Misteri preistorici:
arte e origine della religione

Gwenn Rigal
Il tempo sacro delle caverne
Da Chauvet a Lascaux,
le ipotesi della scienza
Traduzione di Svevo D’Onofrio,

95 illustrazioni di Magali Latil
e Philippe Guitton

Adelphi, Milano 2022,
pp. 299, € 32,00

Gwenn Rigal
Il tempo sacro delle caverne
Da Chauvet a Lascaux,
le ipotesi della scienza
Traduzione di Svevo D’Onofrio,

95 illustrazioni di Magali Latil
e Philippe Guitton

Adelphi, Milano 2022,
pp. 299, € 32,00


Erich Neumann (1905-1960), pargolo junghiano, nella sua opera sulla Madre fallica e tellurica, fondamentale per comprendere molte delle psicosi contemporanee, ha descritto con particolari molto suggestivi quello che sarebbe stato un amplesso nel mondo paleolitico, dove donne straordinariamente obese, informi, puri oggetti sessuali, si prestavano a coiti animaleschi, il tutto nel quadro di rituali di fertilità arcaici. L’insigne psicologo aveva colto nel segno?
L’uomo di Cro-Magnon – cioè la forma più antica di Homo sapiens ‒ non viveva in fondo alle caverne, non era particolarmente basso, e i suoi lineamenti non erano più scimmieschi dei nostri. Al contrario, era un uomo del tutto moderno, sia sul piano fisico che su quello intellettuale, e si esprimeva in un linguaggio perfettamente articolato, seppure a noi sconosciuto. Sono le “mere ovvietà” che proclama Gwenn Rigal, per molti anni guida-interprete nella celebre grotta preistorica di Lascaux in Francia. Il suo studio Il tempo sacro delle caverne è un libro molto ben documentato, teso a sfatare molti luoghi comuni sulla Preistoria, in maniera specifica su quel segmento temporale, noto come Paleolitico, entro il quale è collocato l’arrivo dell’uomo moderno nel nostro continente. Gli scienziati hanno a lungo ritenuto che l’entrata in scena dell’Homo sapiens in Europa abbia segnato la comparsa di un comportamento veramente moderno, quello del pensiero simbolico. Ma – precisa Rigal ‒ se le opere d’arte parietali e oggettistiche prodotte in questo periodo dal Cro-Magnon sembravano attestare un cambiamento ontologico della psiche umana, che l’avrebbe radicalmente distinta da forme di umanità più antiche, oggi verifichiamo che non è così, e che la maggior parte delle caratteristiche proposte per definire la modernità dell’Homo sapiens erano già presenti nell’Uomo di Neanderthal. Inoltre, le prime testimonianze di questi presunti tratti moderni ebbero origine in altri continenti e avrebbero anticipato di molto il Paleolitico superiore.

Pittura rupestre nelle grotte di Lascaux.

La scoperta dell’arte delle caverne risale al 1879, in Cantabria (Spagna), quando Marcelino Sanz de Sautuola portò la figlia María, di otto anni, nella grotta di Altamira, di cui aveva appena iniziato gli scavi. Fu lei che, alzando gli occhi al soffitto, esclamò: “Mira, papá! Bueyes!” e consentì a Sautuola di scoprire una delle meraviglie dell’arte parietale europea: i noti bisonti del Soffitto policromo. Una scoperta che portò sfortuna al suo autore, accusato fino alla morte di averli falsificati. Tuttavia le successive scoperte di La Mouthe (1895), Les Combarelles e Font-de-Gaume (1901) dissiparono i dubbi residui. E la pubblicazione, da parte di Émile Cartailhac, del celebre articolo Mea culpa di uno scettico portò all’organizzazione del Congresso di Montauban del 1902, l’atto di nascita ufficiale dell’arte delle caverne. Le prime ipotesi esplicative su tali manufatti erano legate alla nozione di arte per l’arte. Diversi celebri studiosi di preistoria erano animati all’epoca da un feroce anticlericalismo, che li induceva a negare recisamente la religiosità dell’uomo delle caverne. Agli albori del Novecento, la moda intellettuale era ancora quella del buon selvaggio rousseauiano, vissuto in un presunto Eden perduto che gli consentiva un perfetto ozio – come è noto, padre delle arti. Ma le relazioni etnografiche di inizio secolo giunsero presto a svellere quella prima interpretazione, mostrando che l’arte primitiva aveva quasi sempre una vocazione utilitaristica e, per di più, era spesso sovrannaturale.

