Sadeq Hedayat, il malessere
e il mestiere di scrivere

Sadeq Hedayat
Il randagio e altri racconti
Traduzione di Anna Vanzan

Carbonio, Milano, 2021
pp. 152, € 14,50

Sadeq Hedayat
Il randagio e altri racconti
Traduzione di Anna Vanzan

Carbonio, Milano, 2021
pp. 152, € 14,50


Settant’anni fa una nuova era stava affiorando dalle macerie del secondo massacro mondiale conclusosi da pochi anni. Si era nel 1951. La vita rifioriva, iniziavano ad accalcarsi avvenimenti destinati a segnare profondamente il nostro immaginario, a mutare la nostra vita quotidiana. Quell’anno uscì nelle sale di New York in prima assoluta Un americano a Parigi di Vincent Minelli mentre in Italia si proiettava Miracolo a Milano di Vittorio De Sica. Negli Usa, la Cbs mise a punto il primo sistema di televisione a colori; ne seguì una battaglia legale con il concorrente RCA. Quello stesso anno Panasonic lanciò la prima lavatrice elettrica con agitatore cilindrico, Isaac Asimov pubblicò il romanzo Fondazione, iniziando il più celebre ciclo della fantascienza moderna, e in Italia si inaugurò il festival di Sanremo. Cesare Pavese pubblicò la raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Achille Maramotti inventò il brand Max Mara e di lì a poco sarebbe diventato leader italiano dell’abbigliamento prêt-à-porter, Antonio Griffo Focas Flavio Angelo De Curtis noto altrimenti come Totò scrisse il brano Malafemmena e Nat King Cole rispose con Unforgettable. Fu l’anno in cui entrò in funzione il primo computer commerciale: UNIVAC.

Sadeq Hedayat (Teheran, 17 febbraio 1903 – Parigi, 4 aprile 1951).

L’elenco potrebbe continuare e nel mucchio, una volta di più, si smarrirebbe quel trafiletto comparso in cronaca su alcuni quotidiani parigini nell’aprile di quell’anno che recitava così: “Un persiano, di nome Sadeq Hedayat, si è suicidato, nel suo appartamentino in rue Championnet, aprendo il rubinetto del gas”. Nessun clamore, né alcun botto: il gas non fece saltare per aria l’edificio, come accadde alla dimora della protagonista di Saute ma ville (1968) interpretata dalla stessa regista Chantal Ackerman, a sua volta suicida nel 2015. Hedayat era assai riservato, un solitario, incompreso e osteggiato in patria, straniero in terra straniera nella cosmopolita ville lumiere. Il suo suicidio non è un semplice dato biografico. Riassumendo la sua vita, basti dire che nacque a Teheran il 17 febbraio 1903, ventenne se ne andò in Francia a studiare, in seguito tornò in patria, decise di approfondire lo studio del palhavi, l’antica lingua della Persia, e per questo andò in India. Infine, tornato in Francia, come detto si suicidò a Parigi il 4 aprile 1951.
Per quanto possa apparire più una didascalia che un ritratto, la vicenda di questo raffinatissimo scrittore e intellettuale è davvero tutta inscritta alla stregua di un codice genetico in questa micro biografia. Non va dimenticato, non è un semplice dato biografico. Leggendo le sue storie, quel malessere si avverte come un brusio, si percepisce netto come un rumore di fondo, spia di un mestiere di vivere mai fatto proprio. Le sue storie assai delicate nei toni, quasi fragili nella loro semplicità, ingentilite da colori luminosi, talora accecanti, in virtù di una grande capacità di descrivere dettagli, ambienti, oggetti, sono in realtà vicende segnate da un’inguaribile infelicità, da paranoie, ossessioni e disillusioni che senza alcuna distinzione vanno in sorte a uomini e a donne, a cui spesso viene riservato un destino impietoso, o nel migliore dei casi solo lampi di illusoria felicità.

Hedayat tentò il suicidio già una prima volta appena venticinquenne sempre a Parigi, dove si trovava per motivi di studio, ma se il mestiere di vivere gli era difficile da maneggiare, padroneggiava con maestria il mestiere di scrivere. Considerato il padre della letteratura iraniana moderna, tuttora non del tutto scevro da censure e anatemi in patria, questo autore così profondamente radicato nella cultura della sua terra e al tempo stesso distante anni luce dall’immagine edulcorata di un Medio Oriente esotico e fiabesco, finalmente inizia a poter essere letto anche in Italia grazie a Carbonio. L’editore milanese lo scorso anno ha varato una lodevole iniziativa editoriale a lui dedicata, proponendo un autentico gioiello: La civetta cieca. È l’opera più nota di Hedayat, nonché la prima e (quasi) l’unica già pubblicata a più riprese in italiano (la prima volta nel 1960), ma tradotta basandosi sulle versioni in inglese e in francese. Medesima sorte anche per una manciata di racconti a loro volta tradotti da un’edizione francese raccolti sotto il titolo Tre gocce di sangue. Al contrario, l’edizione Carbonio si è avvalsa di una studiosa di grande prestigio, profonda conoscitrice della lingua persiana e della letteratura iraniana, Anna Vanzan, per proporre una traduzione diretta dal persiano.

