Délio Jasse: evocando futuri
dagli archivi della memoria


Délio Jasse
Arquivo Urbano
IV Biennale di Fotografia
dell’industria e del lavoro: Tecnosfera
Fondazione del Monte
di Bologna e Ravenna

Palazzo Paltroni
Via delle Donzelle, 2 – Bologna
24 ottobre 2019 – 24 novembre 2019


Délio Jasse
Arquivo Urbano
IV Biennale di Fotografia
dell’industria e del lavoro: Tecnosfera
Fondazione del Monte
di Bologna e Ravenna

Palazzo Paltroni
Via delle Donzelle, 2 – Bologna
24 ottobre 2019 – 24 novembre 2019


Il leitmotiv della quarta edizione della Biennale dedicata alla Fotografia dell’Industria e del Lavoro, curata da Francesco Zanot per la Fondazione MAST e in corso di svolgimento a Bologna (dal 24 ottobre al 24 novembre 2019), è il tema del costruire, che ritroviamo perfettamente sintetizzato nell’opera di Délio Jasse, tra i più interessanti fotografi del panorama internazionale. Cosmopolita, originario dell’Angola (paese che ha rappresentato alla 56esima Biennale di Venezia), ma trapiantato a Milano da diversi anni, il suo Arquivo Urbano è un compendio della sperimentazione che ne contraddistingue la ricerca artistica.
Attraverso la sovrapposizione di fotografie diverse, le sue immagini rievocano il passato coloniale di Luanda, la capitale angolana sua città natale, e offrono scorci su un’attualità già proiettata verso diversi futuri possibili. La molteplicità è la chiave di lettura: di fronte alla complessità, l’occhio dell’artista non si ritrae in letture consolatorie, ma fa esplodere le contraddizioni intrinseche nel tessuto stesso del presente. In questo modo spinge lo sguardo del visitatore ad andare oltre, a scavare sotto la superficie, riemergendone con i detriti inconfondibili della dominazione non solo portoghese ma anche della Chiesa, che sono ormai parte integrante nella storia e nella cultura dell’Angola.

Nelle foto di quest’articolo: Délio Jasse e alcuni dei suoi lavori.

La decolonizzazione impossibile
Il colonialismo è sicuramente uno dei bersagli che l’opera di Jasse centra con maggiore precisione, ma il suo lavoro innesca anche inevitabili riflessioni su quello che viene dopo: nessuna forma di decolonizzazione riuscirà a eliminare le scorie di un processo secolare che ha imposto ai nativi una lingua e una religione alieni, penetrando in ogni aspetto della vita quotidiana (come dimostrano i piatti della tradizione portoghese adottati dalla popolazione angolana), prescindendo da una presa di coscienza dal basso. Quello a cui stiamo assistendo nell’ultimo decennio, e che il progetto di Jasse rende efficacemente attraverso la stratificazione delle immagini, è non solo la sedimentazione di una nuova epoca sulle precedenti, ma anche la sovrapposizione delle strutture di potere, con le nuove ondate che finiscono semplicemente per sostituirsi alle precedenti, in una giostra eterna che rimpiazza le vecchie forme di dominazione con nuovi sistemi di sfruttamento. Restano tuttavia immutate le condizioni della popolazione, che continua a vivere sotto il tallone di ferro della sperequazione economica e della frammentazione sociale ed etnica, privata della propria identità attraverso un processo sistematico di imposizione culturale che si riflette tanto nei nomi e nei cognomi di ascendenza portoghese, quanto nei nomi dati alle cose di uso comune.

