione tra il lato intuitivo (“Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna, un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, perché diluirla in altre parole, che saranno di sicuro più deboli delle nostre emozioni?”, Borges, 2024b) e l’analisi degli strumenti espressivi della poesia in particolare, come la metafora, cui dedica la conferenza centrale del libro. Dal momento che abbiamo parlato di Omero, riprendiamo un’osservazione di Borges relativa a un’immagine tipica, quasi formulare, della poesia omerica: l’οινοψ ποντος la cui traduzione inglese è “the wine-dark sea” (“il mare nero come il vino”). “Credo che la parola dark sia stata inserita per rendere più bella la vita del lettore – commenta Jorge Luis Borges ne L’enigma della poesia, la prima delle conferenze tenuta nel ciclo delle Charles Eliot Norton ad Harvard. Forse doveva essere «the winy sea» («il mare vinoso») o qualcosa del genere. Sono sicuro che, quando Omero (o i vari greci che hanno trascritto Omero) usò quest’espressione, stava semplicemente pensando al mare; l’aggettivo era comune. Ma oggi, se io o uno qualunque di voi, dopo aver provato molti fantasiosi aggettivi, scriviamo in una poesia «il mare nero come il vino», non è solo una ripetizione di quello che greci hanno scritto, ma, piuttosto, un ritorno alla tradizione”.

In realtà, ancora oggi l’espressione omerica del mare rosso o violaceo, color del vino, può suonare ardita per la nostra comune sensibilità cromatica: di solito si associa al mare il colore blu o verde nelle loro variegate tonalità. E sempre in ambito di poesia omerica, sarebbe piaciuta molto a Borges l’immagine dei fiocchi di neve d’inverno ai quali vengono paragonate (Iliade, libro III, versi 221-224) le parole di Odisseo. Similitudine tanto affascinante quanto misteriosa nel senso di spiazzante. Le parole di Odisseo che scendono dense “come fiocchi d’inverno” è degna di un poeta moderno o contemporaneo. Così come “il cuore nero forgiato da gelida fiamma” in un verso di Pindaro citato da Plutarco nel De sera numinis vindicta (I ritardi della punizione divina). Nella conferenza La metafora (16 novembre 1967) Borges discute, prendendo spunto da Leopoldo Lugones, il modo in cui, attraverso i secoli, i poeti hanno usato e abusato degli stessi modelli metaforici che possono ridursi a dodici “affinità sostanziali”. In questo saggio Borges commenta molti versi di autori, da quelli attribuiti a Omero (il “ferreo sonno della morte” è una suggestione che il Bardo di Buenos Aires deve aver confuso con i versi di Virgilio tradotti da John Dryden), fino a poeti americani del Novecento come E.E. Cummings passando per le kenningar (parafrasi multinominali usate al posto di un nome singolo) molto comuni nell’antica poesia tedesca, specialmente nella poesia scaldica, per chiudere con una similitudine di Lord Byron in una poesia che Borges lesse da ragazzo e riscopre in questo frangente sotto una nuova luce:

“Non ho mai pensato a Byron come a un poeta particolarmente complesso. Tutti conoscete le parole «She walks in beauty like the night» («Lei in beltà incede, come la notte»). Il verso è così bello che lo diamo per scontato. Pensiamo: “Be’, avremmo potuto scriverlo anche noi, se avessimo voluto”. Ma solo Byron è riuscito a scriverlo”
(Borges, 2024a).

In queste parole tanto semplici, commenta Borges, c’è una doppia metafora: “una donna viene paragonata alla notte, ma la notte viene paragonata alla donna. Non so, e non m’importa se Byron lo sapesse o meno. Penso che se l’avesse saputo, difficilmente il verso sarebbe stato bello com’è”. Qui, nel verso di Byron, la notte è associata alla bellezza femminile, e non, come accade in una poesia di Heinrich Heine, alla morte: “Der Tod dass ist die frühe Nacht” (“La morte è come una gelida notte”).

Le perplessità (calcolate) di Borges
Nonostante la sua tipica, oggi si direbbe iconica, erudizione, lo scrittore argentino dichiara in apertura della prima lezione, L’enigma della poesia: “Ho solo le mie perplessità da offrirvi. Sono prossimo ai settant’anni, ho dedicato la maggior parte della mia vita alla letteratura e posso offrirvi solo dubbi” (ibidem). Una dichiarazione socraticamente studiata, per arrivare a dire, fra l’altro, che non è possibile ridurre la definizione di poesia al solo campo dell’osservazione formale di principi e norme stilistiche.