La teoria del totemismo
Nel 1905 l’archeologo Salomon Reinach (1858-1932) propose la teoria del totemismo, che assimilava gli animali raffigurati agli antenati mitici oppure agli spiriti tutelari degli uomini di Cro-Magnon. Questa spiegazione, presto accantonata, sarà tuttavia frequentemente ripresa. Un’altra spiegazione avrà più successo: quella della magia. La magia della caccia divenne così un fatto acquisito, un tema obbligato, a cui era permesso solo apportare delle migliorie, sulla base delle più recenti ricerche etnografiche. Nel 1951 il noto storico delle religioni Mircea Eliade ispirò agli studiosi di preistoria una nuova variazione sul tema magico con il suo libro Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi. Non si trattava più di assicurarsi i favori dello Spirito della selvaggina, ma degli Spiriti in generale, che indossavano semplicemente una maschera animale.

Pittura rupestre nelle grotte di Altamira.

Lo sciamanesimo, praticato in vaste regioni del mondo, presupponeva l’esistenza di un mondo degli Spiriti col quale era possibile interagire. In quest’ottica, la grotta figurava la porta d’accesso a un mondo sovrannaturale. Mai del tutto abbandonata, la teoria sciamanica ha conosciuto un rinnovato interesse con la pubblicazione, nel 1996, di Les chamanes de la préhistoire, libro scritto a quattro mani dagli studiosi della preistoria Jean Clottes, francese, e David Lewis-Williams, sudafricano, che si sono basati prevalentemente sull’arte rupestre estinta delle popolazioni San del deserto del Kalahari in Namibia. La maggiore novità di quest’opera consiste nell’avere offerto una nuova interpretazione per l’uso dei rilievi naturali, visti come indizi della presenza degli spiriti animali all’interno delle pareti, e per i segni geometrici, assimilati dagli autori ai segni endottici, cioè ai segni visivi percepiti dal cervello umano durante le prime fasi della trance estatica. Oggi, però, le ipotesi magiche e sciamaniche – secondo Rigal ‒ non avrebbero più un grande seguito e il comparativismo etnografico non sarebbe più visto di buon occhio dalla comunità scientifica.
La principale difficoltà che si incontra nel decifrare l’arte delle caverne – afferma il nostro autore ‒ consiste nella distanza temporale che ci separa da essa. Quella di arte è infatti una nozione occidentale, apparsa durante l’antichità classica e riscoperta nel Rinascimento. È concepita come ricerca esclusiva del sentimento estetico, senza un messaggio spirituale, e come tale si è progressivamente diffusa in tutto il mondo al punto che oggi tendiamo a ritenerla una verità immutabile. Ma una rapida ricerca etnografica sulle popolazioni di cacciatori-raccoglitori attuali o subattuali mostra che la loro arte è tutto fuorché gratuita, che chiama in causa spiriti o forze cosmiche e svolge un ruolo importante nella coesione del gruppo. Si può quindi ragionevolmente supporre che i cacciatori-raccoglitori della preistoria non si considerassero artisti nel senso moderno del termine.

Nozione differente di arte e senso diverso del religioso
Allo stesso modo, la presunta religione di Cro-Magnon andrà intesa in un senso più ampio, come il rapporto che un gruppo intratteneva con il sacro o con una realtà superiore; e – sottolinea Rigal ‒ non andrebbe confusa col significato attribuito oggi al termine religione, coinvolgente un clero e un dogma che sovente mettono l’uomo al centro dell’universo. I cacciatori-raccoglitori avevano diverse concezioni dell’ordine naturale, ma sempre molto lontane da quelle prevalenti nell’Occidente. Noi conferiamo all’uomo un posto speciale nel mondo e riserviamo al culto luoghi consacrati, il che ci porta a tracciare un confine netto tra natura e cultura, da un lato, e tra il profano e il sacro, dall’altro. Ma queste distinzioni moderne avevano un senso per l’uomo di Cro-Magnon? Gli indizi a disposizione degli scienziati ‒ che Rigal passa in rassegna ‒ permettono di dubitarne. Il fuoco, gli utensili, le armi e gl’indumenti hanno permesso all’uomo di vivere in un mondo che non aveva ancora pensato di domesticare. Oltre alla soddisfazione dei suoi bisogni primari, egli sviluppò molto presto anche tratti culturali che gli consentirono di rafforzare notevolmente i legami sociali, sia all’interno del gruppo sia tra i vari gruppi.

