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di Marco Bertoli

spazioMusic is a world within itself

Di questa canzone celeberrima di Stevie Wonder (da Songs in the Key of Life, 1976) avrei voluto parlare come di solito si parla delle canzoni preferite, come forse è giusto parlarne: assecondando le associazioni del ricordo, indulgendo all'autobiografia. Del resto è luogo comune un po’ da letterati che la musica pop, leggera, non colta, come vuoi tu, abbia proprio in questo un pregio involontario, nell'essere sprovvista di valori estetici troppo ingombranti e nel lasciare per questo motivo spazio al deposito della memoria personale e sentimentale; che il destino di questa musica, se non il suo compito, sia insomma di amplificare il brusìo della vita.
Mi sarebbe piaciuto scrivere così, abusando della licenza di dire io, ma vedo che non posso. Con tutto che conosco e canticchio Sir Duke e, con frequenza meno ossessiva, altre canzoni di quel disco dall’anno in cui uscì o al massimo da quello dopo, non riesco a ricordarmi dove e quando l’abbia sentita la prima volta; non ricordo dove comperai il disco, che pure possedevo; quando ne rivedo la caratteristica copertina arancione, non ne risento il minimo effetto madeleine. Non vi associo luoghi, persone, sentimenti determinati o circostanze, come magari associo a certe musicacce entratemi nelle orecchie a forza e che mi sono rimaste addosso come lappole nei capelli.
Per me Sir Duke è uno di quei rari pezzi di musica che, sentiti una volta, non solo è impossibile dimenticare, ma sembra di conoscere da sempre. A rendermela così intemporale saranno forse i materiali musicali di cui si compone. 
La canzone si apre con una progressione (vi)-ii-v-i con la sostituzione cromatica di vib a ii. Un gesto musicale semplicissimo ma inconfondibile per il modo in cui viene pronunciato e in cui sfocia nella canzone, che ha la forma strofica AABCC inframmezzata da sedici battute d’interludio che ne sono musicalmente la cosa più indimenticabile: un unisono di fiati e basso (il magnifico Nathan Watts) su e giù per la pentatonica di La. Ma dove la canzone vuole arrivare è nella release dionisiaca della sezione C ripetuta ad libitum e potenzialmente ad infinitum (invece, si chiude genialmente sul ritorno dell’interludio), dove la voce di Stevie s’increspa appena in un sospetto di growl, i riff dei fiati s’infilano nelle orecchie come ganci e Nathan Watts, senza parere, si appropria del pezzo.
Songs in the Key of Life è stato definito un monumento alla musica afroamericana e senz’altro lo è. Sir Duke riflette questa qualità in maniera frattale, anche senza considerare la menzione che nei versi viene fatta di Satchmo, Count Basie, Glenn Miller (!), Ella Fitzgerald e naturalmente del Duca. Lo fa con purezza di mezzi assoluta (Music is a world within itself, / It’s a language we all understand) e forse per questo a me, che da più di trent’anni la canto ogni giorno, non evoca mai null’altro che se stessa e la voglia di ascoltarla ancora: musica dallo swing demente, senza tempo, senza bisogno di niente al di fuori di sé.



× ASCOLTI

× Wonder S., Songs in the Key of Life, Motown, 1976, ristampa cd Motown, 2000.