Una maschera sola e dolente
tra ricerca e desiderio

Laudomia Bonanni
Il bambino di pietra
Una nevrosi al femminile
Cliquot Edizioni, Roma, 2021
pp. 154, € 16,00

Laudomia Bonanni
Il bambino di pietra
Una nevrosi al femminile
Cliquot Edizioni, Roma, 2021
pp. 154, € 16,00


La casa editrice Cliquot riporta alla luce un romanzo del 1979, nel contesto di un lavoro di recupero del passato e, in particolare, di alcune autrici cadute tanto rapidamente nel dimenticatoio da impedire a un potenziale pubblico di lettori contemporanei di conoscerne il talento e, in certi casi, la sconcertante attualità. Perché, per quanto qualcuno sostenga che la responsabilità dello scarto di certe scritture sia imputabile al mutato orientamento dei lettori odierni, ciò non esime un editore dall’inseguire un ideale. Se non si sapesse che Il bambino di pietra di Laudomia Bonanni confluì quale finalista al Premio Strega del 1979 (vinto quell’anno da La chiave a stella di Primo Levi), lo si potrebbe facilmente collocare a livello temporale, se non proprio nel nuovo millennio dentro cui, peraltro, la percezione del mondo letterario si è fatta alacremente distorta per effetto degli ultimi avvenimenti globali che ne impongono una portata dichiaratamente universale, con divieto tassativo di personalismi d’accatto, quantomeno al trentennio successivo alla sua pubblicazione.
Questo probabilmente accade per due ordini di fattori.
Intanto, per l’ampiezza della scrittura dell’autrice aquilana che, nonostante avesse cominciato a occuparsi di letteratura in forma autoriale rivolgendo le proprie cure e attenzioni al mondo dei più giovani, inclusi i bambini, dimostra abbondantemente, in questo romanzo, una complessità di pensiero che, se da un canto è funzionale alla presentazione e allo sviluppo della sua protagonista, Cassandra, donna nevrotica e irrequieta, dall’altro ne supera l’urgenza di un rispecchiamento attraverso la composizione di una struttura concettuale che, nell’estrema sintesi in cui concentra una serie di passaggi logici, si fa ermetica, inducendo il lettore a un viaggio necessario dentro il groviglio mentale in cui la donna traduce tutte le sue istanze affettive. Ciò non toglie che il romanzo conosca anche dei passaggi descrittivi che, sebbene connotati da un ampio margine di maggiore immediatezza, non rinunciano, però, alla puntigliosità, al dettaglio, all’attenzione per i particolari in un equilibrio che si fa composito e astratto per eccesso di specificità:

“Era marzo, una giornata eccezionalmente tersa. Già nascevano nell’erba nuova pratoline e cicoria. La vigna sterposa biancheggiava del fiore di rugola, sulle muricce divisorie il fogliame lanceolato dell’ireos coi boccioli a fusello gonfi di viola. Il casino non lo ricordavo così piccolo. Inondato dal sole, con l’intonaco ocra, il tetto rugginoso di vecchi coppi, sotto un gran cielo, sorgeva quasi direttamente nella vigna. Distanze raccorciate e spazi dilatati”.

Poiché è la protagonista Cassandra a raccontarsi, in un diario prescrittole dall’analista, la lingua non può che essere chiaramente un’espressione di uno stato di movimento perenne che pare non trovare requie. Non è indispensabile essere un lettore che, nella quotidianità, si riconosce nelle nevrosi della protagonista, per comprendere quanto esse siano, in parte, un’adeguata copertura alla conservazione, nel mondo fuori, di una propria integrità identitaria e in parte il segno ineliminabile di un’antica sofferenza che si fa lentamente strada all’interno del romanzo per fluire solo al termine, complici certi eventi.
Laudomia Bonanni conosce le vie espressive per rendere il potenziale universale della storia di Cassandra, cioè per trasformare una singolarità in uno smarrimento che è anche il nostro.

“Ho trovato la mia posizione definitiva. Indifferentemente su un fianco o sull’altro rigirandomi mentre leggo, ma per addormentarmi non sul cuore – se no mi metto a sentirlo battere con allarme – le ginocchia tirate su, il braccio destro attraverso il petto e la mano afferrata alla spalla, l’altro braccio incrociato sotto. Mi ritrovo, al risveglio, nella identica posizione, come in una strettura. Aggrappata a me stessa”.

Può esistere una modalità altrettanto efficace dal lato del coinvolgimento di chi legge, a prescindere dalle propensioni caratteriali personali, per dare sostanza, nella forma di un susseguirsi preciso, matematico, ritmico, nell’ossequio a un’ossessione, a un pensiero, di una serie di azioni con cui proteggersi dal mondo, fare leva su di sé senza la stabilità di alcun baricentro e allontanando ogni urgenza del cuore? Ora è proprio quest’ultimo la chiave di accesso all’intimità di Cassandra, se in un altro emblematico punto arriva a dire:

“Non è normale, mi preoccupo, un organo che funziona regolarmente non ci si accorge di averlo. Ogni volta il dubbio di un vizio cardiaco e ogni volta risultato negativo. Un po’ nevrotico. Infatti. Ricado sempre ad ascoltarmi il cuore”.

