Invito allo spaesamento
in lingua patafisica

Julio Cortázar
Il giro del giorno in ottanta mondi
Traduzione: Eleonora Mogavero
SUR, Roma, 2017
pp. 330, € 18,00

Julio Cortázar
Il giro del giorno in ottanta mondi
Traduzione: Eleonora Mogavero
SUR, Roma, 2017
pp. 330, € 18,00


Un libro “sebbene abbia un solo dorso, possiede cento volti”, scriveva così il poeta persiano Naser-e-Khosrow in un tempo e in uno spazio lontanissimi. È lo stesso Julio Cortázar a citare il teorico islamista del XI secolo nel suo Sul sentimento del fantastico, tra i brani più celebri de Il giro del giorno in ottanta mondi, un capolavoro della letteratura del Novecento di nuovo tra gli scaffali. Questo libro, che ha un solo consistente dorso, possiede però innumerevoli volti, storie, ricordi, racconti, riflessioni, fotografie, illustrazioni, ritagli e articoli di giornali. Più che un almanacco, un’enciclopedia personale, come lo ha definito Eleonora Mogavero autrice della traduzione italiana, ora riproposta da SUR (a circa undici anni di distanza dalla prima edizione italiana di Alet). Il compendio di una vita straordinaria, fantastica per scelta, strappata dalla routine, dislocata dai binari abituali del pensiero, capovolta per un altissimo senso di onestà intellettuale, che nell’alterità delle cose trova la sua forza e la sua ragion d’essere. Un testo anarchico, una partitura jazz suonata da Louis Armstrong, un incontro di boxe con Jack Dempsey, un’opera dadaista firmata Man Ray, una passeggiata nell’assurdo, un viaggio spericolato verso l’ignoto. In qualche modo assai simile a quello che Jules Verne fa compiere al suo Phileas Fogg.

Insolite coordinate di lettura
Bisogna avere una naturale predisposizione alla follia e una qualche attitudine all’abbandono per approcciare la lettura di questo classico cortazariano e non farsi cogliere da improvvisa labirintite.
Servono, pertanto, lettori complici, spavaldi e appassionati, in grado di farsi strada con disinvoltura tra i molteplici cortocircuiti logici, di affrontare con leggerezza la polisemia del linguaggio, il surrealismo di certe situazioni, lo scardinamento di luoghi, di facce, di corpi, di accettare, come si fa con l’ineluttabile, la schizofrenia del punto di vista, il gioco degli specchi che rimanda la narrazione sempre altrove, di abbandonare – ecco l’attitudine più richiesta – ogni possibile appiglio, suggerito dalla ragione o dalla pigrizia. Naufragare, insomma, senza l’ossessione del qui e ora. Senza etichette di genere o gabbie o guinzagli di senso. Dobbiamo imparare a vacillare come unica possibilità di fruizione e, volendo, di comprensione.

Costruire un racconto, quando raccontare “sarebbe mettere ordine come chi imbalsama gli uccelli”, diventa, dunque, per chi legge, un’impresa tanto ambiziosa quanto inutile. Siamo di fronte a quella che Anna Boccuti su Quaderni d’Altri Tempi ha sapientemente definito “letteratura d’invasione, dell’inaudito, dell’indicibile, dell’illogico, in una parola, delle forze oscure dell’irrazionale che si insediano al centro del testo e della realtà che esso tenta di raccontare”. L’intera opera di Cortázar, come la sua stessa esistenza, è, infatti, eccentrica, ossia lontana dal centro, dislocata per sua stessa ammissione, priva di equilibrio. È il gioco del bambino che osserva il mondo a testa in giù e impara a conoscerlo attraverso le mani, gli occhi, la lingua, in modo non concettuale, ma istintuale. È uno sguardo magico, primitivo, che nel poeta e nel criminale (in dosi diverse, ci tiene a precisare lo scrittore argentino) rimane come un residuo sul fondo della coscienza adulta e ammaestrata alla realtà, a testimonianza di un estraniamento irrisolvibile.

“A volte sono più grande del cavallo che monto, e certi giorni cado dentro una delle mie scarpe e prendo una botta terribile, senza contare la fatica per uscirne, le scale fabbricate nodo dopo nodo con i lacci e l’orribile scoperta, una volta arrivato al bordo, che qualcuno ha riposto la scarpa in un armadio e che sto peggio di Edmond Dantès nel castello d’If che negli armadi di casa mia non c’è neppure un abate a portata di mano. […] Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da quella parallasse effettiva, da questo essere sempre un po’ a sinistra o più sul fondo rispetto al posto in cui si dovrebbe essere perché tutto si risolva in modo soddisfacente in un altro giorno di vita senza conflitti”.

La parola stessa diventa in Cortázar occasione ludica di stravolgimento dell’ordine costituito. Non più vessillo dell’autorevolezza e della serietà di certi letterati, ma strumento per schernirle. Il linguaggio che riflette sul linguaggio a partire dal significante per arrivare al significato. Ne è un esempio il brano umoristico Grave problema argentino: caro amico, egregio, o il nome e basta, in cui lo scrittore riflette su una questione spinosa per qualsivoglia romanziere o poeta argentino che decida di scrivere a un collega, cercando di unire la verità (il significato) alla cortesia (il significante) ovvero l’intestazione della lettera. Spiega così al lettore, se non divertito, sicuramente esterrefatto, come ogni appellativo di norma utilizzato, seppure apparentemente innocuo, nasconda dei terribili conflitti: caro, ad esempio, è eccessivo, senza considerare l’aggravante per cui, quando usato, esso cela una menzogna bella e buona; egregio, al contrario, è algido, sono tre sillabe di freddissima indifferenza, più adatte a un annuncio di sfratto che a uno scambio epistolare tra intellettuali. Neanche altri termini, come gentile o maestro, sembrano tuttavia andar bene, volgare la prima, affettata la seconda. E, dunque, come risolvere l’impasse? Tentando di rovesciare lo scrittoio al quale si è comodamente seduti, abbattendo convenzioni stantie che impediscono di assumere un punto di vista differente.

