Scritta continua,
lungo tutto il mese di Maggio


Bruno Stucchi
I manifesti del Maggio francese
Skira, Milano, 2018

pp. 80, € 15,00


Bruno Stucchi
I manifesti del Maggio francese
Skira, Milano, 2018

pp. 80, € 15,00


Sono trascorsi oltre cinquant’anni dal tentativo di rivoluzione politica e culturale organizzata dal movimento studentesco, dalla classe operaia e dagli intellettuali più sensibili al cambiamento, conosciuto come “il movimento del ’68”. Una messa in discussione dell’organizzazione politica e sociale, della convivenza umana contro l’imperialismo capitalista e la disuguaglianza. Un bisogno di giustizia e libertà che si diffuse nel mondo occidentale, in quella parte del pianeta in cui ricchezza e progresso si mescolavano con la rivolta sociale e dove gli echi dei movimenti pacifisti degli Stati Uniti, soprattutto la contestazione alla guerra del Vietnam, diffondeva bisogni di cambiamento. Si inaugurerà una stagione le cui istanze restano ancora oggi valide, ma offuscate, in questo nuovo secolo, da conformismo e revisionismo. Parigi tra il maggio e il giugno del 1968 inaugura la fase di rivolta che si diffonderà in tutto il Paese. Il governo del conservatore generale De Gaulle apostrofò la ribellione con sarcasmo definendola “chienlit”, sia “carnevalata” che gioco di parole tra cani e cacca a letto, cercando di reprimere con la forza le manifestazioni e le occupazioni che caratterizzavano la ribellione.

In quegli anni si diffondono anche in Europa i televisori in tutte le famiglie, le riviste si fanno patinate e a più colori, il cinema distribuisce sogni, l’immagine si consolida come mezzo di comunicazione di massa. Ed è anche attraverso l’uso delle immagini che la rivolta si diffonde: il 14 aprile gli studenti parigini occupano L’Ecole des Beaux-Arts e gli studenti danno vita all’Atelier Populaire, un laboratorio artistico dove si realizzano i segni della propaganda alle ragioni della protesta. Il mezzo è il manifesto, risultato di dibattiti assembleari, idee condivise democraticamente in un percorso di ideazione collettiva: vengono prima discussi i temi della comunicazione, poi abbozzati, quindi approvati e infine distribuiti e affissi. Un processo di realizzazione collettiva, di produzione spontanea realizzata senza divisioni di ruolo, partecipata e sentita. Quarantacinque di quei manifesti sono stati riportati in un piccolo volume dal designer e editore di musica d’avanguardia Bruno Stucchi per i tipi di Skira, insieme ad alcuni slogan che apparivano scritti sui muri di Parigi, come documentazione di quel particolare momento. A integrazione di questa documentazione, i poster sono stati riprodotti e inclusi in un numero maggiore nell’edizione deluxe della ristampa di Musica Manifesto n. 1 di Luigi Nono realizzata dall’etichetta Die Schachtel in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi.
I membri dell’Atelier Populaire avevano idee molto chiare sull’impiego del medium e sui messaggi che doveva veicolare.

I poster prodotti da Atelier Populaire sono le armi al servizio della lotta e sono una parte inseparabile di essa.
Il loro posto è nei centri di conflitto, vale a dire, nelle strade e sui muri delle fabbriche. Utilizzarli per scopi decorativi, affiggerli in luoghi di cultura borghesi o di prenderli in considerazione come oggetti di interesse estetico vuol dire compromettere sia la loro funzione che il loro effetto.
Questo è il motivo per cui l’Atelier Populaire ha sempre rifiutato di metterli in vendita.
Anche tenerli come prova storica di una certa fase della lotta è un tradimento, perché la lotta in sé è di tale primaria importanza che la posizione di un osservatore “esterno” è una finzione che inevitabilmente li riporta nelle mani della classe dominante.
Questo è il motivo per cui queste opere non devono essere considerate come il risultato finale di un’esperienza, ma come un incentivo per l’individuazione, attraverso il contatto con le masse, di nuovi livelli di azione, sia sul piano culturale che politico.
(Dichiarazione dell’Atelier Populaire in Stucchi, 2018).

Il mezzo tecnico utilizzato per la stampa è la serigrafia, scelta dettata dalla facilità e rapidità d’uso: una tela tesa su un telaio in legno dove le parti che non compongono i segni vengono coperte da una gelatina. Con un raschietto (racla) si stende l’inchiostro che si spande nei luoghi non otturati che fanno passare il colore riportandolo su carta. Assenza di sfumature, mono o bicromia sono gli elementi grafici nel risultato finale. Rosso e nero i colori maggiormente utilizzati, con un forte contrasto su fondo carta. Nell’arco di quaranta giorni vengono riprodotti oltre trecento soggetti diversi, centoventimila manifesti stampati. Le parti testuali vengono realizzate con l’uso di caratteri scritti a mano, in stampatello, spesso condensato, senza grazie, con un diffuso uso del maiuscolo, un rafforzativo degli slogan proposti, ripresi dalle parole scandite nelle manifestazioni per le strade. Molti sono composti di solo testo e si affiancano ai graffiti che riempiono i muri di Parigi.

