La vita agra di Scozia
nelle storie di Agnes Owens

Agnes Owens
Gentiluomini dell’Ovest
Traduzione di Anna Mioni

Safarà, Pordenone, 2022
pp. 160, € 16,00

Agnes Owens
Gentiluomini dell’Ovest
Traduzione di Anna Mioni

Safarà, Pordenone, 2022
pp. 160, € 16,00


Tra le nazioni dell’occidente industrializzato, la Gran Bretagna è da sempre quella dove lo scontro sociale, ovvero ciò che in termini marxisti si indica come lotta di classe, assume proporzioni maggiori. La cosiddetta rivoluzione industriale ebbe qui la sua gestazione e la sua crescita, è qui che il proletariato nasce e assume la sua espressione più compiuta, è qui che Karl Marx visse in esilio per lungo tempo, è sempre qui che scrisse molti dei suoi testi principali, ed è qui che è sepolto. Nessuna delle branche del sapere umano così come si è sviluppato nel Regno Unito, né gli studi storici, sociali, filosofici o letterari né la politica in senso stretto, hanno potuto evitare di confrontarsi con la centralità della lotta di classe nella dialettica della società inglese, e questo almeno da duecento anni a questa parte.
Oggi più che mai è attuale tenere presente questo dato, ed è indispensabile per comprendere un mondo che è di sempre più difficile interpretazione per chi non vive in prima persona i conflitti che lo attraversano. Dagli scioperi durissimi dichiarati in ogni settore, alle spinte autonomiste in Scozia e Galles, dalla incomprensibile Brexit, alla centralità della city e del suo mondo finanziario, dalla multiculturalità esistente di fatto da secoli, all’imbarazzante vestigia di una corona fuori tempo massimo, l’Europa guarda la sua isola maggiore e non può che constatarne la distanza, chiedendosi come colmarla.

Le radici storiche
In quest’opera di decodifica ci aiuta senza dubbio la letteratura. Come dice Alasdair Gray nella sua esilarante breve storia della letteratura inglese, inserita nella sua postfazione al volume di Agnes Owens Gentiluomini dell’Ovest,

“Mentre […] Karl Marx indagava sugli aspetti statistici della questione, Dickens, George Eliot e Hardy descrivevano i rapporti di dipendenza tra chi produceva ricchezza nelle officine, nelle colonie e nelle fattorie, e chi la utilizzava in quel pezzo di società che si autodefiniva Società”.

Dopo che è trascorso più di un secolo dai tempi di Charles Dickens, nella Gran Bretagna contemporanea è cresciuta almeno una generazione di scrittori e artisti che hanno le loro radici nella lotta di classe e nella vita del mondo operaio. Ovviamente esistono molti modi di esprimere questo sentimento: dall’ironia e la satira di Jonathan Coe alla drammaturgia di Irvine Welsh, dalla narrativa attuale di Ali Smith all’amore per la musica di Nick Hornby e al noir di David Peace. Questi autori appartengono tutti più o meno alla medesima generazione, essendo nati tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, e per tutti loro, spesso anche per evidenti ragioni autobiografiche, lo sguardo sulla vita operaia e sullo scontro quotidiano nelle lotte, diventa nei loro romanzi il racconto di una sorta di anima collettiva, condivisa da tutti i personaggi. Ma questa generazione però non è nata dal nulla, e poggia su una tradizione di vecchia data.
Alasdair Gray e Agnes Owens appartengono a una scuola precedente, la stessa a cui apparteneva David Lodge, essendo nati rispettivamente nel 1934, nel 1926 e nel 1935. Possiamo quindi dire che sono tra i padri della stirpe che li ha seguiti. Gray e Owens erano entrambi scozzesi, come Ali Smith e Irvine Welsh, ma hanno però storie profondamente diverse tra loro.

