È storia anche la storia
di un impero di finzione

Angélica Gorodischer
Kalpa Imperial
Traduzione di Giulia Zavagna

Rina edizioni, Roma, 2022
pp. 344, € 18,00

Angélica Gorodischer
Kalpa Imperial
Traduzione di Giulia Zavagna

Rina edizioni, Roma, 2022
pp. 344, € 18,00


Nel 1983, dopo essere rimasta costretta per circa otto anni nelle spire del regime dittatoriale di Videla e dei suoi successori, l’Argentina vede svolgersi nuove e libere elezioni, evento che sancisce formalmente la fine del cosiddetto Proceso de reorganización nacional, progetto politico-ecclesiastico-militare fortemente autoritario che dal 1976 aveva portato morte e sgomento nel Paese sudamericano. C’era da rifare una nazione, nel 1983, da ristabilire gli equilibri di un popolo funestato dal terrore, da cementare nuovamente la fiducia della gente dopo le decine di migliaia di morti e di desapariciones forzadas provocate dal regime. C’era, in sostanza, da ripensare al futuro sotto l’auspicio di una luce rinnovata. Proprio in quello stesso anno, la scrittrice argentina Angélica Gorodischer (1928-2022), considerata tra le più importanti penne nazionali votate alla fantascienza, pubblica il primo dei due volumi che avrebbero in seguito costituito Kalpa Imperial, libro in verità più vicino al canone del fantastico rioplatense, che oggi è finalmente a disposizione anche dei lettori italiani grazie alla traduzione pubblicata da Rina Edizioni, piccola casa editrice romana nata allo scopo di riscoprire e valorizzare al giusto modo autrici italiane e straniere del Novecento che dalle nostre parti non hanno avuto il riscontro che avrebbero invece meritato.
Kalpa imperial, ovvero un testo di indubbio fascino in cui è raccolta una summa di episodi disseminati in una larghissima estensione narrativa a cui partecipano diversi narratori, nella rievocazione di alcune delle innumerevoli vicende che hanno caratterizzato il passato di un impero immaginario vissuto e sopravvissuto nei secoli e nei millenni, in un altrove che non è il nostro mondo né occupa la nostra storia.
Un impero diuturno che ha visto susseguirsi sul trono innumerevoli sovrani e dinastie; un impero in cui gli equilibri di potere sono più volte crollati per poi riassestarsi e nuovamente crollare; in cui i confini sono mutati di continuo; in cui le città sono state erette e abbandonate, stratificandosi volta a volta su sé stesse; in cui i popoli hanno fatto la guerra e la pace.
Un impero in cui tuttora (nel “tuttora” del presente narrativo, s’intenda) le persone muoiono, o in alternativa vivono, migrano, si ammalano e vengono curate, secondo i tempi minimi delle biografie umane a cui fanno da sfondo quelli più estesi della storia grande o, per dirla con Fernand Braudel, della lunga durata: una lunga durata, per la verità lunghissima, con cui siamo chiamati a confrontarci già nel titolo stesso del libro: il “kalpa” è infatti un’unità di misura del tempo cosmico induista che segna l’avvicendarsi di cicli lunghi oltre quattro miliardi di anni nella successione messa a regolare la vita dell’universo. Data la coincidenza di tempi che vede la prima parte del libro uscire nello stesso anno della fine formale della dittatura del Proceso, e dati i temi che lo tengono insieme (su tutti: il potere), risulta difficile non mettere in relazione il narrato con gli avvenimenti argentini che immediatamente lo precedono, tanto più che già nell’incipit del primo racconto o capitolo (intitolato Ritratto dell’Imperatore) leggiamo una vera e propria elegia del cambiamento e del buon governo:

“Il narratore disse: Ora che soffia un vento propizio, ora che sono finiti i giorni di incertezza e le notti di terrore, ora che non vi sono più accuse né persecuzioni né esecuzioni segrete, ora che il capriccio e la follia sono scomparsi dal cuore dell’Impero, ora che noi e i nostri figli non siamo più assoggettati alla cecità del potere; ora che un uomo giusto siede sul trono dorato e le persone si affacciano tranquillamente alla porta di casa […] chiunque può entrare nel palazzo dell’Imperatore, per necessità o interesse: chiunque può visitare quella grande dimora che nel corso di tanti anni fu sorvegliata, proibita, difesa con le armi”.