Pannello in esposizione al museo delle grotte di Altamira.

Queste culture si espressero attraverso l’artigianato, la musica, i canti, le danze, i costumi, le feste, i racconti popolari, le interdizioni, le superstizioni, i rituali individuali e collettivi, le pratiche funerarie e magiche, i miti. Ma di tutto questo oggi non rimane quasi nulla, a parte qualche tomba e pochi resti superstiti dell’arte parietale e oggettistica, attraverso le quali l’uomo preistorico iniziò a dedicarsi moltissimo a simboleggiare. Vale a dire, a caricare un significante (l’immagine, il simbolo) di un significato (il concetto). Secondo questa definizione, il linguaggio è il vettore ultimo della simbolizzazione, poiché parlare equivale né più né meno che a caricare un significante (la parola) di un significato (il concetto). Si tratta della teoria linguistica di Ferdinand De Saussure (1857-1913), per il quale le parole sono già simboli. Tale capacità di astrazione, che nessun altro essere vivente ha sviluppato quanto l’uomo, gli ha permesso di comprendere meglio la realtà classificandola, di combinare concetti tra loro, di farne nascere di nuovi e di condividere il proprio immaginario. Accanto all’arte (su pareti, rocce, ornamenti, armi e utensili), le tombe sono l’unico altro oggetto di simbolizzazione che l’uomo di Cro-Magnon ci ha lasciato. Le sepolture paleolitiche, scoperte a centinaia in tutta Europa, attestano una simbolizzazione del cadavere in un contesto rituale. Il desiderio di sottrarlo all’azione dei predatori implica un’elaborazione se non metafisica (come vorrebbe Rigal) comunque improntata a sondare i destini di un nebbioso Aldilà. Alcune manipolazioni dei cadaveri e alcuni depositi funerari, interpretati come offerte, corroborano quest’impressione; da qui a scorgervi un indizio della credenza in una vita dopo la morte, non v’è che un passo.

Il mondo alieno della caverne
La stragrande maggioranza delle testimonianze sulle culture paleolitiche deriva dalle grotte. Esse sono un luogo molto particolare; sono buie, fredde, umide, il silenzio sepolcrale è interrotto solo dal ruscellamento, dal gocciolìo, dal rumore dei passi e dal respiro dei visitatori. Il chiarore delle torce tiene a bada le tenebre e insieme le anima, proiettando ombre che paiono danzare sui rilievi delle pareti. Gli uomini preistorici spesso visitavano la totalità dei reticoli sotterranei; accadeva così che dipingessero in alto, su luoghi scoscesi, o in profondità, all’interno di pozzi naturali, dimostrando in questo modo il loro desiderio di non trascurare nessuna parte delle cavità durante le loro esplorazioni. Eliade riteneva che il fine fosse verificare la conformità del santuario prima di consacrarlo. Gli uomini non hanno esplorato le grotte per caso, non hanno fatto equilibrismi per dipingere animali in ripide pareti, oppure strisciato per centinaia di metri per dipingere un bisonte che nessuno avrebbe mai visto in uno stretto cunicolo, né inciso un altro cavallo al buio in fondo a una fessura di una grotta, senza altro movente che quello di occupare le lunghe serate invernali. Si avverte quindi, dietro a tali esplorazioni, una motivazione forte. Ora, la motivazione religiosa è la più forte di tutte, e si accorda perfettamente con il lato solenne e allo stesso tempo un po’ irreale di questi luoghi. L’ingresso delle grotte si staglia spesso sul paesaggio circostante, il che le colloca immediatamente nella categoria dei luoghi notevoli, al pari delle falesie e dei ripari decorati.

Pittura rupestre nelle grotte di Altamira (anche l’immagine seguente).

