L’epica tra le rovine
della modernità

The Legend of Zelda:
Breath of the Wild

Sviluppo e distribuzione: Nintendo EAD, Kyoto (Giappone), 2017.

Horizon: Zero Dawn
Sviluppo: Guerrilla Games, Amsterdam (Paesi Bassi)
Distribuzione: Sony Interactive Entertainment (Giappone), 2017.

The Legend of Zelda:
Breath of the Wild

Sviluppo e distribuzione: Nintendo EAD, Kyoto (Giappone), 2017.

Horizon: Zero Dawn
Sviluppo: Guerrilla Games, Amsterdam (Paesi Bassi)
Distribuzione: Sony Interactive Entertainment (Giappone), 2017.


I videogiochi sono ormai assoluti protagonisti dell’industria dell’intrattenimento. Fatturando tra gli ottanta e i cento miliardi di dollari l’anno, a seconda degli analisti (ovvero un giro d’affari pari a quello del cinema e della musica messi insieme), vivono una crescita stabile e costante, grazie al successo di franchise seriali come Assassin’s Creed (2007) o Call of Duty (2003). È quasi impossibile, però, immaginare l’industria del videogame come la conosciamo oggi senza The Legend of Zelda (1986), creatura di Shigeru Miyamoto, a cui si devono anche altri campioni d’incasso planetari in primis Super Mario (1983), ma anche Pikmin (2002) e Star Fox (1993).

The Legend of Zelda è il titolo Nintendo che ha letteralmente rivoluzionato il modo di concepire i videogame d’avventura. Questa saga trentennale rappresenta una pietra miliare dell’intero sistema dei media, ridefinendo, nel corso della sua storia, lo scenario videoludico. La struttura open world è forse la caratteristica più importante introdotta con l’avvento di Zelda. Nel momento in cui le limitazioni tecniche delle piattaforme costringevano i giochi stessi a meccaniche semplicistiche, Zelda riesce a immergere il giocatore in un mondo aperto, lasciando piena libertà di esplorazione al giocatore. Libertà: fittizia, illusoria, limitata dai confini intangibili della sceneggiatura. Proprio sull’esistenza di questi limiti la suggestione narrativa videoludica sembra sovrapporsi alla descrizione dell’intrattenimento interattivo che Jonathan Nolan e Lisa Joy tratteggiano all’interno della loro rivisitazione seriale del capolavoro di Michael Crichton, Il mondo dei robot (1973). In Westworld (2016), tra le tante dinamiche post-umane in gioco, assistiamo allo scontro fra due filosofie dell’open world (parlare di un parco giochi o di videogame è trascurabile: sono solo due piani di realtà che, a questo punto, sono perfettamente sovrapponibili): una che predilige storie automatiche, meccanicamente prevedibili, eseguite in una situazione di controllo perfetto da parte dei loro creatori; l’altra, più ambiziosa, che vede un mondo virtuale e libero, in cui il giocatore può cercare e trovare da solo la sua strada.

Zelda: Breath of the Wild è l’ultimo capitolo della storica saga di di Shigeru Miyamoto per Nintendo.

Zelda
e Horizon, armonie distopiche
A distanza di pochi giorni, nel marzo di quest’anno, sono stati immessi sul mercato due titoli, entrambi esclusivi, per due piattaforme di gioco dall’enorme importanza. Da un lato Horizon: Zero Dawn prodotto dal team olandese dei Guerrilla Games in esclusiva per Playstation 4; dall’altro l’ultimo capitolo della saga di Zelda: Breath of the Wild, unico titolo degno di nota della line-up di lancio dell’ultima scommessa di Nintendo. L’azienda giapponese, nonostante il flop di Wii U, continua a investire nell’innovazione per contrastare la potenza economica e tecnologica dei colossi dell’entertainment trans-mediale che hanno invaso il campo in cui in passato regnava incontrastata. Entrambi i titoli sono collocati temporalmente secoli dopo un misterioso cataclisma, in una terra dalla natura lussureggiante che ha ripreso il totale controllo del pianeta. Le tecnologie, il progresso industriale, non rappresentano più un obiettivo: hanno perso la loro spinta innovativa lasciando dietro di sé rovinose e perturbanti reliquie. Massicci animali robotici, originariamente costruiti per servire l’uomo, vagano per la terra, o giacciono inutilizzati: ai fini del gioco devono essere distrutti o convertiti alla causa dell’eroe. Entrambi i giochi condividono una fascinazione utopica per la natura, prima e ultima risorsa su cui basarsi per la sopravvivenza, in contrasto con i costrutti tecnologici, pericolosamente fuori controllo. Riecheggia forte l’eco del Frankenstein (1818) di Mary Shelley come delle narrazioni filmiche di James Cameron, da Terminator (1984) a Avatar (2009), ma anche i desolati scenari del pianeta Jakku di Star Wars: Episode VII (2015) dove la protagonista vive all’interno della carcassa di un “camminatore AT-AT”, un vecchio mezzo da guerra che giace spento e inutilizzato. Di fronte a questi scenari avventurosamente post-umani ci vengono in mente le parole del sociologo Sergio Brancato che, nel suo ultimo saggio Fantasmi della modernità, constata che:

“la fantascienza […] non riesce più a esprimere il senso del futuro in un tempo caratterizzato dalla sospensione di quella linearità progressiva dell’idea di Storia che aveva caratterizzato la cultura dell’umanesimo, e con esse il concetto di futuro quale sede elettiva della propria realizzazione. […] L’immaginario del futuro sfuma sempre più nella percezione di un presente pulsante e aperto, in cui la catastrofe della modernità si è consumato «a freddo»” (Brancato, 2014).