Da qui, a seguito di questa inequivocabile dichiarazione, nel libro si susseguono testimonianze e ricostruzioni della storia passata del vasto impero protagonista del libro, “così vasto che nemmeno l’Imperatore in persona ne conosce i confini”, come si dice nel racconto (o nel capitolo) Assedio, battaglia e vittoria di Selimmagud. Ne viene fuori una sequenza di narrazioni (undici racconti o capitoli, in tutto) che se da una parte nascondono reciproci rimandi, dall’altra si prestano anche a esser letti singolarmente, senza per questo perdere di valore. La struttura narrativa del libro pensata e messa in opera da Gorodischer è infatti costitutivamente ambigua, presentandosi tanto come romanzo quanto come raccolta di racconti (sta a chi legge decidere cosa sta leggendo), e sembra esser tale proprio perché deve rispecchiare il suo oggetto narrativo, ovvero l’impero stesso: irrappresentabile nella sua smisurata interezza, talmente durevole ed esteso da poter essere raccontato solo per frammenti, come si dice ancora in Ritratto dell’Imperatore, nella dichiarazione di un narratore che sembra esplicitamente volersi affrancare in maniera critica dalle procedure storiografiche della cosiddetta storia evenemenziale (ecco ancora Braudel):

“Oltre che lunga, la storia dell’Impero è complicata: non un semplice racconto in cui si elenca un avvenimento dopo l’altro e nel quale le cause spiegano gli effetti e gli effetti sono proporzionati alle cause. No, tutt’altro: la storia dell’Impero è disseminata di sorprese, contraddizioni, abissi, morti e resurrezioni. […] Perché l’Impero è morto, molte volte, di molte morti diverse, lente o improvvise, dolorose o placide, ridicole o tragiche, eppure è morto, e dalla propria morte si è risollevato”.

Una storia nemmeno condivisa, né definibile con certezza nelle sue linee passate, date le costitutive contraddizioni che i vari narratori del testo lasciano trapelare tra le pagine. Una storia “vera e falsa come tutto ciò che raccontano gli uomini”, come nel racconto (o nel capitolo) Le due mani ci ricorda una delle voci a cui è affidata la narrazione, lasciandoci così una dichiarazione nella quale è impossibile non riconoscere l’eco di Jorge Luis Borges, di cui si trova inevitabile traccia anche in molti altri punti del libro, per esempio nella concezione della ciclicità del tempo (come già il “kalpa” del titolo suggerisce), più volte rimarcata da chi in Gorodischer prende la parola, e nell’inclinazione dell’autrice per l’utilizzo dell’artificio retorico della lista e della libera enumerazione, tra gli elementi più spiccatamente caratterizzanti, insieme all’umorismo, della sua prosa. Il rifiuto della storia evenemenziale e la concezione ciclica del tempo e delle umane vicende emergono con forza anche in Sulla crescita incontrollata delle città, il racconto (o il capitolo) forse più emblematico del libro, almeno per come lo stiamo leggendo in questa sede.
Qui si racconta di una città edificata poco a poco sul crinale di una catena montuosa dando le spalle alla pianura, una città inizialmente periferica e remota, nascondiglio sotterraneo di banditi, che nel tempo cambia struttura e conformazione, diventando prima un fiorente luogo di commercio, poi un ritrovo di artisti e mecenati, poi sede militare di eserciti efferati e ancora città termale per la cura dei malanni, e così capitale dell’impero per tre intere dinastie, e in seguito decaduta distesa di case malconce del tutto simile a tante altre città, e santuario per religiosi, urbe riconquistata dalle piante e poi di nuovo capitale, in una sequenza che fa il paio con le lunghe enumerazioni a cui sopra si è fatto cenno e che non promette certo di chiudersi con la fine del narrato. È proprio in questo racconto (o capitolo) che vediamo in maniera più nitida che altrove quello che forse, almeno a nostro parere, è uno dei tanti suggerimenti di lettura della stessa Gorodischer, e non necessariamente coerente con gli altri (ecco ancora Borges): considerare la storia, nel libro e non solo, come una smisurata sequenza ripetitiva e contraddittoria di eventi, anche e soprattutto fortuiti, che tiene sullo sfondo le singole biografie degli esseri umani, di certo inadatte a essere ricordate e narrate con precisione storiografica nel corso di un kalpa, ma nonostante questo radicate con la forza della parola e della narrazione alla stessa terra (o allo stesso impero) che le ha generate e le genera, per quanto minime esse siano.
Come a dire che non siamo niente, ma che almeno possiamo raccontarci, pensando a noi stessi come parte di qualcosa di immenso, e naturalmente mentendo. O, per meglio dire, fingendo.