Una tipica storia americana:
le fiamme vive del razzismo

Steph Cha
La tua casa pagherà
Traduzione di Andrea Russo

21lettere, 2021,
pp. 414, € 18,00

Steph Cha
La tua casa pagherà
Traduzione di Andrea Russo

21lettere, 2021,
pp. 414, € 18,00


È il fuoco l’elemento caratterizzante La tua casa pagherà, romanzo a firma della scrittrice coreana americana Steph Cha, di recente pubblicato in Italia per 21lettere. È il fuoco che ha divampato a South Central, Los Angeles, per sei giorni nel 1992, quando i poliziotti responsabili del violento pestaggio nei confronti di Rodney King furono assolti. Un fuoco che si è riacceso a Minneapolis nel 2020 nelle proteste che hanno seguito l’omicidio di George Floyd. Il fuoco è necessario per rendersi visibili eppure, come sottolinea Alessandro Portelli in un testo dal titolo emblematico, Il ginocchio sul collo (2020), la violenza degli incendi diventa scandalosa agli occhi dello sguardo bianco, più scandalosa di chi ha sistematicamente preparato la legna da ardere:

“Come se la violenza cominciasse adesso. Soprattutto come se il problema fosse quello di «spiegare» le esplosioni dei neri e degli ispanici, anziché quello di spiegarsi la loro pazienza, il fatto che nonostante tutto le rivolte siano così infrequenti da apparire eccezionali. Come se fosse l’America ad avere il problema della violenza nera, e non i neri americani ad avere il problema della violenza razzista”
(Portelli, 2020).

Un romanzo però non ha alcuna pretesa esplicativa o analitica, probabilmente quanto meno spiega tanto meglio racconta. E Steph Cha racconta molto bene come la violenza del razzismo strutturale sia la cornice entro la quale molti americani, spesso non considerati tali, conducono le loro esistenze.

La narrazione si snoda su due piani temporali: il 1991/1992 e il 2019. In entrambi i casi un adolescente nero è stato ucciso. Nel 1991 a perdere la vita è Ava Matthews, freddata alle spalle da un colpo di pistola, perché sospettata di furto in un negozio di alimentari. Ava aveva due dollari in mano. Nel 2019 alcuni dei protagonisti delle vicende narrate partecipano alla commemorazione di Alfonso Curiel, un adolescente ucciso da alcuni poliziotti nel corso di un inseguimento per ragioni non bene identificate. Mentre le vicende che ruotano intorno ad Ava Matthews, i cui familiari sono tra i protagonisti del romanzo, sono esplicitamente ispirate alla storia di Latasha Harlins, uccisa il 16 marzo del 1991 a Los Angeles in un contesto di forte tensione tra la popolazione afroamericana e quella coreana americana, l’omicidio di Alfonso Curiel anticipa – per certi versi in modo quasi inquietante perché ricorda come certe morti siano decisamente prevedibili – quello di George Floyd, dal momento che La tua casa pagherà negli Stati Uniti è stato pubblicato nel 2019. Estremamente attuali risultano infatti le parole pronunciate da un pastore, in presenza della zia di Ava, durante una manifestazione per chiedere giustizia per il ragazzo:

“Vedete, non importa cosa fai quando sei nero in America. Puoi anche trovarti nel tuo quartiere, nella tua strada, un poliziotto può sorprenderti persino nel tuo stesso cortile. Puoi anche essere disarmato, ma qualcuno potrà comunque ucciderti con la piena protezione della legge”.

Un incendio lungo trent’anni
La tua casa pagherà è in tutto e per tutto una storia americana. I suoi protagonisti non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altra: Shawn Matthews e Grace Park, un traslocatore afro-americano di quarantacinque anni e una farmacista coreana americana di ventisette anni. Lui è il fratello minore di Ava, impegnato nel presente a condurre una vita dignitosa e onesta dopo avere scontato una pena di qualche anno in carcere. È cresciuto sapendo di avere questo sguardo addosso: “Era un ladro. Una minaccia. Un criminale. Pelle scura e pericolo”. Lei è figlia di due immigrati coreani, conduce una vita tranquilla in un quartiere residenziale alle porte di Los Angeles, vive con i genitori e lavora nella farmacia di famiglia: “sin da piccola era sempre stata protetta dalla violenza. Nessuno le aveva mai neanche dato uno schiaffo”.
I punti di vista di questi due personaggi si alternano nella narrazione, nel passaggio da un giorno all’altro – ogni capitolo corrisponde a una data, perché ci sono dei giorni che forse è impossibile dimenticare. Fino a un certo punto le due storie procedono parallelamente; un lettore ignaro delle vicende che portarono alla morte di Latesha Harlins e dei riots di Los Angeles del 1992 difficilmente potrà immaginare in che modo si incroceranno.