Passato presente e futuro dell’open-world
A causa della sovrapponibilità delle ambientazioni dei due giochi e della loro uscita quasi contemporanea, i due titoli consentono una riflessione sulla biforcazione intrapresa dei cosiddetti giochi open-world. Entrambi condividono una struttura di gioco simile pur tuttavia rappresentando un fondamentale conflitto estetico: due modi di vivere e concepire il videogame come mondo virtuale.
Horizon: Zero Dawn rappresenta il punto di arrivo di un trend del game-design che da oltre un decennio domina il genere dell’action/adventure, basato su mappe smisurate, disseminate di attività, suddivise tra quest principali e secondarie, necessarie al completamento del gioco. Questo stile, che potremmo definire “mondo controllato”, è caratteristico di una filosofia di design eccezionalmente popolare, che conta successi del calibro di Grand Theft Auto (1997) o Assassin’s Creed e che, pur permettendo al giocatore di muoversi liberamente, necessita l’esecuzione di azioni in un ordine prestabilito per giungere all’atto conclusivo del gioco. Ci troviamo di fronte a una sorta di gioco innestato nel gioco: si esplora il mondo aperto, ma al suo interno continua a sopravvivere l’avventura tradizionalmente lineare. Nel corso dello stesso decennio, una manciata di giochi open-world hanno stabilito un canone inverso rispetto a quello del mondo controllato. In questi giochi, ci si avvicina di più al concetto di “mondo virtuale”: un ambiente esplorabile che non è solo una rete che collega varie quest, ma che rappresenta l’avventura in sé.

Horizon: Zero Dawn è prodotto dal team olandese dei Guerrilla Games in esclusiva per Playstation 4.

Zelda: Breath of the Wild e Horizon: Zero Dawn cercano, con differenti sfumature, di fondere i due approcci. Il mondo di Horizon è ricco abbastanza da permettere ai giocatori di trovare il proprio percorso, ma favorisce la risoluzione di missioni in gran parte statiche e vincolate. Zelda, pur lasciando grande libertà ai giocatori (sono presenti su youtube video di speed-run di giocatori che hanno concluso la main quest in meno di un’ora, semplicemente “tirando dritto” verso lo scopo ultimo dell’avventura) è ancora composto da decine di missioni tradizionali, favorendo l’esplorazione e la manipolazione del suo vastissimo mondo interattivo. Entrambi i giochi ci mostrano due giovani (lo “storico” Link in Zelda: Breath of the Wild  e la giovane Aloy in Horizon: Zero Dawn), che si avventurano in un futuro arcaico per salvarlo da un passato ipertecnologico, raccontandoci contemporaneamente una storia di crescita personale ed epica. I designer di Breath of the Wild hanno volutamente eliminato ogni barriera fra il giocatore e il mondo circostante, riducendo il loro impatto sulla narrazione, mettendo il giocatore al centro di essa. Una scelta del genere, da parte di un publisher influente come Nintendo, non potrà che influenzare il futuro dei giochi adventure. Anche in termini meramente economici è più conveniente sviluppare un mondo in cui i giocatori possano costruire la propria avventura, in modo da allungare la vita del gioco per mesi o, addirittura, anni. Costringere il giocatore a perdersi non è una debolezza ma, in questo caso, un punto di forza. Smarrire la strada è un’esperienza umana universale, così come essere costretti a creare nuovi legami per progredire è una delle caratteristiche della società moderna. Più che in qualunque gioco adventure, il senso di Zelda: Breath of the Wild e di Horizon: Zero Dawn si trova nell’esplorazione; nel sentimento di smarrimento che si prova di fronte all’imponenza di una montagna e alla possibilità di scalarla.

Letture
  • Sergio Brancato, Fantasmi della modernità: oggetti, luoghi e figure dell’industria culturale, Ipermedium Libri, Napoli, 2014.
  • Mary Shelley, Frankenstein, Einaudi, Torino, 2016.
Visioni
  • J.J. Abrams, Star Wars Episode VII – Il risveglio della forza, Walt Disney Studios, 2016 (home video).
  • Assassin’s Creed, Ubisoft Montréal (Canada), 2007 (videogame).
  • Call of duty, Infinity Ward, Encino (California), 2003 (videogame).
  • James Cameron, Terminator, 20th Century Fox, 2012 (home video).
  • James Cameron, Avatar, 20th Century Fox, 2012 (home video).
  • Michael Crichton Il mondo dei robot, Warner Bros. Entertainment, 2013 (home video).
  • Grand Theft Auto III, Rockstar North, Edimburgo (Regno Unito), 2006 (videogame).
  • The Legend of Zelda, Nintendo EAD, Kyoto (Giappone), 1983 (videogame).
  • Jonathan Nolan e Lisa Joy, Westworld, HBO, 2016.