“Noi argentini abbiamo bisogno che ci tolgano di dosso un po’ di amido, che ci insegnino a scrivere con naturalezza: «Amico Frumento, grazie per il tuo ultimo libro», o con affetto: «Sciagurato, ma che razza di romanzo mi mandi?», o con distacco ma sinceramente: «Fratello mio, con tutte le possibilità che c’erano nella frutticultura», modi per entrare nel merito della questione che concilino la veridicità con la semplicità. Ma sarà difficile, perché siamo tutti egregi o cari, ed è così che vanno le cose”.

Mancanza di naturalezza, ma anche di personalità. In Non c’è peggior sordo di chi, Cortázar accusa certi scrittori, suoi connazionali, di totale mancanza di stile narrativo e di sordità letteraria. Un abuso di parole in una lingua impoverita è l’orribile paradosso di cui è schiava gran parte della bibliografia argentina e che ci viene raccontato con sprezzante e geniale ironia:

“«Glielo dissi una mattina nella latteria, con i nostri gomiti poggiati sul marmo freddo», come se si potessero appoggiare i gomiti della bisnonna o come se il marmo delle latterie fosse normalmente in ebollizione; […] per non parlare di quelli che spiegano come «prendendole il viso fra le due mani» ecc., precisazione dalla quale si potrebbe dedurre che ci sono altre persone capaci di prenderglielo fra tre o fra otto”.

La riflessione sulla lingua diventa occasione di un’amara riflessione politica sul paese e sulla sua élite culturale, di un’indagine sulle ragioni che hanno trasformato le parole in pezzi di carne putrefatta, che hanno finito per banalizzare la struggente e tormentata relazione tra scrittore e lettore, trasformandola in un meccanico e noioso accoppiamento animale, come quello tra un gallo e una gallina. Scoprendo poi che questo deliberato impoverimento dell’espressione non è da attribuire né al sistema scolastico, con i suoi programmi e le sue letture obbligatorie, né tantomeno all’influenza neutralizzante delle traduzioni di massa, bensì possiede una radice morale, un vizio di indole, quell’“ozio rioplatense” – svogliatezza, improvvisazione e faciloneria – colpevole di aver strappato entrambe le orecchie a un numero considerevole di autori argentini.
L’invito per il lettore-alleato è di farsi carico senza pregiudizi della parallasse dello scrittore e di riuscire a scovare nei molteplici territori che gli si aprono innanzi, pagina dopo pagina, illustrazione dopo illustrazione, citazione dopo citazione, l’inedito e il perturbante.

Ci chiede, ad esempio, di immaginare una giornata sprofondati al suolo, di camminare per casa o per strada mentre le mattonelle e l’asfalto ci risucchiano lentamente, prima fino ai lacci delle scarpe, poi fino alla vita e poi del tutto, nell’indifferenza di amici e parenti. È quello che succede al protagonista senza nome di La carezza più profonda, richiamo palese a La metamorfosi kafkiana. Lì il commesso viaggiatore Gregor Samsa si risvegliava una mattina nel corpo di uno scarafaggio gettando nel terrore l’intera famiglia, nel brano di Cortázar, invece, nessuno sembra accorgersi di questo sprofondare inesorabile. Spersonalizzazione, alienazione, solitudine, spiazzamento e ambiguità sono i temi che accomunano entrambi gli scritti. I loro protagonisti rappresentano, nelle orrende metamorfosi fisiche, quella diversità condannata dalla società al silenzio, resa invisibile dall’indifferenza o mortificata dalla paura.
E di diversi, di altri, l’universo di Cortázar o, come lo ha chiamato Italo Calvino, il suo porta-anime è pieno. Anche questo testo riporta le storie di alcuni cronopios e famas,

“due genie di esseri danzanti e pullulanti, o categorie antropologiche primordiali […] I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi […] che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per vedere volare al vento festoni di dentifricio rosa”.

Picasso o Armstrong sono grandissimi cronopios, per capirci, lo sono Friedrich Nietzsche e Adolf Wölfli, ma in qualche misura lo sono anche Jack Lo Squartatore e Mary Kelly. Poeti, pazzi e criminali – “questione di scelte: ora gioco, ora uccido” – sono la miccia del mondo, il canto a squarciagola, lo stupore del fanciullo, la passione, il sesso, il sangue, la nudità, la danza dei Maori, il camaleonte, la contraddizione, la penetrazione affettiva all’esistenza, il desiderio.
Il racconto di questa umanità e di quell’altra, fatta di dépliant e mappe, regole, mode, commissariati, efficienza e ordine, rende il Il giro del giorno in ottanta mondi un’opera in grado di resistere al calendario e alle geografie.

Letture
  • Anna Boccuti, Finzioni, Istruzioni per il montaggio, in Quaderni d’Altri Tempi 57.
  • Julio Cortázar, Storie di cronopios e di famas, Einaudi, Torino, 1997.
  • Julio Cortázar, Componibile ’62, SUR, Roma, 2015.
  • Franz Kafka, La metamorfosi, Einaudi, Torino, 2008.