Rettili immobili al Sud:
I Basilischi wertmülleriani

Lina Wertmüller
I basilischi
Cast principale: Antonio Petruzzi,
Stefano Satta Flores, Sergio Ferranino,
Rosanna Santoro
Produzione: Galatea Film, 1963
Home video: CG Entertainment, 2023

Lina Wertmüller
I basilischi
Cast principale: Antonio Petruzzi,
Stefano Satta Flores, Sergio Ferranino,
Rosanna Santoro
Produzione: Galatea Film, 1963
Home video: CG Entertainment, 2023


Siamo nel 1963, l’annus mirabilis per la cultura italiana, un exploit irripetibile: in libreria appena stampati c’erano di Carlo Emilio Gadda La cognizione del dolore e di Alberto Arbasino Fratelli d’Italia (a fianco per esempio a Rien va di Tommaso Landolfi, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg e il Diario minimo di Umberto Eco); al cinema uscivano assieme al felliniano e Il Gattopardo di Luchino Visconti, anche La visita di Antonio Pietrangeli e Ieri, oggi, domani, con il quale Vittorio De Sica si aggiudicò l’Oscar per il miglior film straniero, e intanto si fondava Adelphi (che stagioni!). Lina Wertmüller esordisce al cinema con I Basilischi, rimesso a lucido per il mercato home video da CG Entertainment che lo propone per la prima volta in alta definizione grazie alla collaborazione con IntraMovies e alla campagna di crowdfunding Start UP.
Pur con l’immensa fortuna di aver fatto da aiuto regista a Fellini in anni cruciali, non era così scontato che il suo debutto sarebbe poi stato così immacolato nella forma, seppure lievemente datato nel contenuto. Si tratta infatti di una variazione su I vitelloni, già dichiarata nel titolo animaleggiante, e poi quasi esplicita in un paio di dialoghi. Il film di Federico Fellini (che allora compiva ormai dieci anni) aveva rischiato, con i suoi sfaccendati un po’ sognanti e un po’ sfigati, di creare un sottogenere tutto suo, come poi sarebbe avvenuto con , basti pensare ai vari Effetto notte (François Truffaut, 1973), Stardust Memories (Woody Allen, 1980),  Sogni d’oro (Nanni Moretti, 1981)… Ma in questo caso c’è una differenza importante, perché qui i giovani protagonisti nullafacenti risiedono in una terra all’epoca cinematograficamente vergine: la remota provincia lucano-pugliese.

Pier Paolo Pasolini ci sarebbe arrivato proprio quell’anno, per Il vangelo secondo Matteo. Come precedente, dovrebbe esserci solo La legge di Jules Dassin, che è del 1959, girato a Carpino e tratto da un romanzo basato sulle esperienze di Roger Vailland nel Gargano del dopoguerra – che però per motivi insondabili è narrativamente spostato in Corsica, con tanto di didascalia iniziale e dialoghi con riferimenti all’isola (forse per de-italianizzare personaggi dalla moralità tutt’altro che lodevole, come appunto apparivano agli occhi di un francese in visita). Inoltre, la Wertmüller usa la saggia accortezza di farsi circondare da collaboratori d’eccezione: Ennio Morricone, Ruggero Mastroianni al montaggio, ma soprattutto Gianni di Venanzo, direttore della fotografia eccelso mutuato direttamente da Fellini, per il quale aveva creato l’incredibile bianco e nero di e l’allucinante fantasmagoria di Giulietta degli spiriti, e che in questo film ripete il miracolo (non sapremo mai quali meraviglie ha sottratto al cinema italiano la sua morte prematura, come l’altra di Antonio Pietrangeli). Il risultato è che i paesaggi scelti appaiono bellissimi, ancora privi com’erano di ecomostri e imbottigliamenti di automobili in borghi da cinquemila abitanti, borsellini a tracolla e delinquenze dilaganti con depilazioni full-body e ciglia disegnate che fanno misteriosamente convergere l’aspetto dei malviventi verso certe apparizioni dei Gay Pride.