Sempre per Eliade esse evocherebbero degli “spazi sacri al centro del mondo” (Eliade, 1974); luoghi dove si unirebbero i vari elementi: il fuoco del sole, l’acqua del fiume, la pietra e l’argilla della grotta e l’aria della valle, esalante al di sotto dell’entrata. Se, dunque, certe cavità poterono senz’altro essere occupate in virtù della loro ubicazione all’interno di un territorio, più in generale si osserva nei Cro-Magnon la tendenza a non limitare il sacro alle grotte. Questo è quanto Rigal sembra dedurre dai principali temi dell’arte parietale – animali, segni e umani –, che si trovano duplicati, in proporzioni certamente differenti, nell’arte di oggetti e strumenti vari. Già all’inizio del ventesimo secolo alcuni studiosi avvicinarono l’arte del Paleolitico alle tecniche degli sciamani dell’Asia centrale. Ma bisognerà attendere gli anni Cinquanta perché le teorie sciamaniche prendano piede nella letteratura scientifica occidentale, epoca in cui diversi ricercatori scoprirono i lavori degli etnologi russi sull’argomento. Mircea Eliade e l’archeologo Horst Kirchner (1913-1990) raccolsero così il testimone della teoria sciamanica, allora caduta nel dimenticatoio. In particolare, immaginarono che la Scena del pozzo di Lascaux raffigurasse il viaggio di uno sciamano nel mondo degli Spiriti, aiutato da un uccello che fungeva da spirito ausiliario. Vari studiosi tedeschi e altri ancora, come l’ungherese János Makkay, ne seguirono le orme. Ma la critica al comparativismo etnografico, sbocciata a metà degli anni Sessanta, porrà temporaneamente un freno a quel filone di ricerca.

Lo sciamanesimo presuppone l’esistenza di almeno due mondi, quello fisico e quello sovrannaturale, e che alcuni individui ‒ chiamiamoli sciamani ‒ siano in grado di entrare in contatto con gli Spiriti dimoranti nella dimensione altra e invisibile. Lo sciamanesimo ‒ nelle parole di Rigel ‒ si presenterebbe come una variante dell’animismo, anzi ne sarebbe un corollario quasi obbligato, perché presumere l’esistenza di spiriti senza un mezzo per contattarli non sarebbe di alcun interesse. Le ragioni per entrare in comunicazione con questo mondo invisibile sarebbero tanto varie quanto gli spiriti che lo popolerebbero: può trattarsi di spiriti della natura, spiriti degli antenati, spiriti maligni, spiriti della selvaggina abbattuta, spiriti dei bambini non ancora nati oppure spiriti dei malati da riportare alla vita. Molte società tradizionali assimilano le caverne al mondo degli spiriti o dei morti. In questa prospettiva, non dovrà dunque sorprendere un’associazione tra grotte e pratiche sciamaniche nel Paleolitico. Poiché l’animismo è l’ontologia più diffusa nel mondo dei cacciatori-raccoglitori, non è assurdo immaginare che ci fossero degli stregoni nelle steppe europee, durante il Paleolitico superiore, che operavano da intercessori tra i loro simili e il mondo degli Spiriti, e che tracce di questi riti si siano conservate sulle pareti dipinte delle grotte. Chiunque si addentri in una cavità prova la sensazione di calpestare il suolo di un altro mondo, che obbedisce a regole diverse da quelle del mondo esterno. Soprattutto quando ci si fa luce con una torcia. Il silenzio di tomba, le tenebre avvolgenti, l’eco delle voci che risuona da una galleria all’altra, le ombre danzanti: tutto questo favorirebbe le visioni.

Pittura rupestre nelle grotte di Lascaux (anche le immagini seguenti).