Un breve profilo di Alasdair Gray
Gray era un intellettuale, laureato e docente presso l’Accademia d’Arte di Glasgow, un uomo dai mille ingegni che scrive romanzi e pieces teatrali, dipinge e compone poesie. La sua opera principale, scritta nell’arco di trent’anni e pubblicata nel 1981, si intitola Lanark, ed è un complesso insieme di diverse forme narrative. La sua opera è universalmente riconosciuta, in Italia in particolare va ricordato che la prefazione alla traduzione di Lanark è stata scritta dal noto scrittore di science fiction americano Jeff Vandermeer, a riprova dell’attenzione che quel mondo gli ha rivolto da sempre. Agnes Owens, invece, ha lavorato per tutta la vita come operaia, donna delle pulizie, dattilografa e altro. Rimasta presto vedova del primo marito, un alcolizzato reduce dalla Seconda Guerra Mondiale, si è poi risposata e ha avuto in totale sette figli. Come è scritto nel necrologio su The Scotsman: “Tra l’educazione della sua numerosa famiglia, il lavoro come dattilografa, le fabbriche e le pulizie, iniziò a scrivere” (Ramaswamy, 2014), come fosse nulla più che una delle sue molteplici attività.

Certamente il fatto di essere maschio non è – e non può essere – una colpa, ma la visione della scrittura in modo espressamente non elegiaco, come un qualcosa di incastonato in modo inestricabile con la durezza di una vita che non perdona nulla, piuttosto che nella costruzione di un immaginario metaforico e allegorico, è una conseguenza diretta della condizione estrema che Owens ha vissuto, e che ha affrontato con determinazione e tenacia sino al suo ultimo giorno. Come Vandermeer nota nella citata prefazione italiana a Lanark, la caratteristica che individua lo stile di Gray è proprio la capacità di “trascendere le sue origini scozzesi per diventare universale” (Vandermeer in Gray, 2017), mentre Owens, come una sorta di Flannery O’Connor delle Highlands, trova il senso della propria scrittura nella profondità delle sue radici. In ogni caso questo diverso posizionamento non ha certo impedito a Gray di essere il primo dei sostenitori di Agnes Owens, di elogiarne la scrittura e la profondità in ogni occasione possibile. L’antologia di racconti Con un piede nella fossa è dedicata a lei: “Per Agnes Owens, che è tra le migliori” e si prende anche il tempo di spiegare la sua dedica:

“Agnes Owens è la più ingiustamente dimenticata tra tutti gli scrittori scozzesi viventi. Non so perché. […] tutte le recensioni sono state molto favorevoli, eppure non si ricordano mai di lei quando c’è da assegnare un premio. Forse viene ignorata dai giornalisti perché non riescono a concepire come un’intelligenza creativa possa prosperare a lungo nell’ambiente delle case popolari”
(Gray, 2018).

È evidente l’ironia di Gray. Fu difatti lui, insieme a James Kelman, a leggere i suoi racconti nella scuola di scrittura che lei frequentava, e a spronarla a pubblicare.

La struttura di Gentiluomini dell’Ovest
Owens presenta la sua prima raccolta di racconti, il già citato Gentiluomini dell’Ovest, solo nel 1984, a 58 anni. Il mondo qui descritto dalla scrittrice è un luogo duro e spesso feroce, ma contemporaneamente intriso di amore e bellezza. Questo suo primo volume non era un vero e proprio romanzo, ma era composto da degli sketches, dei racconti brevi, delle immagini estrapolate da una vita quotidiana dove appaiono sempre gli stessi personaggi, in una sorta di microstoria, emblematica di una intera nazione. Si racconta del giorno che il vecchio amico esce di galera, così come di quel turista tedesco incrociato sul battello, dell’amico morto di freddo il giorno di Natale, e di molti altri eventi apparentemente slegati, ma uniti dallo stesso orizzonte. Tutto difatti si svolge in una cittadina ideale della provincia scozzese, dove la vita ruota intorno al lavoro e al pub, il Paxton Arms, unico luogo condiviso, dove si riunisce l’intera comunità. Nemmeno la chiesa è unica quanto il pub, difatti cattolici (chiamati papisti) e anglicani entrano in aperto conflitto in almeno uno dei racconti (Il funerale di McDonald).

