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di Livio Santoro

spazioOgni guerra ha le sue storie da raccontare, le sue innumerevoli storie. Tante quante sono le persone e le cose in essa coinvolte. Si prenda la Seconda Guerra Mondiale, quella che tutti immaginiamo quando si deve immaginare una guerra, e si faccia qualche esempio. C’è la tracotanza di un’intera nazione che per un motivo o per un altro aveva bisogno di più spazio di quanto già non ne avesse, e c’è la tracotanza un po’ più piccola di un’altra nazione leggermente più timida e forse leggermente più misera. Poi ci sono decine e decine di città finite in macerie, alcune altre assediate, ed ancora, di queste ultime, alcune salvatesi grazie alla morsa dell’inverno. D’altronde le storie delle guerre sono sempre le stesse, in un modo o nell’altro. E ancora ci sono gli esseri umani, i piccoli denti degli ingranaggi di ogni grande meccanismo, esseri umani come quegli storpi, quei bambini e quei vecchi macilenti richiamati dalla Wermacht negli ultimi giorni di un Aquila oramai agonizzante, oppure altri esseri umani raggrinziti che probabilmente avrebbero preferito guadagnarsi il cielo, come quei penitenti a recitare in processioni fatte di fantasmi senza un filo di carne a coprirne le costole, con la grottesca figura troppo larga delle ossa del bacino in evidenza. Così ci sono le storie degli eserciti, e le centinaia di migliaia di storie più piccole dei soldati, che vivevano al fronte, che mangiavano scatolette quando erano fortunati, che scrivevano dal fronte, e che talvolta riuscivano a vedere posti che, se non avessero avuto l’ombra della guerra, sarebbero stati i più belli di una vita intera, o forse comunque riuscirono ad esserlo, questo non possiamo saperlo adesso.
Ecco, si prenda una di queste storie, si prenda la storia di un soldato intento col suo esercito a fagocitare chilometri e chilometri quadrati di spazio, in una corsa frenetica alla conquista del mondo. Si prenda questo soldato, viaggiatore sprovveduto della disgrazia, pellegrino di un dio violento, a visitare una città dopo l’altra, a soggiogare una città dopo l’altra, seguendo e provando a placare la sete di conquista dei suoi leader lontani. Come ogni turista che si rispetti, e come ogni buon marito, questo soldato conserva di ogni posto visitato non solo una memoria malinconica, ma anche un piccolo souvenir da inviare alla sua donna, per rinsaldare il suo matrimonio felice. Come ogni buon marito, come ogni uomo innamorato.

Un soldato, protagonista contumace della storia della Guerra vista dalla prospettiva del guardaroba della moglie, dal punto di vista di una donna fiera del suo uomo, in giro per il mondo ad espandere il buon nome della patria. Questo è, grossomodo, quanto nell’anno Millenovecentoquarantadue, a guerra ancora in corso, un certo Bertolt Brecht scrisse in otto strofe di cinque versi. Ognuna di queste strofe, cominciando con un punto di domanda, si chiede Che cosa venne alla moglie del soldato? Da Praga, da Varsavia, da Oslo e da Rotterdam? E ancora da Bruxelles, da Parigi, e da Tripoli? E, infine, dalla lontana Russia?
Scarpe, una camicetta di lino, un collo di pelliccia e un bel cappello. E ancora dei merletti, una vestaglia di seta ed una catenella di rame per il collo. Infine, come ultimo regalo, un velo nero come quello delle vedove.
Questo ha portato la guerra alla donna del soldato: una cosa semplicissima, la morte. Ad essere sinceri un regalo non troppo originale, nemmeno a dirlo. Ma quelle otto strofe di un parossismo che si risolve nella sua stessa banalità, nella sua stessa assenza di originalità che si crogiola nel patetismo, hanno dentro il concentrato di un’epoca. Un amico di quel Bertolt Brecht, ovvero un tale che di nome faceva Kurt Weill, prese questa storia e ne fece una canzone. A dir la verità moltissimi dei versi di Brecht sono finiti in musica grazie a Weill, a suggellare un meraviglioso sodalizio tra un amico scrittore ed un altro musicista. E tanti dei frammenti di questo sodalizio, nonostante forse non ce ne rendiamo immediatamente conto, hanno continuato a serpeggiare nella musica di tutto il Novecento, in tutto il mondo.
Basta qualche esempio: quelli che amano Frank Sinatra hanno certamente accompagnato col ritmo del piede Make the knife; gli amanti lisergici dei Doors hanno certamente amato Alabama Song; gli adolescenti italiani degli anni Ottanta e Novanta hanno senza dubbio saltato impazziti quando i Litfiba offrivano nei loro concerti Cannon Song.
Forse per insistere sulla memoria di tutto questo, nel Millenovecentonovantaquattro, il regista Larry Weinstein ha richiamato un bel po’ di artisti contemporanei per riproporre, in un lungo film-documentario, tanto di quello che Weill con l’aiuto di Brecht (ma non solo) ha lasciato alla sua musica. Tra gli artisti che hanno risposto all’appello ci sono Elvis Costello, Nick Cave, Lou Reed, Charlie Haden, Teresa Stratas ed un’altra decina. La Ballata della moglie del soldato, la storia di un guardaroba e di una morte, è toccata a P.J. Harvey, ed una cosa è certa, quel parossismo, qui, diventa perfezione, tanto che è facile provare disprezzo per la vanitosa moglie di un soldato al fronte per le tutte le prime strofe, fino ad interrompere l’amarezza con un’altra amarezza nell’ultima strofa, quando oramai è tutto concluso.



× ASCOLTI

× Harvey P.J., Ballad of the soldier’s wife, in AA. VV., September Song. The music of Kurt Weill
(Soundtrack of a film by Larry Weinsten)
, 1997, Sony.