“Un libro è un oggetto fisico in un mondo di oggetti fisici. È un insieme di simboli morti. Poi arriva il lettore giusto e le parole – o meglio la poesia che sta dietro le parole, perché le parole in sé sono semplici simboli – tornano in vita. Ed ecco la resurrezione della parola”
(ibidem).

Se è vero che la biblioteca – come scrisse Ralph Waldo Emerson – è una specie di grotta magica piena di uomini morti che possono essere rianimati quando si sfogliano le loro pagine, se è, inoltre, vero che il sapore della mela non si trova nella mela né nella bocca di chi la mangia – altra metafora usata da Borges che riprende Berkeley – la poesia è ogni volta una nuova esperienza: “E, tutte le volte che leggo una poesia, l’esperienza accade. Ecco che cos’è la poesia”. Ricorda molto la frase del pittore americano James McNeill Whistler che, durante una discussione in un caffè di Parigi su come fattori sociali, politici persino ereditari influenzino l’arte, disse “l’arte accade”. Come per dire, c’è qualcosa di misterioso nell’arte. Borges prosegue: “l’arte accade ogni volta che leggiamo una poesia”. E va avanti aggiungendo – ha appena aperto una parentesi su una breve storia del libri – che la maggior parte dei grandi maestri dell’umanità non sono stati degli scrittori, bensì oratori: Pitagora, Cristo, Socrate, Budda. “E poiché ho citato Socrate, vorrei dire una cosa su Platone. Ricordo che George Bernard Shaw disse che Platone fu il drammaturgo che inventò Socrate, allo stesso modo in cui i quattro evangelisti furono i drammaturghi che inventarono Gesù” (ibidem).

La passione per l’epica
Nella terza di queste conferenze (La narrazione di un racconto), i Vangeli sono definiti da Borges come un’epica divina. Borges non ama molto il genere del romanzo, anche come lettore, se escludiamo alcune eccezioni come Conrad e Kipling (“un altro scrittore che aveva senso epico”). “Mi è stato domandato perché io non mi sia mai cimentato con un romanzo. La pigrizia, naturalmente, è la prima risposta. Non ho mai letto un romanzo senza provare una certa stanchezza” (ibidem). Borges ha certamente letto con maggior piacere e puntiglio l’epica che i romanzi. È con la poesia epica che nasce la letteratura occidentale e nell’epica confluiscono due fiumi che poi si separeranno, la poesia e la narrazione. Dopo l’Iliade e l’Odissea, Borges identifica nei Vangeli una terza grande epica.

“Veniamo adesso a un «terzo poema» che si profila ben al di sopra degli altri due: i quattro Vangeli. Anche i Vangeli possono essere letti in due modi. Dal credente vengono interpretati come la strana storia di un uomo, di un dio, che redime l’umanità dal peccato. Un dio che accetta di soffrire, di morire sull’amara croce, come dice Shakespeare. C’è un’interpretazione ancora più curiosa, che ho trovato in William Langland: l’idea secondo cui Dio voleva sapere tutto della sofferenza umana, non bastandogli di conoscerla intellettualmente, alla stregua di un dio; voleva soffrire al pari di un uomo. […] Si può dire che per molti secoli queste tre storie – il racconto di Troia, quello di Ulisse, quello di Gesù – siano state sufficienti all’umanità”
(ibidem).

Per Borges la fine dell’epica coincide con l’affermazione del romanzo borghese – che ne è, tuttavia, una prosecuzione moderna – e del cinema poi, e con l’uscita di scena della figura dell’eroe antico e medievale.

“Nell’epica – e potremmo intendere i Vangeli come una specie di epica divina – si poteva trovare di tutto. Ma la poesia, come ho detto, è andata deteriorandosi; o meglio, da una parte ci sono la poesia lirica e l’elegia e, dall’altra, la narrazione di un racconto, il romanzo. Si è quasi tentati di vedere il romanzo come la degenerazione dell’epica, nonostante scrittori come Joseph Conrad o Hermann Melville. Perché il romanzo rinvia alla dignità dell’epica”
(ibidem).