Un rapporto particolare: madri e figli
È evidente il contesto ampiamente autobiografico in cui pescano le storie. Mac è il protagonista e voce narrante, mentre sua mamma è una di figura sempre presente nell’orizzonte degli eventi, una presenza che di rado viene portata in primo piano ma che ha un ruolo chiave nella comprensione di ciò che accade. Viene spontaneo pensare che sia una sorta di alter ego della Owens stessa. Vi sono diversi racconti in cui questa relazione madre figlio emerge. Il primo è Lesioni personali gravi, quando il protagonista e la madre si contendono il ricavato della vendita di un vecchio televisore al robivecchi di passaggio. La scena, sebbene raccontata con la usuale assenza di ogni accento sentimentale, assume inevitabilmente un profondo senso tragico, di fronte alla indigenza senza speranza di chi deve vivere con cinque sterline la settimana, quando va bene. Il televisore poi seguirà una sua storia personale, che verrà alla luce in seguito. Molti oggetti difatti hanno il loro ruolo in questi racconti, così come gli animali, in particolare un cane, che è a tutti gli effetti uno dei personaggi di cui si racconta la storia.

Nel secondo racconto dedicato alla mamma, ed intitolato L’amichetto della mia vecchia, Owens, con la ferocia ostentata grazie a una scrittura resa affilata da una descrizione asettica e impersonale, affronta il tema della solitudine di una donna avanti con gli anni, senza nessuna possibilità apparente di incontrare qualcuno dotato di un cuore. Il figlio cerca, a suo modo, seppur salvaguardando il proprio dominio, almeno in parte di occuparsi anche della madre, di proteggerla da una condizione di bisogno facilmente degenerabile in dramma. Solo nella parte finale del libro ci viene rivelata l’età di Mac. Fino a quel punto viene descritto come se avesse un passato ingombrante e lontano: si parla dei compagni di scuola cresciuti, del vecchio amico finito lungamente in carcere, tutto contribuisce a costruire un personaggio apparentemente non più giovane. La rivelazione della sua giovinezza è quindi una doccia gelata, perché trasporta ciò che appare come il racconto di persone alla fine di una vita in una dimensione post-adolescenziale assolutamente drammatica. Difatti Mac è gentile, è appunto un gentiluomo, fa quello che una madre si aspetterebbe da un figlio, seppur con i suoi – molti – limiti. Owens, ricordiamo, nel 1987 ha perso un figlio, le è stato ammazzato diciassettenne sulla porta di casa, e in questa relazione che attraversa il libro traspare la sua estrema difficoltà nel connettere una vita senza aspirazioni con quella che dovrebbe essere la prima di tutte le relazioni umane, il rapporto madre-figlio.

“La guardai con disgusto. Con i capelli crespi e le calze strappate, […] forse era il meglio a cui poteva aspirare. Immagino che non fosse un granché passare la vita a guardare la televisione e come unico diversivo avere qualche pettegolezzo. La compassione mi portò nell’angolo cottura, dove preparai una tazza di tè e alcune fette di pane tostato. Quando glieli portai non sembrò molto stupita”.

Ed è proprio a partire da questo sentimento primario e reale quanto basta, che nasce l’unica possibilità di sopravvivere in un mondo senza speranza, ovvero partire. L’emigrazione, seppur limitata, è da sempre la via di uscita da una crisi insuperabile, da una vita senza futuro. E così andare in un non meglio definito nord, dove le persone amano solo lavorare, si contrappone ai Gentiluomini dell’Ovest, aristocrazia di clochard che rifiutano il lavoro, schegge impazzite bruciate, in un mondo senza pietà né misericordia.

Letture
  • Alasdair Gray, Lamark, Safarà, Pordernone, 2017.
  • Alasdair Gray, Con un piede nella fossa, Safarà, Pordernone, 2018.
  • Chitra Ramaswamy, Obituary: Agnes Owens, autors, www.thescotsman.com, 25 ottobre 2014.