In effetti potrebbe non apparire chiaro fin dall’inizio, ma il romanzo di Steph Cha è un giallo che ruota intorno a due omicidi, quello di Ava nel 1991 e quello di Yvonne, la madre di Grace, nel 2019. Rispetto a quanto avverrebbe in un “classico” giallo, però, queste due morti non sono raccontate unicamente come vicende private. Attraverso una narrazione di ampio respiro, capace tanto di approfondire la psicologia di personaggi che appaiono profondamente umani e verosimili quanto di raccontare una certa parte di America, Los Angeles e i suoi quartieri, l’autrice non lascia alcun dubbio: queste morti sono comprensibili solo collocandole nel contesto di ciò che i titoli dei grandi giornali chiamerebbero “le tensioni razziali” in America.
Forse però è più opportuno parlare di razzismo istituzionale; un razzismo che ha più di un bersaglio e che si realizza in modalità diverse, insinuandosi nelle famiglie e gettando un silenzio assordante tra adulti e giovani. Proprio i non detti che separano le generazioni, tanto nella famiglia Matthews quanto nella famiglia Park, sono un elemento cruciale della trama del romanzo: come mostrare le proprie fragilità ai più giovani? E come spiegare che tali fragilità sono il frutto di forme di razzismo sistemico contro le quali il singolo può poco? Il silenzio che separa Grace e sua sorella Miriam dai loro genitori è quello che deriva dalla migrazione, un tipo di esperienza che spesso segna fratture profonde tra la generazione che la compie e quella che la eredita:

“Giorno dopo giorno, dollaro dopo dollaro, avevano costruito la nuova vita in quel paese straniero, tutto affinché lei e Miriam potessero crescere in maniera libera e onesta, da americane. Grace si domandava se a volte i genitori non lo rimpiangessero. Miriam era così americana da ripudiare la propria madre; in pratica un reato capitale nella cultura confuciana. Grace era quella più legata alla famiglia, e comunque a ventisette anni non faceva altro che prendere, prendere e prendere”.

Qui il razzismo di cui si fa esperienza è subdolo perché velato: i genitori di Grace, e la comunità coreana in generale, rappresentano infatti il prototipo dell’immigrato modello, ben accetto perché si adegua a una posizione di subalternità. Così la farmacia di cui i suoi genitori sono tanto orgogliosi, a Grace non appare altro che come una scatola di vetro, senza finestre. Quanto ai Matthews, chiaramente, fanno esperienza di forme di razzismo ben più violente e visibili. Shawn e Ava, persa la madre in giovane età, hanno vissuto con zia Sheila e il cugino Ray nel ghetto. Dopo la morte di Ava, Shawn e Ray faranno parte di alcune gang giovanili, un destino quasi inevitabile per loro. Da adulto Shawn si prende cura dei figli di Ray – in carcere da diversi anni, ne esce proprio all’inizio del romanzo – ed è convinto che il fatto di non vivere più nel ghetto, di avere mostrato ai propri nipoti come vivere una vita onesta sia sufficiente:

“I ragazzi conoscevano la storia della famiglia, ma non c’erano quando Ava era morta, quando zia Sheila aveva scoperto di poter negoziare il loro dolore per avere attenzioni, che all’epoca era quasi sembrata una forma di giustizia, anche se in realtà non era niente del genere. Darryl e Dasha erano arrabbiati, certo, ma la loro rabbia era ereditata, astratta e sopportabile. Potevano abbandonarsi a quella rabbia senza bruciarsi”.

Ma Shawn dovrà ricredersi su questo: a causa di quel lutto non elaborato, e che non può condividere fino in fondo, si brucerà anche la generazione successiva. L’immigrazione da un lato e il ghetto dall’altro sono due periferie, materiali e simboliche, della società americana e della città di Los Angeles, sono le cornici entro le quali le persone, o i personaggi in questo caso, hanno il loro spazio di manovra; ma è uno spazio limitato.

La tua casa pagherà racconta cosa accade quando queste due cornici si incontrano ed entrano in collisione. Esattamente come accadde durante i riots del 1992 in cui esplosero anche le tensioni tra la popolazione coreana americana, che gestiva la gran parte dei negozi nei quartieri neri, e la popolazione afroamericana. È in questo scontro tra i margini che ha inizio la storia che porterà la famiglia Matthews e la famiglia Park a incrociarsi e piangere rispettivamente Ava e Yvonne. Ma intanto cosa accade al centro?