Stupisce una cosa: in questo ciclo di lezioni pubblicate ne Il mestiere del poeta, Borges parla pochissimo di un autore e di un’opera che sono stati, invece, fondamentali per la sua formazione: Dante Alighieri e la Divina Commedia. “Non conosco altro italiano che quello che mi ha insegnato Dante e quello che mi ha insegnato Ariosto quando, più tardi, ho letto l’Orlando Furioso” (Borges, 2024b). La riflessione sul poema dantesco apre una serie di sette conferenze che Borges tenne per sette sere nel 1977, onde offrire al pubblico un compendio delle sue (vaste) letture. A proposito di Dante, racconta quando esattamente cominciò a leggere la Divina Commedia:

“Tutto ebbe inizio poco prima della dittatura (quella del colonnello Juan Domingo Perón, nel gennaio 1946, ndr). Ero impiegato in una biblioteca del Barrio Almagro. Abitavo in calle Las Heras, angolo Pueyrredón, dovevo percorrere su lenti e solitari tram il lungo tragitto che da nord va fino ad Almagro Sud, a una biblioteca in avenida La Plata all’altezza di calle Carlos Calvo. Il caso (ma non esiste il caso, ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza del complesso meccanismo della causalità) mi fece imbattere in tre volumetti nella libreria Mitchell’s, oggi scomparsa, e che mi evoca tanti ricordi. Quei tre volumi (avrei dovuto portarne uno come talismano oggi) erano l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, tradotti in inglese da Carlyle, ma non Thomas Carlyle […] prima leggevo un brano, una terzina, in prosa inglese; poi leggevo lo stesso brano, la stessa terzina, in italiano. Quindi leggevo l’intero canto in inglese, e poi in italiano”
(Borges, 2024b).

Nei Nove saggi danteschi, Borges ricorda uno degli aspetti più sconcertanti e originali della Divina Commedia: Dante credeva veramente nelle sue visioni a tal punto che anche noi lettori abbiamo la certezza di seguire il poeta in mondi reali, non fittizi. In altre parole, leggendo Viaggio al centro della terra di Jules Verne, si sa di trovarsi di fronte a un resoconto immaginario, per quanto realisticamente descritto. Con Dante, no, non si ha mai la sensazione di leggere una “fabula”, una “fictio poetica”, ma una vera visione. Ecco perché (quasi tutti) i lettori sanno che l’aldilà dantesco è un mondo reale, vero, più vivo del quotidiano oltretomba terrestre. Ne Il credo di un poeta ritornano autori e testi iconici per Borges: Le mille e una notte, Huckleberry Finn (uno dei primi libri che lesse), Don Chisciotte, Foglie d’erba di Walt Whitman (scoperto nel 1916 quando Borges viveva a Ginevra) e il Sartor Resartus di Thomas Carlyle; Carlyle stimolò lo scrittore argentino a studiare il tedesco indirizzandolo verso Arthur Schopenhauer, Friedrich Hölderlin, Gottohold Ephraim Lessing. Lingua che si affianca all’inglese antico e al norreno fra le passioni del Borges poliglotta e filologo.

“Se devo definire la poesia, e la cosa mi spaventa un po’, se sono incerto, mi ritrovo a dire: «La poesia è l’espressione del bello mediante parole artisticamente intessute tra loro». Questa definizione può essere accettabile per un dizionario o per un libro di testo, ma ce ne accorgiamo tutti che è piuttosto debole. […] Sappiamo che cos’è la poesia. E lo sappiamo così bene, che non possiamo definirla in altre parole, proprio come non possiamo definire il gusto del caffè, il colore rosso o giallo, o il significato della rabbia, dell’odio, dell’alba, del tramonto, o l’amore per il nostro Paese. Sono cose così radicate dentro di noi, che posso essere espresse solo da quei simboli comuni che tutti condividiamo”.
(Borges, 2024a).

Grande e versatile erudito, lo scrittore argentino non dà (non vuole dare) una definizione categorica e univoca di poesia, lui che è poeta non meno che scrittore di racconti. Ma nelle Norton Lectures borgesiane sulla poesia troviamo tutte e cinque le virtù della scrittura (ideale) che danno il titolo alle “lezioni americane” di Calvino: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.

Letture
  • Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Racconti brevi e straordinari, Adelphi, Milano, 2020.
  • Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano, 2014.
  • Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, Adelphi, Milano, 2014.
  • Jorge Luis Borges, Finzioni, Adelphi, Milano, 2014.
  • Jorge Luis Borges, Il mestiere della poesia, Luiss University Press, Roma, 2024a.
  • Jorge Luis Borges, Sette sere, Adelphi, Milano, 2024b.

  • Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2022.
  • Mario Vargas Llosa, Mezzo secolo con Borges, Le Lettere, Milano, 2022.