Scrutando l’altra metà
della distopia


Margaret Atwood

Il racconto dell’ancella

Traduzione di Camillo Pennati

Ponte alle Grazie, Milano, 2017
pp. 400, € 16,80

Prima di diventare la miniserie televisiva drammatica del 2017 e di rilanciare la fama di un classico dallo status già consolidato sulla carta ma da lungo tempo latitante nelle librerie italiane, The Handmaid’s Tale non era una distopia femminista. Almeno questo fu quanto dichiarò al lancio mondiale la sua controversa attrice protagonista Elisabeth Moss, seguita a ruota da altri esponenti della writing room della serie televisiva. Per uno strano scherzo del destino Moss ha costruito la sua carriera televisiva su due ruoli femminili e femministi a dir poco iconici – Peggy Olson di Mad Men e Difred nella produzione Hulu – eppure in entrambi i casi si è dimostrata più che titubante a incorniciarli come tali: “Per me (quella di Il racconto dell’ancella, ndr) non è una storia femminista. Si tratta di un racconto umano, perché i diritti delle donne equivalgono ai diritti umani. Non avvicino mai un ruolo con una sorta di agenda politica. Mi ci avvicino da un punto di vista umano” (Brooks, 2017).
Chi ha una certa dimestichezza con l’industria culturale (non solo statunitense) non sarà rimasto poi così sorpreso, dato che la ritrosia dei realizzatori a etichettare un prodotto come femminile è tanto forte quanto non supportata da ragioni economiche e storiche valide.
Nell’anno in cui il botteghino statunitense è stato dominato da tre film con donne assolute protagoniste e nel post scandalo Harvey Weinstein e movimento #MeToo, Elisabeth Moss e i titubanti propugnatori di “una serie TV sui diritti umani” sono poi trionfalmente saliti sul carro delle vincitrici, con tanto di Golden Globe e discorso di ringraziamento sull’importanza del femminile e della sua rappresentazione.

Rimane, per chi ha la memoria abbastanza lunga da ricordarlo, lo schiaffo morale di sentire definire una distopia come una storia il cui bagaglio politico non è importante. Viene da chiedersi quale sia dunque l’elemento fondante di una rappresentazione futuristica peggiorativa in cui a non funzionare in maniera spesso tragica e coercitiva è proprio la sfera politica. Quando implode l’ambiente, si parla di post-apocalittici.
Nel momento in cui la democrazia salta e un regime più o meno opprimente ne prende il posto, siamo di fronte a una distopia. In entrambe è l’elemento umano a soffrire e a vivere una dolorosa contrazione dei suoi diritti, ma è il motivo per cui ciò avviene ad evidenziare il motore (e il focus) della storia. Quella di Gilead è d’altronde una dittatura su cui persino la creatrice Margaret Atwood si è sentita in dovere di fare dei distinguo.
Quando l’autrice canadese scrisse il suo romanzo più celebre correva l’anno 1985 e nei vicini Stati Uniti le cose non andavano benissimo. Se sin dall’esordio Atwood si era interessata alle dinamiche di potere private e pubbliche tra uomo e donna e tra maschile e femminile, con Il racconto dell’ancella tira fuori un classico distopico, un titolo cult capace di rimediare al più grande errore concettuale del predecessore scritto da George Orwell. Lo scrittore inglese partorì infatti quella che è ancor oggi la distopia letteraria più iconica di sempre, trascurando quasi completamente un elemento storico e letterario centrale: il controllo sul corpo femminile come mezzo imprescindibile per ottenere quello sulla società.
Margaret Atwood invece questo errore non lo commise, anzi; è sulle ossessive forme di controllo del corpo femminile che si articola la società da incubo che descrive nel suo capolavoro. D’altronde è dal suo primo romanzo La donna da mangiare (The Edible Woman, 1969) che il corpo femminile incarna nei suoi scritti un potere ineludibile nella relazione tra uomo e donna, tanto che deve essere in qualche modo catalizzato e consumato (in questo caso mangiato) per mantenere l’ordine sociale del patriarcato.
Il corpo femminile non solo è posseduto e rigidamente regolamentato nel suo consumo a Gilead: è il suo stesso degrado la causa scatenante del crollo della democrazia, della guerra, della nascita della distopia in cui si muove l’ancella protagonista. Il crollo verticale della fertilità, la cui colpa è addossata interamente al genere femminile, permette di creare una società dell’ineguaglianza in cui il rigido controllo classista si basa sul possesso e sullo sfruttamento del corpo femminile.
Da qui la contrazione dei diritti umani a cui si appellano Moss e la writing room della serie TV, omettendo il piccolo particolare che il genere maschile aderisce alla rigida disciplina sociale con la promessa di una ricompensa futura che altro non è che un corpo femminile tutto per sé, su cui esercitare la propria microscopica porzione di tirannia privata dopo essersi assoggettati a quella pubblica.

