Estremo: una sola parola che racchiude quasi completamente uno dei più importanti cineasti al mondo, Werner Herzog. Regista acclamato, controverso, autore di capolavori come Aguirre: furore di Dio, Cobra Verde e Nosferatu: il principe della notte, la sua rilettura di una figura classica dell’immaginario. L’insistenza è forse il tratto che più contraddistingue Herzog: è noto l’aneddoto secondo cui le navi di Fitzcarraldo sono passate da essere semplici modellini a vere e proprie imbarcazioni funzionanti a causa della fermezza del regista (cfr. Chieppa, 2024). Si riesce a conoscerlo meglio attraverso il libro/intervista di Paul Cronin, Guida per i perplessi. Nuovi incontri alla fine del mondo, nel quale il regista tedesco si racconta. Un volume arricchito da aggiornamenti sulla filmografia (includendo i più recenti documentari The Fire Within e Theater of Thought, entrambi del 2022) e da numerose fotografie, che aggiorna il precedente Incontri alla fine del mondo (uscito in Italia sempre da minimum fax) a mo’ di un vero e proprio work in progress. Il lettore non scopre solo gli aneddoti importanti della sua vita, ma anche la sua psicologia e le sue passioni più profonde. In particolare colpisce il suo punto di vista su alcune questioni: sulle scuole di cinema e sul ruolo e il peso della troupe per la realizzazione di un film, sulla relazione tra immagini e musica e sulla pena di morte, tema trattato anche direttamente da Herzog, per esempio nel documentario On Death Row (2012).
Scuola di cinema: sì o no?
Quale giovane cinefilo non sogna di imparare la tecnica nelle più importanti scuole di cinema? Attrezzatura professionale, persone disponibili, professori del settore… Venire ammessi a una di esse sarebbe sicuramente un gran passo in avanti per il curriculum di quei ragazzi. Per Herzog non esiste insegnante migliore dell’esperienza; alla richiesta di parlare della sua scuola di cinema ideale lui risponde che un’istituzione del genere sarebbe irrealizzabile:
“Ti sarebbe concesso di presentare domanda solo dopo aver viaggiato da solo a piedi, diciamo da Madrid a Kiev, una distanza di circa tremila chilometri. Mentre cammini scrivi delle tue esperienze, poi consegnami i tuoi taccuini”.
Enorme differenza tra le sue parole e la didattica attuale nelle scuole. Ciò che conta è la vita reale e l’accademia è la morte del cinema. I veri insegnamenti provengono da ciò che circonda la persona, ed è chiaro che se la vita dell’allievo è confinata dentro quattro mura non c’è alcuna possibilità di crescita personale. Tantomeno cinematografica. Quindi uscire dai propri schemi, mettersi nei guai, innamorarsi follemente sono solo alcuni degli insegnanti della scuola di cinema di Werner Herzog. Nella sua esperienza, camminare è fondamentale:
“Sebbene io non sogni di notte, mentre cammino faccio esperienza di eccitanti viaggi nella mia immaginazione, e sprofondo in visioni”.
In un lavoro in cui l’ispirazione è importante, forse la conoscenza a trecentosessanta gradi lo è ancor di più.
Lavorare in gruppo
L’intimità è parte integrante del processo creativo. Sia in fase di scrittura che in fase di montaggio. Ma quella stessa intimità è importante anche in fase di produzione? Tra il regista e l’attore esiste un rapporto di fiducia che è a suo modo imprescindibile. L’emozione deve essere scelta nel modo più accurato possibile e il cineasta deve essere in grado di guidare l’interprete all’interno di un viaggio che sta avvenendo solo nelle loro menti; non è un caso se la definizione di recitazione sia “Vivere sinceramente una circostanza immaginaria data” (Anime Sceniche, 2024). Esiste, dunque, la necessità di creare una vera e propria intimità sul set, e questa non è possibile se ci sono membri della troupe superflui. Herzog ne parla ricordando quei momenti in cui veniva trasferito da un luogo a un altro del set: spesso, i viaggi dei camion duravano talmente tanto che il regista riusciva a concludere la scena prima che questi arrivassero sul nuovo posto, rendendoli di fatto inutili.
