L’ossessiva caccia al primo
serial killer sudcoreano

Bong Joon-ho
Memorie di un assassino
(Corea del Sud, 2003)

Cast principale: Song Kang-ho, 

Kim Sang-kyung, Kim Roe-ha,
Song Jae-ho, Jeon Mi-seon
Produzione: Sidus Pictures,
CJ Entertainment
Distribuzione: Lucky Red,
Academy Two, 2020

Bong Joon-ho
Memorie di un assassino
(Corea del Sud, 2003)

Cast principale: Song Kang-ho, 

Kim Sang-kyung, Kim Roe-ha,
Song Jae-ho, Jeon Mi-seon
Produzione: Sidus Pictures,
CJ Entertainment
Distribuzione: Lucky Red,
Academy Two, 2020


Dopo aver goduto per anni dell’adorazione spasmodica dei cinefili con maggiore attitudine all’esplorazione delle cinematografie lontane – adorazione che per la verità le sue due ultime non ispiratissime prove, il fantapolitico Snowpiercer e la fiaba anticapitalista Okja, avevano un po’ affievolito –, il regista sudcoreano Bong Joon-ho, in virtù del profluvio di premi (Palma d’oro a Cannes e quattro Oscar, tra cui quello per il miglior film) ottenuti con il funambolico e corrosivo apologo sulla sempiterna lotta tra ricchi e poveri Parasite, si è perentoriamente insediato nel cerchio di attenzione di una categoria di spettatori più vasta e composita, il cosiddetto Grande Pubblico.
Status che ha consolidato grazie all’approdo nelle sale – avvenuto lo scorso 13 febbraio – di Memorie di un assassino, film datato 2003 che racconta la vera storia della complicata, tortuosa caccia al primo assassino seriale sudcoreano. Sebbene tardiva, l’operazione condotta dalle case di distribuzione Lucky Red e Academy Two è senz’altro benemerita, giacché il secondo lungometraggio di Bong Joon-ho, forte di un’ambientazione rurale estremamente incisiva, di una sceneggiatura infallibile come un meccanismo di precisione e di una regia che regala tocchi sublimi (campi lunghi mozzafiato, magistrali piani sequenza) senza mai indulgere all’autocompiacimento e a inutili bellurie, è un pregevole thriller investigativo che lascia nello spettatore un segno profondo: dopo averlo diretto esattamente come si suona un organo, per dirla alla Hitchcock, modificandone di continuo le aspettative, disorientandolo con la sua natura multiforme (si avvia in cadenze quasi farsesche per poi diventare nero come la pece), lo trascina in un vertiginoso abisso di frustrazione, abbrutimento e lancinante senso di sconfitta.
La storia si svolge nel 1986, anno in cui la Corea del Sud agonizzava sotto il giogo di una dittatura militare. Nelle campagne ai margini di una desolata, sordida cittadina le cui giornate sono scandite dagli scontri tra manifestanti anti-regime e le forze dell’ordine, dalle esercitazioni civili di difesa e dal passaggio dei soldati che ordinano il coprifuoco, vengono rinvenuti, nel giro di poche settimane, i cadaveri martoriati di tre donne.

Gli agenti della squadra investigativa locale, guidati dal detective Park (incarnato dal versatile ed estroso Song Kang-ho, l’attore-feticcio del regista), si mettono al lavoro per trovare l’assassino. Ma il loro sconclusionato affaccendarsi e i loro metodi tanto approssimativi quanto vessatori (nella Corea del tempo estorcere le confessioni a suon di maltrattamenti era la norma), producono ben poco. Questi, pressappoco, i fatti della prima parte del film, nella quale Bong Joon-ho dà libero sfogo alla sua propensione per il grottesco e per lo sberleffo mordace. Vari, e tutti ghiottissimi, i momenti in cui mette alla berlina la cialtroneria e la confusione della polizia; ma tre in particolare sono da custodire nella memoria: l’episodio del ritrovamento del secondo cadavere, in cui con un lungo e tortuoso piano sequenza il regista segue il vano industriarsi di Park per tenere sgombra l’area del crimine, mentre tutt’intorno infuria la gazzarra dei giornalisti; quello in cui Park e il suo collega guardano un serial poliziesco in compagnia del sospettato demente; il tentativo, esilarante e patetico a un tempo, di ricostruire i delitti a beneficio dei giornalisti.
Ma con l’infittirsi dell’indagine e il suo incanalarsi in una direzione apparentemente giusta – tutti gli indizi sembrano condurre a un giovane impiegato d’ufficio dall’aspetto gentile e tutt’altro che perturbante –, Memorie di un assassino si fa maledettamente serio, tingendosi di tonalità fosche e ossessive, tramutandosi in un cupo poliziesco d’atmosfera. Il Male si insinua dappertutto, permea di sé e intorbida ogni inquadratura: l’abbrutimento e la frustrazione travolgono Park e Seo (il detective giunto da Seul per dare man forte alla polizia locale), stravolgendone i volti, inquinandone le esistenze; i momenti violenti (la rissa brutale nel miserabile ristorante del padre del demente; la tremenda fine di quest’ultimo, che finisce sotto un treno) e i dettagli angosciosi o strazianti (lo stivale di gomma del poliziotto cui è stata amputata una gamba, che Park fissa con espressione sgomenta) si moltiplicano; e in un bosco pregno di infausti presagi l’assassino torna a colpire. La frustrazione e l’impotenza dei detective raggiungono l’acme e mutano in senso di inanità quando i due, nel tesissimo sottofinale contrassegnato da una pioggia sferzante, sono costretti a lasciar andare il giovane sospettato poiché sprovvisti di prove concrete a suo carico. E la scena finale, in cui, diversi anni dopo i fatti, Park si reca sul luogo del ritrovamento del primo cadavere e scopre che l’assassino è stato lì pochi attimi prima, lascia in bocca un’amarezza difficilmente mitigabile.

Visioni
  • Bong Joon-ho, Snowpiercer, Koch Media, 2014 (home video).
  • Bong Joon-ho, Okja, Netflix, 2017.
  • Bong Joon-ho, Parasite, Academy Two, 2019.