La ruota panoramica di Ulengo Center, acquistata di seconda mano da un’installazione dismessa in Germania, rappresenta un po’ l’emblema di questo ciclo di corsi e ricorsi storici, e non è un caso che ricorra anche nella serie parallela di Darkroom, che con le elaborazioni di Sem Valor ospitata negli stessi locali della Fondazione del Monte completa la mostra: un’installazione analoga nell’impostazione ad Arquivo Urbano, ma che sostituisce ai film di acetato delle fotografie sovrapposte in trasparenza la sovrapposizione di diapositive proiettate a ciclo continuo sulle tre pareti di una stanza, in un circuito che suggerisce percorsi paralleli, confronti e accostamenti, dando vita a “una terza rappresentazione surreale e inquietante”.
È palpabile l’urgenza di Délio Jasse di riallacciare attraverso questi lavori i nodi con la sua storia personale, con le radici della sua famiglia e le vicissitudini della sua città e della sua terra. Il suo diventa così una sorta di scavo archeologico in quattro dimensioni, nel tempo oltre che nello spazio, una ricostruzione olografica attraverso cui, estrapolando le tracce già inconfondibili della presenza cinese, si scorgono i possibili segni di un futuro già in corso di svolgimento e in cui purtroppo non è difficile lasciarsi sfuggire i simboli della nuova colonizzazione globale.

Tour panoramico della tecnosfera
Iniziata nel 2013 da François Hébel, Foto/Industria è una mostra unica al mondo nel suo genere. Zanot ha scelto di sviluppare in quest’occasione il concetto di tecnosfera, elaborato dal geologo Peter Haff, professore di geologia e ingegneria civile alla Duke University, per descrivere “l’insieme di tutte le strutture che gli esseri umani hanno costruito per garantire la loro sopravvivenza sulla Terra”. Di fatto, uno strato artificiale del peso stimato di trenta miliardi di miliardi di tonnellate, che rappresenta il prodotto tangibile di quell’azione “cruciale, intimamente radicata nella natura della specie umana”, che è appunto il costruire: che siano luoghi come edifici, centrali elettriche, aziende agricole o templi, oppure nonluoghi, come le infrastrutture costruite per collegare, strade, linee di trasmissione, aeroporti, stazioni, sistemi di telecomunicazioni e reti digitali.
Questo percorso si snoda in diverse location del centro storico di Bologna: dieci mostre che spaziano dai Paesaggi della Ruhr di Albert Renger-Patzsch alla Spectral City di Stephanie Syjuco, passando per il transumanesimo di Matthieu Gafsou, a cui si affianca lo straordinario successo di Anthropocene, allestita nelle sale del MAST e prorogata fino al 5 gennaio.
A proposito del lavoro di Jasse, Zanot scrive nel booklet della mostra:

“È fantascienza. Utopia. È un mondo impossibile, fatto di architetture che collassano una sull’altra dando luogo ad agglomerati instabili e incoerenti. Eppure qualcosa di verosimile c’è ancora. Il riferimento è alla crescita di Luanda, che nonostante gli enormi problemi degli ultimi anni dovrebbe aumentare densità e superficie in maniera esponenziale nei prossimi anni […], passando dagli attuali cinque milioni di abitanti a circa quindici milioni entro il 2030 ed entrando a far parte delle grandi megalopoli globali […]
Qui si costruisce senza sosta, ma anche senza regole”.

Le opere di Jasse documentano un’architettura globalizzata, priva di qualsiasi identità culturale o geografica, che sta “trasformando le città di tutto il mondo in un’unica anonima conurbazione”.
Il costruire diventa così anche un segno delle dinamiche geopolitiche in atto, e i megaprogetti infrastrutturali che coinvolgono le aziende di stato cinesi in Angola, dalla città di Kalimba progettata dal nulla per ospitare mezzo milione di abitanti alla ferrovia che taglia il paese da est a ovest, fino al nuovo aeroporto internazionale di Luanda in consegna per il 2022, stanno a testimoniare “l’ultima frontiera del nuovo colonialismo”.

Anche nella scelta delle sedi si riflette lo spirito di Foto/Industria, un progetto a tutto tondo che stimola il visitatore a misurarsi con lo spazio umano, “con mostre non calate dall’alto ma che cercano di respirare allo stesso ritmo degli spazi che le ospitano”.
La mostra di Jasse centra l’obiettivo: le pellicole di Arquivo Urbano, esposte libere da cornici, sospese attraverso magneti al di sopra della superficie delle pareti, respirano, si nutrono dello sguardo dei visitatori e proiettano ombre geometriche, incroci di linee e prospettive, che sono nuovi punti di vista su futuri ancora invisibili, ma già in corso di trasformazione.