Il romanzo venne pubblicato per la prima volta a Bombay nel 1936 e soltanto cinque anni dopo in Iran in concomitanza con l’abdicazione di Reza Pahlavi. La civetta cieca è un’allucinata discesa negli abissi della coscienza alterata del protagonista, un miniaturista di portapenne, un romanzo che mescola con misura ammirevole le influenze di autori prediletti da Hedayat, (e che autori!: Franz Kafka, Edgar Allan Poe, Fëdor Dostoevskij), allucinazioni che paiono arrivare direttamente da Thomas De Quincey (Il mangiatore d’oppio) – e a ben vedere anche da un racconto come Aurélia di Gerard de Nerval – e le tradizioni, i proverbi, i detti popolari provenienti dalla millenaria cultura persiana. Un insieme equilibrato e capace di dare vita a una storia fatta di visioni fantasmatiche, di inabissamento nelle regioni più oscure dell’anima; una vicenda avvolta in un’atmosfera surreale e non a caso il romanzo trovò l’apprezzamento di André Breton.
Nella sua introduzione al romanzo, Anna Vanzan opportunamente invitava ad “abbandonarsi alla narrazione, fra scenari malati e altri pieni di lirica bellezza”. Qui basti ricordarne l’incipit nel quale i due poli coincidono: “Nella vita ci sono malanni che come lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla”. Purtroppo, Anna Vanzan ci ha lasciati lo scorso 20 dicembre. Lavorava al secondo volume dedicato a Hedayat, una selezione di dieci racconti intitolata Il randagio e altri racconti. Anche come segno di omaggio al suo lavoro e alla sua persona, Carbonio ha scelto di pubblicare ugualmente l’antologia con i nove racconti la cui traduzione era stata già completata dalla studiosa italiana (il decimo avrebbe dovuto essere Sepolto vivo).

Nove storie che pur nella diversità di stile, perché provenienti da raccolte pubblicate da Hedayat nell’arco di oltre un decennio, danno modo al lettore italiano di fare conoscenza con un autore che si rivela magistrale nell’arte del racconto. Storie breve che talora paiono pronte per essere catapultate a Hollywood, perché il meccanismo narrativo, al pari di una sceneggiatura di ferro, incastra le sue tessere in un mosaico perfetto, alla stregua di certi racconti di Stefan Zweig.
È il caso di Dash Akol, in pratica la storia di un amore impossibile, quello vissuto dall’omonimo protagonista divenuto esecutore testamentario di Haji Samad, un tale conosciuto anni prima durante un viaggio. Un onere inaspettato che Dash Akol si assume e assolve con scrupolo se non fosse che il defunto gli ha affidato non solo la cura dei suoi beni materiali ma anche l’educazione e la crescita di una giovanissima e affascinante figlia: Marjian. Si struggerà per anni, lei si sposerà, lui morirà perché un’insanabile inimicizia (“Tutti a Shiraz sapevano che Dash Akol e Kaka Rostam erano così nemici che avrebbero sparato pure alle reciproche ombre”, così prende il via la storia) si concluderà tragicamente. Tutto si svolge in modo trasparente agli occhi del lettore, ma Hedayat inserisce in modo che passi quasi inosservato l’elemento che renderà noto anche a Marjian l’amore sconfinato nutrito nei suoi confronti da Dash Akol quando ormai questi è morto.
A ben vedere procedimenti filmici sono visibile anche in altri racconti, per esempio in Haji Morad, dalla conclusione fulminante, magistrale come i finali insuperabili di Michelangelo Antonioni (Zabriskie Point e Professione reporter in primis). È forse la più divertente delle storie antologizzate, messa in scena di un insanabile conflitto coniugale che esaspera a tal punto il protagonista, Haji Morad, appunto, da fargli scambiare una passante per sua moglie con conseguente battibecco, chiarimento al quartier generale della polizia di zona e conseguente sanzione (corporale) al molestatore. La fine è però un’altra e a lettura conclusa appare incastonata con cura nelle battute inziali del racconto.