Non bisogna troppo prendersela con i creatori della serie “più femminista” del 2017, dato che a precederli fu la stessa Margaret Atwood. Per anni la scrittrice ha lottato per strappare l’etichetta di corpus femminista dalla propria opera, con pari o maggior foga di quella impiegata per creare una micro-nicchia autoprodotta e definita “speculative fiction”, atta a sfuggire a un’altra definizione scomoda: quella di autrice fantascientifica.
Questa attitudine di Margaret Atwood verso le due etichette di femminismo e fantascienza evidenzia impietosamente quanto Il racconto dell’ancella sia (come ogni altra distopia) il frutto del tempo in cui è stata concepita: un’epoca in cui essere femministi ed essere fantascientifici significava camminare in un territorio di piena controversia e grande pregiudizio, condizione che Moss ci ricorda ancor oggi siamo lontani dall’aver bonificato.
I passaggi critici verso un certo femminismo che si rincorrono nel libro, la stessa tipologia di attiviste che ritrae e sferza (molto bianche e molto aderenti a un tipo di lotta politica da cui si cominciava a prendere le distanze proprio negli anni Ottanta) sono la spia di un romanzo che dovrebbe aver fatto il suo tempo in questo ed altri ambiti. Il racconto dell’ancella dovrebbe già essere una testimonianza, importante ma datata, di una riflessione storica non più attuale.
A preoccuparci non dovrebbe essere tanto la ritrosia dell’adattamento o dell’originale a definirsi femminista, quando la solerzia con cui viene preso come esempio moderno, attuale e contemporaneo dei problemi politici e femminili del 2018. Ciò non significa che Il racconto dell’ancella possa risuonare in molti passaggi delle derive più preoccupanti del nostro presente, anzi.
Il fatto che ci sembri così attuale denuncia però impietosamente quanto poco si sia letto e discusso di fantascienza sul e al femminile dal 1985 ad oggi. Questo è specialmente vero in Italia, dove il romanzo era di difficile reperibilità fino a pochi mesi fa, subito prima di diventare improvvisamente feticcio della stampa generalista e dei booktuber di grido, dopo decenni di silenzio colpevole.
Nell’indifferenza quasi totale del panorama editoriale italiano, negli ultimi trent’anni il modo di costruire distopie con al centro il corpo femminile si è di molto evoluto. Una visione in cui per denunciare il disequilibrio tra generi nel nostro presente si immagina un futuro in cui questo scompenso è ancora più grave non è più un espediente narrativo accettabile.
Privare di agency l’universo femminile, anche a livello letterario, nel 2018 è sintomo di pigrizia intellettuale, come testimonia il successo di Le Ragazze Elettriche. Sin dal titolo originale – The Power – Naomi Alderman mette il potere nelle mani delle donne e sta a vedere cosa succede. La società futura che tratteggia la più brillante allieva di Margaret Atwood (sotto cui l’egida il romanzo ha trovato anche il suo successo commerciale) opera proprio sul ribaltamento dei ruoli canonici dei classici distopici del passato. Per una mutazione genetica, ora sono le donne a divenire “il sesso forte”, ad esercitare una supremazia di carattere fisico che pian piano si propaga a tutti gli ambiti sociali e politici. L’operazione di Alderman non è la facile equazione nichilista del chi avrà il potere sottometterà il più debole, giudizio con cui qualcuno l’ha frettolosamente liquidata.

Il ribaltamento è più profondo, perché avviene innanzitutto a livello letterario, nella scelta dei ruoli e dei punti di vista del romanzo. Le donne incarnano gli archetipi narrativi maschili tipici di potere tipici di queste narrazioni (il politico arrivista, il santone carismatico, il boss della mala) mentre l’unico uomo attraverso cui esploriamo questa realtà è innanzitutto connotato dall’attrattiva che esercita sull’altro sesso e in seguito dalla progressiva incapacità di non subire sulla sua pelle le conseguenze della montante distopia.
Alla fine Naomi Alderman si limita a ribaltare proprio quel dominio sul corpo che sta alla base di ogni buona distopia: solo che al centro di Le ragazze elettriche si ritrova il fisico maschile, via via più debole e più desiderabile, privato della sua autonomia privata, divenuto merce di scambio e oggetto di violenza.
A farci riflettere del successo di Il racconto dell’ancella dovrebbe essere proprio la descrizione di questa storia – appena rimaneggiata nella sua versione televisiva – come attuale e moderna.
Al di là dell’effettiva qualità artistica del prodotto televisivo, è questo il sintomo di quanto siano ancora inascoltate le voci femminili nel comparto narrativo che reagisce più repentinamente ai cambiamenti sociali e politici; quello della fantascienza. Quanto è indicativo del nostro modo di pensare il fatto che sentiamo confermata la nostra visione del presente da una distopia catastrofica che descrive il controllo assoluto sul corpo femminile, mentre troviamo dissonante e controversa quella che a quel genere dà per la prima volta un potere vero e proprio?

LETTURE
––  Naomi Aldermann, Ragazze elettriche, Nottetempo, Milano, 2017.
––  Margaret Atwood, La donna da mangiare, Corbaccio, Milano, 2002.
––  Katherine Brooks, Margaret Atwood Responds To Cast’s Claim That ‘Handmaid’s Tale’ Isn’t A Feminist Story, Huffington Post, 23 aprile 2017.