Uno stato alterato di coscienza si può infatti ottenere in diversi modi: tramite ritmi ripetitivi, movimenti sincopati, determinati stimoli visivi, ma anche attraverso un isolamento prolungato forse nel fondo delle grotte, privazione di acqua, cibo o sonno, pratiche di respirazione, droghe di vario genere. Dalle ricerche di etnobotanica è pressoché certo che i Cro-Magnon conoscessero bene le proprietà delle piante, per i Neanderthal ne esistono già le prove. I nostri antenati avrebbero potuto procurarsi, per esempio, la Datura stramonium, un potente allucinogeno, che è mortale in dosi eccessive. Ma le ricerche di Wasson porterebbero verso l’uso dell’Amanita muscaria, un fungo psicoattivo allora diffuso; di altri funghi potenzialmente allucinogeni, come gli Psilocybe, solo la varietà Psilocybe semilanceata era probabilmente presente sul suolo europeo – anche se la circostanza è negata da Rigel. Un ulteriore argomento a favore dell’ipotesi sciamanica è di natura statistica. Nelle aree che ospitano siti di arte rupestre totemica, come nel Kimberley in Australia, sono rappresentati molti animali differenti. Questo riflette la molteplicità dei clan aborigeni; e siccome ogni clan ha il proprio animale-totem, ciascun animale è raffigurato solo in un piccolo numero di siti.

Santuari per narrare miti
Al contrario, nei luoghi dominati dalle pratiche sciamaniche, come è probabilmente il caso per la regione del Capo, in Sudafrica, il numero di specie animali è minore, e le stesse specie sono presenti in un maggior numero di siti per volta, perché gli stessi tipi di pratiche sciamaniche si ripetono spesso da un sito all’altro. Se prendiamo per buona l’ipotesi che alcune grotte fungevano verosimilmente da santuari per gli uomini preistorici, non è difficile immaginare che la loro decorazione potesse servire a propagare miti, come nelle nostre chiese moderne. L’ipotesi che pratiche magiche o trance allucinatorie sacralizzassero il mondo sotterraneo non può essere esclusa, ma non è comunque sufficiente a spiegare la maggior parte dell’arte parietale. In virtù dell’organizzazione chiaramente strutturata di questo ristretto bestiario, l’ipotesi mitica appare però una matrice esplicativa molto più efficace. Anche se però l’una non esclude l’altra.

Un metodo volto a svelare i miti preistorici, che ha avuto tra i suoi esponenti di spicco Georges Dumézil (1898-1986) e Claude Lévi-Strauss (1908-2009), consiste nell’individuare, dappertutto nel mondo, le varianti di una medesima storia. È il caso dell’interdizione che vieta di pronunciare il nome dell’orso. L’esistenza di un tale divieto è di solito postulata, per esempio, per giustificare la scomparsa in slavo, baltico e germanico della radice indoeuropea *rksos per orso. In effetti, ritroviamo tale interdizione ovunque in Eurasia e in America del Nord. Ora, la presenza di un simile divieto su entrambi i lati dello stretto di Bering si spiegherebbe solo facendo risalire al Paleolitico superiore l’archetipo del mito che si presume veicolare tale interdizione, perché quello sarebbe l’ultimo periodo nel quale si poteva ancora attraversare lo stretto camminando sulla terraferma.

Evoluzione dei miti e delle specie
Seguendo un itinerario sociobiologico, un giovane ricercatore, Julien d’Huy, ha teorizzato come i miti godano di una grande stabilità nel tempo e che evolverebbero, come i genomi, per equilibri punteggiati. Ciò significa che per lunghissimi periodi non muterebbero affatto, per poi subire un cambiamento repentino in occasione di tensioni ambientali oppure di episodi migratori. Tali somiglianze tra l’evoluzione dei miti e quella delle specie lo hanno indotto a cercare di ricostruire, grazie alla tecnologia informatica, gli alberi filogenetici di alcune famiglie di miti. Tali alberi agirebbero così: più due versioni dello stesso mito sono diverse, maggiore è il numero di trasformazioni che le hanno interessate, e più tali versioni devono essere distanziate tra loro nel tempo. In questo modo sarebbe possibile identificare e classificare cronologicamente diverse varianti regionali intorno a uno stesso archetipo di base; ciò consentirebbe talora ai mitologi di determinare il luogo di nascita di un mito e le sue vie di propagazione. Così facendo si farebbe luce sull’estrema antichità di alcune storie, come quella di Polifemo, che vanterebbe come archetipo di base la fuga dell’eroe da una grotta dove si è trovato intrappolato in compagnia di un mostro, alla cui vigilanza sfugge nascondendosi in una pelle animale o sotto una bestia viva. Sembra che questo mito sia emerso inizialmente in Europa, per poi migrare in India e in America del Nord.

