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Se telefonando
Mina
Se telefonando
Mina
di Aldo Di Marco

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“Che cosa ricordi?”

“Niente, cosa dovrei ricordare?”

“L’ultima cosa che ti ricordi.”

“Correvo, cercavo di uscire.”

“Uscire da dove?”

“Cercavo di scappare dal mio ufficio.”

“Dove si trova l’ufficio?”

“Proprio di fronte alle poste, dove ci sono i giardini.”

“Quali poste, di quale paese?”

“A Caorso di poste c’è n’è una … ma perché dove siamo?”

“Tranquillo, siamo a Caorso, ma io non sono di qua, devi essere più preciso…”

“Via Nazionale 5, interno 12, quarto piano.”

“Ok. Sei riuscito a scappare?”

“Ricordo la gente per le scale, gente che stava male, cercavo di scavalcarla, ma non ci riuscivo, l’aria era irrespirabile. Anche adesso mi brucia la gola, posso avere un po’ d’acqua?”

“No, non abbiamo acqua al momento. Quanto era distante dalla Centrale?”

“Mah, saranno due chilometri in linea d’aria. Come era distante, perché il mio ufficio non c’è più?”

“Ecco… la Centrale non c’è più…”

“Come non c’è più? Dovevano finire di smantellarla nel 2020!”

“C’è stata un’esplosione.”

“Terroristi?”

“Un errore nelle operazioni di bonifica, le mappe dei depositi radioattivi non erano aggiornate e…”

“Quanti sono morti?”

“Al momento non sappiamo di preciso.”

“Cazzo ci lavora mio fratello alla Centrale! Dimmi quello che sai.”

“Non so se possiamo adesso…”

“Cristo Santo, parla o ti…”

“Calma, volevo dire che non ho informazioni aggiornate, l’ultima comunicazione era di quattro ore fa, cioè un’ora dopo il disastro, poi il mio telefono ha smesso di funzionare.”

“Dunque ora sono le cinque, quindi è successo a mezzogiorno. Forse mio fratello era già fuori, poteva essere già a casa sua.”

“Ascolta,  prima di dirti quello che è successo avrei dovuto sincerarmi del tuo stato di salute e fare un rapporto ogni ora, ma visto che ho perso i contatti, non credo di dover seguire ancora il protocollo. Ti prego solo di fidarti di me, cerca di credere a quello che sto per dirti, perché non ti posso dare le prove. Ti dirò tutto quello che so senza nasconderti nulla, tu non mi interrompere finché non ho finito. Dopo potrai anche uccidermi con questa.”

Il volontario JMR140557 prese dallo zainetto una custodia di cuoio nero da cui spuntava solo il manico di una piccola pistola. La posò ai piedi del letto dove l’altro stava rannicchiato tremando dal freddo e dalla paura di ascoltare qualcosa di doloroso. 

“È già carica – disse – Due colpi, di più non servono”. Poi prese un gran respiro e cominciò a svolgere la sua missione.

“Oggi, alle 12 e 04 un errore di manovra ha creato una situazione di pericolo alla Centrale. Sfortunatamente le operazioni di emergenza subito messe in atto hanno sortito l’effetto opposto, ancora più devastante. Chi dirige le operazioni di emergenza risponde direttamente al Ministero delle Infrastrutture, ma il nuovo Ministro, che si è insediato solo una settimana fa, non era stato messo al corrente dal Ministero degli Interni di un recente accordo tra noi ed il governo Francese. Negli ultimi sei mesi stiamo stivando in maniera del tutto segreta ed illegale scorie radioattive provenienti dalla Francia nella Centrale di Caorso, scorie che poi sarebbero state rimosse e dirottate in Germania come previsto dal programma di dismissione dell’impianto.”

Fece una pausa per sentire se proveniva qualche rumore da lontano, ma sapeva che non sarebbe arrivato nessuno e riprese accelerando.

“C’era l’accordo dei tre primi ministri e la copertura dell’esercito per scortare i convogli. Tutti informati. Tranne uno. Quel coglione della Lega! Che non ha fatto in tempo a prendere le consegne perché doveva andare in Austria al raduno della destra nazionalista.”