“Bastiamo io, tu, gli attori e una […] lampadina. Questo è il cinema per me. Niente più dell’essenziale”.
Questo si traduce in due conseguenze fondamentali: la prima è la già citata creazione di un rapporto tra regista e attori più privato e libero da distrazioni. Il secondo è un praticissimo risparmio sui costi di produzione; una troupe meno goffa e non numerosa giova al portafoglio di qualsiasi produttore cinematografico, che non si deve preoccupare del salario di persone superflue sul set.
Immagine o musica?
In un’intervista del 2017 a Che Tempo Che Fa, lo show televisivo condotto da Fabio Fazio, Ennio Morricone parlava del rapporto tra il suono e l’immagine, e di conseguenza della preoccupazione che svariati registi avevano sul possibile sopravvento della colonna sonora nella loro opera. Herzog ignora completamente questo problema. La musica è un regno nel quale bisogna perdersi completamente per poter assaporare il gusto di una grande colonna sonora. È un procedimento che richiede tutta la passione, e in qualche caso specifico la fisicità, del compositore. Il regista ne parla raccontando del suo rapporto con Ernst Reijseger, musicista che ha composto le colonne sonore di Il Diamante Bianco o L’Ignoto spazio profondo.
“Gli ho sempre chiesto di stare a piedi nudi mentre registrava; suona ancora meglio senza scarpe. Posso mostrargli una sequenza cinematografica che non ha mai visto, o recitargli un testo che non ha mai ascoltato, e lui ci suona sopra in modo splendido, inventando immancabilmente musica meravigliosa e azzeccando in pieno la giusta atmosfera”.
Le note venivano prima delle immagini; Herzog si presentava sul set consapevole che ciò che stava per creare doveva rifarsi al lavoro di Reijseger, e questo al regista non dispiaceva affatto. A volte, dunque, è la musica a dettare il ritmo, non l’immagine. Indubbio però è il rapporto che si deve creare tra le due arti: sempre coeso e mai conflittuale.
L’importanza dell’empatia
In un mondo capitalista in cui il rendimento personale è l’unica cosa che conta, a cosa serve l’empatia? Non è un sentimento che il regista tedesco cita esplicitamente. Ne parla inconsciamente quando fa riferimento alla pena di morte. Il tema viene trattato dal cineasta in documentari come nel succitato On Death Row, in cui vengono raccontate le storie di condannati a morte nel Texas. Se un criminale è finito là ci sarà un motivo, potrebbe dire qualcuno. Innegabile. Il problema di cui parla Herzog è lo squilibrio tra la pena ricevuta dal condannato e i crimini compiuti. George Rivas è stato un ladro che avrebbe dovuto scontare trentuno ergastoli più altri novantanove anni in carcere. Per cercare di evadere e ritrovare la sua libertà ha ucciso una delle guardie in servizio quel giorno, e di conseguenza è stato condannato a morte. Ingiustificabile, ma nessun omicidio lo è.
“Non potrei mai condonare l’omicidio di un agente di polizia […], ma la sproporzione della punizione di Rivas va contro il mio senso di giustizia”.
Se ci mettessimo nei panni del prossimo, quante disgrazie potrebbero essere evitate?
“Gesù, che è stato crocifisso in pubblico, sarebbe stato un promotore della pena capitale?”.
In qualsiasi cosa facciamo è bene ricordare che siamo umani, e se l’uomo è un animale sociale, come affermava Aristotele, l’empatia non piò essere eliminata dal quotidiano. In caso contrario, l’umanità intesa come società non avrebbe più senso. A quel punto, saremmo solo macchine inutilmente egoiste. Non solo gli unici temi di cui si discute nel volume, ma lasciano da soli intendere quanto vita e cinema si intreccino nell’opera di Herzog.
- Anime Sceniche, Recitazione e ricerca, 2024.
- Vincenzo Chieppa, Fitzcarraldo di Werner Herzog, in ondacinema.it, 24 febbraio 2021.
- Werner Herzog. On Death Row, Prime Video, 2012 (streaming).