Infelicità, conflitti insanabili, malessere, siamo a un passo dal suicidio, e qualcuno che la fa finita non manca in questo florilegio. È la Abji Khanum dell’omonimo racconto, sorella maggiore “piuttosto bruttina” di Mahrokh “piccolina, di incarnato chiaro, con un bel nasino, i capelli castani, bellissimi occhi e quando rideva le si formavano delle fossette agli angoli della bocca”. Sarà impossibile tenere a freno l’invidia per la sorella minore, a nulla servirà il fervore religioso, la preghiera: nel giorno del matrimonio di Mahrokh, lei deciderà di togliersi la vita. Non è la sola. C’è Bahram, che nel racconto Vortice si suicida suscitando nell’amico di una vita, Homaium, una tempesta di emozioni e sentimenti contrastanti, dapprima il dolore per la perdita dell’amico, poi il sospetto di una possibile relazione con la moglie e infine la tremenda convinzione che la propria figlioletta sia in realtà il frutto di quella relazione clandestina. Una volta ancora però Hedayat scompagina il tutto e rivela al lettore e a Homaium la verità. Il triangolo amoroso, vero o presunto, lo si ritrova anche in altre due storie, sviluppate su registri differenti. In Il pluridivorziato la donna non è in realtà oggetto di contesa, bensì causa di guai seri per due uomini che, incontratisi per caso scoprono di essere stati rovinati dalla stessa malafemmina, mentre nel Don Giovanni di Karaj si passa al quartetto amoroso con tre uomini a ruotare intorno alla medesima donna. Qui il tono si fa più leggero complice il contesto festoso del Capodanno.
Rimangono come macigni però in tutte queste storie le forti disillusioni, la fragilità dei rapporti, la volubilità dei sentimenti, l’avidità, l’ostilità, la sfiducia, in altre parole l’impossibilità di vivere serenamente in relazioni agli altri. Una sorte di pace non può che giungere dalla morte, “che, per tutta la durata della vita, ci punta il dito addosso”, come si legge in La civetta cieca. Almeno sereno ci appare (da morto) il protagonista de L’ultimo sorriso, racconto di ambientazione storica, grossomodo fra VIII e IX secolo ai tempi del conflitto tra il casato dei Barmecidi e il califfo Harun ar-Rashid. Storia che testimonia anche dell’interesse di Hedayat per il buddismo, frutto della sua permanenza in India. Infine, a fianco del citato Abji Khanum, come vertici della raccolta ci sono gli altri due racconti ancora non menzionati: La bambola dietro la tenda e Il randagio.

Il primo stabilisce il trait d’union più evidente con La civetta cieca, in virtù del carattere disturbato del protagonista, della sua incapacità di stabilire legami con una dimensione di realtà condivisa, di relazionarsi con l’altro privilegiando il confronto e non il conflitto. Protagonista è uno studente iraniano, Mehrdad, complessato, timido, incapace di sentirsi a proprio agio in qualsiasi contesto, introverso oltre ogni dire e ancor di più a disagio nei confronti delle donne. Ancora una volta è la morte a dare un senso all’esistenza del protagonista di turno, anche se questa volta vestendo i panni del simulacro,  di una parvenza fantasmatica d’esistenza. Infatti Mehrdad si innamorerà di un manichino in quel di Le Havre e lo condurrà con sé a Teheran. Risulta mirabile l’uso di uno spazio bianco, uno iato, a sottolineare quei cinque anni che intercorrono tra l’acquisto del manichino e il ritorno a casa, una sospensione non distante dal senso insito in un lungo stacco cinematografico. È lì che il perturbante dimora, lasciando al lettore tutto il malessere e il morboso fantasticare sugli avvenimenti di quei cinque anni e di conseguenza sul prosieguo della singolare relazione. Si avvertono chiari e netti echi dell’Olympia hoffmaniana, poi tradotta in opera da Jacques Offenbach, e in generale della fascinazione da parte degli umani per quel popolo di sembianti composto da statue, manichini e automi, che tuttora vive nelle possibili forme antropomorfe dell’intelligenza artificiale. Non si fatica neanche più di tanto a vedere nel malessere d’esistere di Mehrdad quello del suo creatore, Sadeq Hedayat.
Infine, Il randagio, storia che ha per protagonista un cane, Pat, prima coccolato e poi abbandonato dal suo padrone, costretto a una vita da randagio, percosso, trattato sadicamente dagli uomini. Nell’illusoria rincorsa verso un’altra vita, nuovamente felice, morirà di stenti, non senza averci lasciato il ricordo del suo sguardo, perché “tra i suoi occhi e quelli di un umano, si scorgeva una vera e propria uguaglianza. Due occhi nocciola pieni di dolore, tormento e speranza, qualcosa che si può cogliere solo nel muso di un cane randagio”. È il racconto che consente a Hedayat di esprimere tutta la solidarietà verso i sofferenti, i deboli, denunciando il sopruso, la violenza, la crudeltà, il male, così ben manifestato nelle gesta sadiche dei commercianti e dei ragazzini abitanti della piazza dove Pat tira a campare, perché “da questa gente non aveva ricevuto che calci, sassate e botte. Sembrava che fossero tutti suoi acerrimi nemici e provassero piacere nel torturarlo”.

Il 4 aprile 1951, a Parigi, un persiano di nome Sadeq Hedayat si suicidò nel suo appartamentino in rue Championnet, aprendo il rubinetto del gas. Insieme a lui c’erano Pat, Abji Khanum, Mehrdad e tutte le altre anime fragili nate dalla sua immaginazione. Oggi vivono tutte insieme a lui nella nostra immaginazione.

Letture
  • Sadeq Hedayat, La civetta cieca, Carbonio, Milano, 2020.