Ancora una volta, l’attraversamento dello stretto di Bering induce Julien d’Huy a far risalire l’origine di tale mito al Paleolitico superiore. Lo stesso metodo fornirebbe risultati analoghi per il mito della Caccia cosmica, in cui un animale braccato dagli uomini si libra in cielo trasformandosi in una costellazione. Tale mito si ritrova sia in Eurasia sia in America del Nord, dove l’Orsa Maggiore è sempre interpretata come un cervide oppure un orso inseguito da assalitori situati fra i bracci della costellazione. Contando il numero delle mutazioni in rapporto all’archetipo di base è persino possibile seguire le popolazioni umane che hanno narrato questo mito, dalle sponde del Mediterraneo alla costa atlantica dell’America del Nord, passando in successione per l’Asia centrale, la Siberia e la Columbia Britannica. Julien d’Huy immagina che la Scena del pozzo di Lascaux, nella quale si affrontano un cacciatore e un animale in posizione ascendente, rappresenti una variazione sul tema della Caccia cosmica, con il punto nero sul garrese del bisonte a raffigurare forse una stella.
Un altro mito sul quale ha lavorato il nostro ricercatore è quello della Donna quadrupede, nel quale un personaggio femminile, per fare il bagno, si sveste della pelle animale, che viene rubata dal futuro marito; qualcosa di simile al mito di Diana e Atteone. La natura della pelle varia a seconda delle regioni del mondo. In Asia meridionale e in Oceania è una donna-uccello; nel Pacifico, una donna-focena; nell’Artico, una donna-volpe; in Africa, una donna-capra, una donna-bufalo o una donna-elefante; in America, una donna-cane, una donna-tartaruga o una donna-bisonte; in Europa, infine, è una donna-foca o una donna-asino. Alcuni temi – la donna coperta da una pelle animale, il matrimonio ostacolato, l’importanza dell’acqua – si ritrovano anche nella celebre fiaba di Pelle d’asino. Secondo d’Huy, il mito della Donna quadrupede serviva in origine a controllare la sessualità all’interno del gruppo attraverso un’opposizione natura (pelle animale) – cultura (istituto matrimoniale). Un’interpretazione molto riduttiva e sociobiologica.

Un altro antropologo, Alain Testart, s’è occupato di una differente mitologia, quella che fa risalire l’origine del mondo all’unione di due entità primordiali affini, la quale avrebbe comportato due tipi di conseguenze: l’una positiva e l’altra negativa. Un esempio tipico: il Sole è innamorato della Luna, sua sorella, la insegue, finisce per stuprarla, e allora appare la Vita, che ancora non esisteva sulla Terra; ma, al tempo stesso, appare la Morte, associata al ciclo lunare e a quello mestruale delle donne. Lo studioso osserva che il sangue femminile è oggetto d’una interdizione altrettanto universale, che vieta il mescolamento di due tipi diversi di sangue. Sebbene non possiamo garantire che sia legato al mito precedente, è tale divieto ‒ secondo Testart ‒ a spiegare perché, in quasi tutto il mondo, alle donne sia vietato cacciare oppure partecipare alla guerra. Nelle società di cacciatori-raccoglitori le donne partecipano raramente alla caccia; quando lo fanno, si tratta in genere di catturare della piccola selvaggina, effettuata utilizzando armi che non causano spargimento di sangue, come trappole o mazze. Testart sottolinea inoltre che sia Artemide, la dea della caccia, sia Giovanna d’Arco, la condottiera, erano vergini; in tal modo era preservato il divieto secondo cui il sangue delle donne – qui, quello della deflorazione – non deve mai associarsi ad attività che comportano il contatto con un altro tipo di sangue. È forse un mito che incarnava un divieto del genere a spiegare perché non sia mai stata identificata alcuna immagine di donna armata nell’arte paleolitica, neppure in quella oggettistica, dove a volte gli umani di sesso maschile lo sono.