I manifesti diffondono rapidamente le parole d’ordine così come i temi della protesta: De Gaulle, i CRS (il corpo della police nationale francese con funzioni antisommossa e di protezione civile) e la loro violenza, la libertà, gli scioperi nelle fabbriche. Un’azione politica che grazie alla diffusione capillare non passava inosservata, mettendo in discussione l’intero sistema politico e sociale. Già dalla fine dell’Ottocento la stampa su muro, in particolare pubblicitaria, ha una vasta diffusione, anche grazie alle nuove tecniche, la fotografia e la litografia, e le nuove espressioni grafiche con i tagli obliqui e il colore piatto. Utilizzando stili diversi, secondo il periodo storico, la diffusione dei messaggi avviene secondo codici comunicativi (parola e immagine) efficaci e immediati.

Il manifesto da strumento divulgativo di notizie di interesse pubblico è passato a comunicazione ludica, diffondendosi di pari passo con la rivoluzione industriale. Con i manifesti della rivolta francese si assiste a una nuova iconografia, messaggi immediati e chiari, con una dose di ironia, sarcasmo e spregiudicatezza che dà nuovo impulso alla comunicazione murale. Nel solco della tradizione iconografica che, fin dai tempi della pittura sacra, utilizza segni e codici condivisi e identificabili nel processo di narrazione. Così nel racconto della rivolta si utilizzano icone riconoscibili: martello, forcone, chiave inglese, fabbrica per parlare del mondo del lavoro; pugni alzati, lavoratori in corteo per descrivere la lotta; manganello e filo spinato per sottolineare la repressione.
Stilizzazioni in cui il movimento si riconosce e amplifica i suoi messaggi di lotta. I segni che riaffiorano nelle serigrafie richiamano le lezioni dei murales dei Paesi latino americani e cubani, la cultura pop, il fumetto e la satira, ma echeggiano anche le lezioni degli espressionisti e futuristi dei paesi dell’Est. Questa condivisione formale dei tratti è dettata dal bisogno di urgenza comunicativa: come un tweet, un post dei giorni nostri, i manifesti prendevano posizione su un fatto, un accaduto, rispondevano immediatamente a provocazioni o temi quotidiani. Questa particolare modalità li rende una novità assoluta nel panorama della comunicazione, senza pretese di progettazione accademica ma con un efficace stile di cambiamento.
Primi vagiti di autoproduzione, segni prepunk di forme grafiche e parole di libertà che si diffonderanno negli anni successivi: l’immaginazione al potere.
Nel 1968 anche la grafica politica in Italia si rinnova, guardando agli indirizzi sperimentati nel Maggio francese, così come dai Paesi latino americani, dall’underground americano e dalla Cina maoista. Lotta Continua, il settimanale comunista nato alla fine del 1969, riprese non solo lo slogan del Maggio nella testata ma utilizzò anche l’iconografia nata da quell’esperienza.

L’influenza del linguaggio rivoluzionario anche sui partiti più istituzionali è stato ben documentato da I muri del lungo ’68 realizzato da William Gambetta, una lettura utile per integrare questo piccolo viaggio visionario nel tempo (rivoluzionario) lungo il quale ci conduce il volume di Stucchi.
Una stagione ricca di contraddizioni, anche troppe, al punto che gli sviluppi successivi sono stati perfino paradossali e basti pensare all’uso indiscriminato in pubblicità del rock passato da colonna sonora dell’anticonsumismo a collezione di jingle. Anche la grafica sessantottina ha subito la medesima metamorfosi. Esemplare il caso del distributore francese E. Leclerc (per un po’ d’anni socio in Italia di Conad), che nel 2005 utilizzò alcuni di quei manifesti per una propria campagna, che lo vedeva scendere in campo come paladino della difesa del potere d’acquisto dei consumatori. “L’aumento dei prezzi opprime il vostro potere d’acquisto, E. Leclerc difende il vostro potere d’acquisto” era il claim e l’immagine riprendeva quella passata alla storia del CRS (l’oppressore) con uno scudo a forma di codice a barre, simbolo del potere d’acquisto. Tornano in mente le parole del buon vecchio Karl Marx, quando scrisse che la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa (cfr. Marx, 2015). E forse è questa la vera tragedia, verrebbe da aggiungere.

Letture
  • William Gambetta, I muri del lungo ’68, Derive e Approdi, Milano, 2014.
  • Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 2015.