Scorci da sogno, inquadrature anche coraggiose (la strada, o meglio lo struscio, ripreso in orizzontale, come fanno oggi gli americani o i sudcoreani nei film d’azione), campi e primi piani abbaglianti e molto studiati, dove di nuovo si respira Fellini (ma a quel punto lo copiavano tutti, doveva essere abbastanza ingombrante: un altro esordiente del ’63, Marco Ferreri, faceva lo stesso ne L’ape regina), come felliniane sono brevi sequenze di poesia un po’ sospesa: la controra dell’inizio, il bambino che balla il twist nella piazza deserta, i turisti da Roma (si cita anche la “Ekbèrg”), e naturalmente il doppiaggio virtuoso, benissimo orchestrato, senza troppe calcature, in perfetto equilibrio tra verità e finzione, con l’effetto miracoloso di non scadere mai nella macchietta (che qui sarebbe fin troppo facile: lo dimostra tutto il prolasso comico-demenziale pugliese dagli anni Ottanta in poi). Tutto però declinato piuttosto sul versante sociale (diventerà la specialità wertmülleriana), tant’è che, col suo ritratto corale del paesino, a tratti da I vitelloni si passa quasi a un anticipo di Amarcord, se non al viscontiano Rocco e i suoi fratelli.
Infatti, sul versante dei contenuti, bisogna dire che il film regge bene proprio come equilibrato – né troppo serioso né troppo caricaturale – ritratto di costume, bilanciato tra ricerca sul campo e poi però profonda rielaborazione per l’intrattenimento, come si faceva una volta, intensiva, con apporti anche multipli (Fellini in giro di notte con Ennio Flaiano nella realtà squallida delle prostitute, ma poi viene fuori Le notti di Cabiria). Proprio il contrario di tanti film, soprattutto odierni, che si prefiggono di “parlare di” qualche situazione (di solito sociale e degradata), e poi finiscono per mettere in fila i soliti cliché senza la minima manipolazione: o tutto desolamento crudele e soffocante, con risultati involontariamente ridicoli, o tutto varietà scoreggione per pubblico amente.

L’aspetto forse più emblematico a rivedere questo film adesso è che oggi, rispetto al 1963, sembra che nella provincia pugliese nulla sia cambiato: nei fatti, nei modi, negli atteggiamenti, perfino nell’arredo (casomai non si usano più le testiere del letto monumentali, ma non è detto). Per esempio, com’è noto, resta vero che dopo pranzo si va a dormire, come nell’incipit molto bello, che forse voleva essere neorealista ma poco gli manca per trasformarsi in Ciprì e Maresco, o anche un po’ nella scena degli spaghetti al ristorante in Tampopo (1985) di Jûzô Itami. Sono ancora veri i circoli culturali, di ormai sdentati, sedicenti comunisti (o fascisti orgogliosi, la differenza è impercettibile), ma senza cognizioni di causa. È vero che il malocchio è tuttora considerato legge scientifica. Sono vere le madri chiocce con le figlie befane svendute al primo che capita. È vero che un uomo che lì non parla spesso è additato con sospetto (“pecché st’ semp’ zitt’? Ma che tien’ in test’, che va pensann’?”). È vero che i libri sono assolutamente banditi (“Libbri gièlli, me n’ha prestat tre o quattr”. “Cóum?! E che sarebb questa novità? In chésa nostr non ha mai lett niend nessùn. Adess arriv tu e ti dà’ a la letteratóur”). È vero che per strada deve regnare (controra esclusa) un rumore costante che serva come alibi per impedire qualsiasi lavoro mentale (i bambini per strada mentre Antonio studia: “oh, v’ vulìt sta’ zitt’?! Hann’ da’ fastidj a l’cristian’… Ooohu!” “Eh, Don Ando’, so’ criatuur, giok’n” “daall’» «non pozz studiar’, m fa’ mal’ a cap’»). È vero il ripudio dell’istruzione e di qualsiasi potenziale miglioria (“ma ‘sta laurea, che ve la prendéte a fare”), è vero ancora oggi il rimpianto per il porco in casa: “dice che è incivile, e addio salamin’… ecco cos’ guadagniamo dal progresso”).