Un’ultima ipotesi è quella archeoastronomica. Chantal Jègues-Wolkiewiez ha studiato a lungo le pitture delle grotte francesi e pensa di aver individuato un tema mitico inesauribile nell’arte delle caverne: quello del corso del Sole. Già all’epoca di Cro-Magnon non c’è dubbio che i movimenti della Luna e del Sole fossero usati dagli uomini per predire specifici eventi, come l’arrivo delle mandrie o dei pesci, la fioritura delle piante oppure il momento in cui bisognava migrare in un altro luogo. Tuttavia, per Jègues-Wolkiewiez tutti i ripari e le grotte dipinti della Francia sud-occidentale sarebbero stati scelti in funzione della loro esposizione – o dell’orientamento dei loro ingressi – rispetto al Sole. Altra teoria è quella dello “Zodiaco di Lascaux”. Chantal Jègues ha innanzitutto osservato che l’ingresso della grotta di Lascaux era perfettamente allineato al tramonto del Sole durante il Solstizio estivo. Ha quindi calcolato che, durante il Solutreano (Paleolitico superiore), quello era il periodo dell’anno in cui la costellazione del Toro era all’apice sull’orizzonte (culminazione).

Dalle grotte alle stelle
Partendo dall’ipotesi che anche gli uomini preistorici avessero stabilito un collegamento tra questi due eventi, la studiosa si è domandata se la decorazione della Sala dei tori non potesse evocare, per un uomo in piedi con le spalle all’ingresso, la volta celeste che ruota intorno all’asse polare in una notte stellata del Paleolitico. Non sorprenderà che abbia poi ritrovato nella sala tutte le costellazioni, disposte nell’ordine corretto, da sinistra a destra. Il presunto unicorno, con il quale inizia il fregio, corrisponderebbe alla costellazione del Capricorno, il primo bovide alla costellazione dello Scorpione, il cavallo sovrastante a quella del Sagittario, i cervi a quella della Bilancia, il secondo bovide al Leone, il terzo ai Gemelli e il quarto, il più imponente, alla costellazione del Toro sovrastata dalle Pleiadi. Uno Zodiaco arcaico affine a quello che il compianto amico Giuseppe Acerbi aveva ritrovato e studiato nella sua opera purtroppo ancora inedita.
Il tempo sacro delle caverne è un libro suggestivo e ricco d’informazioni; unica pecca è forse lo smodato uso di materiali bibliografici provenienti dal solo versante francese. Gran parte della bibliografia derivante da altre lingue appare trascurata, così come appaiono trascurati gli studi etnobotanici che parlano dei legami fra piante, estasi e origini della cultura.

Letture
  • Gilberto Camilla, Civiltà in estasi. Psicofunghi e popoli, WriteUp, Roma, 2022.
  • Giovanni Casadio, Lo sciamanesimo. Prima e dopo Mircea Eliade, Il Calamo, Roma, 2014.
  • Jean Clottes-David Lewis-Williams, Les chamanes de la préhistoire. Transe et magie dans les grottes ornees, Seuil, Parigi, 1996.
  • Julien d’Huy, Cosmogonies. La préhistoire des mythes, La Découverte, Parigi, 2020.
  • Georges Dumézil, Mito e epopea, Einaudi, Torino, 1982.
  • Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari, 1971.
  • Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma, 1974.
  • Horst Kirchner, Die Menhire in Mitteleuropa und der Menhirgedanke, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, Mainz, 1955.
  • Chantal Jègues-Wolkiewiez, Lascaux et le ciel de la préhistoire, Auto édition-Babelio, Parigi, 2020.
  • Claude Lévi-Strauss, Mitologica, 1-4, Il Saggiatore, Milano, 1966-1974.
  • János Makkay, Two Studies on Early Shamanism, Rozpravy Národního technického muzea v Praze, Budapest, 1999.
  • Erich Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1981.
  • Salomon Reinach, Cultes, mythes et religions, Ernest Leroux, Parigi, 1905.
  • Richard E. Schultes-Albert Hofmann, Pflanzen der Götter. Die magischen Kräfte der bewuβtseinserweiternden Gewächse, AT Verlag, Aarau, 1998.
  • Alain Testart, L’amazone et la cuisinière. Anthropologie de la division sexuelle du travail, Gallimard, Parigi, 2014.
  • Robert Gordon Wasson, Soma. Divine Mushroom of Immortality, Harcourt-Brace & World, New York, 1968.