Abbassò la voce, come se non dovesse farsi sentire altro che dal suo vicino, e inforcò l’ultimo tratto.

“Un disastro. È bastato aprire una valvola sbagliata per convogliare acqua calda anziché fredda nel magazzino di stoccaggio, e le scorie si sono surriscaldate. Poi la prima esplosione e infine una reazione a catena.”

Jean Marc, volontario proveniente da Marsiglia, cominciò ad agitarsi, voleva arrivare più velocemente in fondo, aveva bisogno di risentire la voce dell’altro, che tremava sempre di più e aveva l’aria di aver indovinato l’epilogo.

“C’era vento oggi. Bello tirato da sud est. La nube si è sollevata in un attimo a ottomila metri di altezza e si è sparsa in tutto il nord Italia. Alle 13 e 15 era già sui cieli di Francia e Svizzera. Probabilmente ora sta sorvolando la Manica. Forse è già a Londra. Da domani sarà pioggia radioattiva in tutta Europa per almeno 5 o 6 giorni. I primi effetti letali si vedranno già tra quindici giorni. Tra quaranta giorni non ci saranno più né uomini né animali dalla Svezia al Nord Africa. E questo almeno per i prossimi cento anni.” Avrebbe voluto fermarsi per dare modo all’altro di dire qualcosa, ma non aveva finito. Riprese subito e per pudore cercò di girargli le spalle.

“Al tuo paese sei l’unico superstite. Sono morti tutti, nel raggio di un chilometro, nei primi venti minuti. Moriremo tutti, anche quelli del mio paese Marsiglia, che sta a 550 chilometri da qui. Questione di qualche settimana. Sono un volontario della Protezione Civile Francese. Hanno scelto me perché mi trovavo in viaggio in Italia e perché me la cavo con l’italiano. Ho l’ordine di raccogliere le testimonianze dei superstiti. Tu sei l’unico. Ti abbiamo trovato che ancora respiravi e ti abbiamo portato qui nei fondi di un grande magazzino perché ha i muri spessi e abbiamo tutto il cibo che vogliamo. La mia compagna, Jiselle, è ripartita alla ricerca di altri superstiti, ma da… quattro ore e quaranta non ho più sue notizie. Hanno stimato che questo posto non potrà essere esplorato da altri esseri viventi per almeno cento anni. Solo allora troveranno la nostra testimonianza. Mi hanno quindi pregato di chiederti, di dire qualcosa, quello che vuoi. Dovrò scriverlo su questo taccuino perché la carta è l’unica cosa che può durare così a lungo. Non ti farò domande, semplicemente scriverò tutto quello che mi dirai finché ne avrò… ne avremo la forza, poi metterò il taccuino in questa scatola di alluminio.” Tirò fuori dallo zaino una scatola di biscotti di Cremona tutta colorata.

“Volevo portarli a mio figlio, ha cinque anni ed è rimasto coi nonni.”

Non ce la fece a continuare, svuotò la scatola in silenzio e la posò sul letto quasi a nascondere la pistola. Tirò fuori il taccuino ed una matita copiativa blu, si mise comodo con la schiena appoggiata al letto e finalmente si voltò per guardare l’altro negl’occhi.

L’altro si chiamava Guido Acerbi e aveva cinquantatré anni. Di giorno lavorava per una società immobiliare. Dopocena si rintanava nel piccolo laboratorio di liuteria che aveva organizzato nel seminterrato. Spendeva tutto quello che guadagnava per acquistare legni pregiati per costruire violini, viole e qualche chitarra. Ogni tanto riusciva anche a vendere qualche pezzo, ma non era quello lo scopo. Amava la musica più di ogni altra cosa, e conosceva tutti gli orchestrali della zona.
Rimase immobile per qualche istante, fissando il volontario Jean davanti a lui. Aveva smesso di tremare e sembrava anche lui sollevato per la conclusione del rapporto. Non gli venne da fare alcuna domanda, non c’era nient’altro che volesse sapere. Per un attimo fu tentato di alzarsi per correre fuori e sincerarsi se fosse tutto vero, ma le conferme erano lì ai suoi piedi: un fodero di pistola e una scatola di biscotti. Allora decise in un lampo cosa raccontare di sé, del suo tempo, del suo paese. Parlò lentamente per dare tempo all’altro di scrivere ma anche per imprimere meglio le parole dentro di sé.