La giustizia impossibile?
Il centro, ovvero la popolazione americana bianca, ha un ruolo apparentemente marginale nella trama del romanzo, nel senso che nessuno dei protagonisti ne fa parte. Bianchi sono però due personaggi specifici: il detective incaricato di risolvere l’omicidio di Yvonne Park e il giornalista che, avvicinatosi alla famiglia Matthews quando Ava fu uccisa, ne ha reso nota la storia attraverso i suoi scritti. Bianchi sono dunque coloro che detengono il potere; il potere di decidere chi è il colpevole e chi è la vittima, e il potere di parlare al grande pubblico e scegliere quale storia raccontare. In qualche modo il lutto privato che attraversa queste famiglie è anche un’ingiustizia pubblica, dettata dal fatto che il potere è sempre altrove. Per ragioni diverse, hanno entrambe sfiducia nella polizia. Così in uno dei pochi momenti in cui Grace riesce a infrangere il silenzio che la separa dal padre, lui, raccontandole i fatti del 1992, le dice:

“Moltissimi coreani persero tutto. So che alcuni di loro davano la colpa a noi. Ma fu la polizia a trasformarci nei cattivi, poi ci abbandonarono. Lasciarono che ci prendessimo tutta la colpa. Nonostante le rivolte a South Central e a Koreatown, la polizia sparì”.

Mentre Shawn, resosi conto che suo nipote non riesce a gestire la rabbia per le ingiustizie subite dalla popolazione nera e dalla sua famiglia, afferma:

“Non ha importanza ciò in cui credo. Ciò in cui credo non mi terrà fuori di prigione. Non lo hai notato? Non sono a capo della polizia. I giudici non mi ascoltano. Se pensano che le vite dei neri non hanno importanza, allora non hanno importanza”.

Queste due famiglie, così a lungo l’una contro l’altra, in realtà hanno qualcosa in comune: le loro vite contano poco o nulla per chi detiene il potere. Sotto questo profilo, altro elemento interessante è l’attenzione a come una storia viene raccontata. Se, leggendo il romanzo, ci identifichiamo col punto di vista interno di Shawn e Grace, Steph Cha sembra suggerire che di solito, però, il punto di vista dei diretti interessati, di coloro che si trovano ai margini rispetto al centro, non è certo quello che viene prevalentemente ascoltato. Così la zia di Ava, profondamente addolorata dalla perdita della nipote, per essere ascoltata e chiedere giustizia ha necessariamente bisogno di Jules Searcey, un giornalista che appare sinceramente coinvolto nel dolore della famiglia Matthews, ma che compie un’operazione che Shawn non può accettare: ha reso Ava Matthews “un angelo”; solo così a quanto pare la popolazione bianca può indignarsi per l’uccisione di un’adolescente afroamericana. Ma Shawn “non sopportava che il mondo avesse bisogno della sua perfezione per poterla piangere”.

Il giallo alla fine si risolve e scopriamo chi ha ucciso chi. Forse però, sembra dirci l’autrice, rimane impunito il mandante, ovvero il nemico comune alle due famiglie e alle due comunità: il razzismo strutturale e sistemico da cui Los Angeles sembra non aver scampo.
“Ma dov’era la città nuova? E dov’erano i buoni?
Los Angeles, doveva essere quella. Il termine della frontiera, la terra del sole, la terra promessa. Il capolinea per immigrati, rifugiati, profughi, pionieri. Era la casa di Shawn, dove sua madre e sua sorella erano vissute e morte. Ma lui se ne era andato e così aveva fatto la maggior parte delle persone che conosceva. Scacciati via, sfrattati, gente nata lì e vissuta in esilio. Vedeva la paura e il rancore lì, in quelli che erano rimasti. La città dei bei sentimenti, della tolleranza, del progresso e dell’amore per il prossimo, era anche una città che evitava, faceva morire di fame e uccideva i propri abitanti. Non c’era da sorprendersi che sbuffasse e sospirasse, pronta a esplodere. Perché quella città era umana e gli umani possono sopportare solo fino a un certo punto”. Alla fine del romanzo Los Angeles torna a bruciare, proprio come nel 1992. Ma qualcosa è cambiato rispetto ad allora: questa volta i Matthews e i Park “condividevano quel paesaggio incendiato. La febbre, il fuoco”.
Forse avevano imparato a vedere e riconoscere il loro nemico comune.

Letture
  • Alessandro Portelli, Il ginocchio sul collo, Donzelli, Roma, 2020.