È vero che non esiste il contatto umano, considerato innaturale, che sono bandite le dimostrazioni d’affetto, che manca qualsiasi abitudine anche minima al calore (l’addio di Antonio all’amico dal barbiere, il pranzo in totale silenzio, dove ognuno quando ha finito si alza e se ne va). È vero che tra familiari non si parla, al massimo ci si sottopone a lunghe querimonie di genitori esclusivamente scostanti che dicono sempre di no, con insulti anche pesanti lanciati non in un impeto di rabbia, bensì come naturale modo di rapportarsi, e che formano un’unica catena ininterrotta di rimproveri per tutta la vita (di solito se ne occupa la madre; qui però è il padre, stranamente somigliante a Gadda – lui ne sarebbe rimasto inorridito: nelle lettere si lamentava del sudore dei pugliesi e dei peli del suo coinquilino pugliese che si ritrovava in bagno). È vero anche il suicidio improvviso, inatteso, sereno, perfino in tarda età (una scena breve ma bellissima, con una regia cristallina), la morte come scelta positiva, liberatoria, perché altre possibilità non sono concepibili (ancora oggi, la Puglia conta il maggior numero di suicidi per popolazione tra le regioni del Sud; un suicidio c’è anche nel succitato La legge). È vero che non si discute mai, che il dialogo non esiste, che il vociare si impernia solo sul pettegolezzo immediato, su chi ha fatto cosa, e procede al più in botte e risposte sterili, alternanze tra supposizione e negazione, senza sintesi, senza conclusioni: il massimo del dibattito è l’«ehhh», che significa “ma va’, non è così” – e fine: senza mai argomentare, subito capitolo chiuso.

Soprattutto, è vera la mortale inerzia meridionale, questo fatalismo abissale (che dal Sud Italia a Roma di giorno in giorno sale sempre più su, più su…), la rassegnazione a priori a tutto, che fa cadere nel vuoto qualsiasi proposta anche marginale, che bolla subito come impossibile il minimo tentativo di aggiungere o modificare, che anzi ostacola attivamente chi tenta un passo avanti con mitraglie di dubbi paralizzanti, carichi di sottilissimo disprezzo e invidia, un mastice soffocante che impedisce ogni azione (organizziamo una festa – ma non verrebbe nessuno; quella si è presa la laurea – chissà come se l’è presa; potremmo fare… – ehhh, è ‘na parola!). Tutti sempre automaticamente sconfitti, sempre già convinti di non farcela: immobilità incarnata nel film dalla cooperativa per il salame, una proposta semplicissima che pure si rivela irrealizzabile (insomma l’opposto simmetrico della Brianza). Non è un caso che su questo tema si chiuda il film, con i conoscenti di Antonio che resistono criticamente ai suoi resoconti di reduce da Roma, e il vitellone infatti non riparte più.
Se nulla è cambiato (manca giusto la mafia imperante quasi ostentata, eppure la si vedeva all’opera già ne La legge), evidentemente queste sono tutte costanti antropologiche, di cui forse è quasi invano sperare di liberarsi, e che la Wertmüller, grazie alla discendenza paterna, doveva conoscere molto molto bene, nonostante la nascita a Roma, perché la sua descrizione è per ogni sfaccettatura subito azzeccata, senza sbavature. Viene da chiedersi cosa pensasse il pubblico italiano di allora, vedendo un film simile, legato a un’enclave così distinta dal resto d’Italia, e anzi fin troppo poeticizzata: forse si annoiava? A noi oggi resta piuttosto il dispiacere che non esista, a complemento di questo film, un documentario, vero e altrettanto bello, sulla provincia pugliese di allora, un Vittorio De Seta foggiano. Mentre, almeno per i funerali, possiamo accontentarci di Ernesto De Martino.

Visioni
  • Jules Dassin, La legge, Golem Video, 2013 (home video).
  • Federico Fellini, I vitelloni, Medusa Film, 2003 (home video).
  • Federico Fellini, Le notti di Cabiria, Filmauro, 2008 (home video).
  • Marco Ferreri, L’ape regina. Una storia moderna, Prime Video (streaming).
  • Jûzô Itami, Tampopo, Itami Productions, New Century, 1985.  
  • Pier Paolo Pasolini, Il vangelo secondo Matteo, Mustang Entertainment, 2022 (home video).