“Nel 1966 a maggio compivo nove anni. Andavo bene a scuola e i miei genitori mi chiesero di esprimere un desiderio. Fu il mio primo giradischi. Un Telefunken a valigetta bicolore. Credo che mio padre avesse impegnato un paio di stipendi da impiegato comunale. Lo tengo in cantina e fino a qualche tempo fa funzionava ancora. Si sollevava il coperchio della valigetta e lo si divideva in due pezzi che contenevano degli altoparlanti ovali: era stereo! Bisognava quindi separare il più possibile i due canali, almeno quanto lo permetteva il cavo audio a treccia. Sul piatto c’era un disco di gomma zigrinata verdolina che aveva un profumo inebriante. La puntina poteva essere selezionata sui 45, 33 o 78 giri. Al centro il cilindretto di plastica nera per alloggiare i 45 giri. Togliendolo si potevano mettere sul piatto i 33 o 78 giri che avevano il buco al centro più piccolo. Al sabato pomeriggio restavo spesso solo in casa. Mio padre andava a giocare a biliardo, mia madre dal parrucchiere. Allora invitavo a casa mia il mio migliore amico che abitava al piano di sopra. Aveva un anno più di me, ma non aveva ancora il giradischi. Per sdebitarsi portava sempre qualche dolcetto, ma la cosa che più ci esaltava erano le sigarette di cioccolato, avvolte in vera carta da sigarette, contenute in veri-finti pacchetti di sigarette.  Seduti uno di fronte all’altro mimavamo boccate di fumo e succhiavamo cioccolato finendo per ingoiare anche la carta. Ricordo che lui amava sdraiarsi sulla poltrona di traverso, mettendo le gambe sui braccioli, io invece mi sdraiavo sul parquet a pancia in giù, per sentire meglio i toni bassi vibrare nello stomaco. Insieme con il giradischi erano arrivati alcuni 45 giri di quell’anno: Ma che colpa abbiamo noi dei Rokes, Perdono di Caterina Caselli, Io ho in mente te dell’Equipe 84, Se telefonando di Mina. Ricordo che questo era il mio brano preferito. A quell’età non ero certo in grado di apprezzare le doti canore di Mina. Che sono immense lo avrei scoperto un po’ dopo. Allora restai affascinato da quelle trombe all’unisono nell’introduzione, avevano un suono trionfale e premonitore, sembravano annunciare: “adesso arriva la voce di Mina e sarà potente e intonata proprio come noi”. Una canzone perfetta: una sola strofa, un solo bridge, un maestoso ritornello ripetuto all’infinito da cui non si può tornare indietro. Limpida come una scultura greca. Mi piaceva terribilmente il frastuono della batteria, quel suono sporco riverberato in modo naturale dalle enormi sale di ripresa degli studi RAI. E quel coro finale che fa da coda al ritornello quasi a chiedere scusa che il pezzo sia finito solo dopo 2 minuti e 54 secondi. Canticchiavo quel coro per tutto il tempo necessario a prendere il braccetto prima che il disco si fermasse e rimettere la puntina all’inizio. Questo rito pagano fatto di volume al massimo, pance nude sul parquet, piedi sporchi sulle poltrone e macchie di cioccolato sulle copertine è andato avanti tutti i sabati pomeriggio del 1966 e non sono mai stato più felice di allora.”



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× Mina Se telefonando, 45 giri, Ri-Fi, 1966, Lp Studio Uno 66, Ri-Fi, 1966, ristampa cd BMG, 1997. Se telefonando è antologizzato in The Platinum Collection 2, PDU/EMI, 2006.