Dunque, dimensione chiave, quella degli affetti e, a ben guardare, dell’amore verso sé stessi. La paura e la voglia di ascoltarsi e l’incapacità di farlo nel soddisfacimento di esigenze primarie, quasi la sovrastruttura del pensiero servisse a celare le potenzialità affettive contenute, attraverso la fobia, in un cerchio limitato dal rischio del silenzio, di una mancata risposta al nostro desiderio d’amore. Allora, ancora le fragilità che portiamo con noi, che trasformiamo in durezza per proteggerci dalle delusioni della vita che, talvolta, hanno la forma delle madri, quelle che non ci sono state, quelle che non siamo state capaci di essere, talaltra la forma e la consistenza dei figli non nati o di quelli non sopravvissuti alla fatica dell’esistenza o ancora di quelli che non sono riusciti a perdonare una genitorialità monca, imprigionati nella ricerca ossessiva di una mancanza senza rimedio.

C’è spazio, nel romanzo, per tutte queste potenzialità al margine, per quelle esistenze sbiadite poste dietro alle scelte illusoriamente vittoriose di chi opta per soluzioni di facile reperibilità in cui occupare un posto, anche infelicemente, senza il movimento e il fremito possibile di chi si cerca incessantemente.
Cassandra è l’emblema di una ricerca e di un desiderio, per quanto sovrastato da un pessimismo in cui si cela evidentemente una visione dell’esistenza cara all’autrice, non propriamente convinta dell’idea che la vita possa spingersi molto oltre lo spazio di una sofferenza abbastanza duratura, sebbene connotata diversamente nelle differenti età, da essere faticosa e di una conseguenziale incapacità di stare al mondo se non nella forma depressiva o nevrotica. Oltre la ricerca e il desiderio, avanza prepotente nel romanzo un profondo senso di solitudine che, se da un canto, investe la condizione umana tutta per l’adesione all’idea di cui sopra, dall’altro si insinua nelle vite singole dei personaggi che popolano il romanzo, venendo riscattato solo al termine e, quasi esclusivamente, nel percorso della protagonista, da una sorta di rivalutazione del proprio rapporto con il compagno di una vita, un concedersi di vedere, non necessariamente sempre una mancanza. In fondo, è quest’ultimo l’habitat di Cassandra, la figlia non voluta o voluta esclusivamente dal padre, la figlia nata tra il posto d’onore riservato ai fratelli maschi da una madre insensibile alla presenza femminile e l’inconsistenza delle sorelle incapaci di offrirle un’alternativa esemplare alla dignità maschile, unica riconosciuta in famiglia.

Una questione d’identità
Habitat popolato, dunque, dall’assenza di un’affettività specificamente rivolta a lei, di un’amorevolezza di cure materne desiderate e mai avute; habitat oscuro e insicuro per chi sceglie di non seguire nessuna delle direzioni già tracciate da fratelli e sorelle, luogo non ideale, se non per le potenzialità di sperimentazione conseguenziali, da cui partire alla scoperta del mondo, portando in spalla le prodezze e le qualità dell’intelletto maschile e tralasciando le più insignificanti vite declinate al femminile senza talento alcuno che non sia riconducibile all’arte manipolatoria dell’avvicinamento del maschio in funzione del prolificare. Pertanto, habitat che spiega le ragioni di un’identità complessa per sovrastrutture congenialmente apposte alla propria origine femminile per essere, per potere essere, per essere amata. E per negarsi il diritto di amare se non in forme “adeguate”, perché, per esempio, “le donne non possono concepire sensi d’amore per il coetaneo visto crescere”, perché “una donna è sempre più adulta del proprio coetaneo”.

Per nulla casuale la rivelazione che le giunge dallo zio matto, il fratello della madre che, in occasione di una rara visita della sorella, enuncia la sua verità, quella che nessuno, neanche la piccola riconosce a sé stessa, emette la sua sentenza e denuncia al mondo l’identità femminile della nipote tenuta neanche tanto saldamente nascosta nelle trecce invisibili raccolte nella cuffia, “la donna sotto le spoglie della bambina”.
Non c’è spazio per quello che Cassandra è e, per quanto si faccia strada nel corso del romanzo un’identità non assimilabile alle altre intorno, parallelamente acquista forza l’idea di una declinazione di un femminile non pienamente compiuto, quasi si fermasse a metà: nel lavoro che non la appaga, nella scelta di un marito che, bello e premuroso verso la madre, pare non solo un omaggio a lei più che un tributo alla propria felicità, ma anche la comodità della stabilità finanziaria, di perfetto incastro al suo movimento spesso improduttivo, quasi erede lei, dunque, dell’arte manipolatoria femminile, qui votata, forse, al desiderio materno, e ancora nella scelta “obbligata” di non essere madre per non ripetere in eterno l’errore o l’orrore dell’infelicità trasmessa di generazione in generazione.

La questione della maternità
Il bambino di pietra, a cui allude il titolo, può essere il perfetto rimando alla questione della maternità tracciata da Laudomia Bonanni, poiché investe indirettamente più piani, non ultimo dei quali la capacità di dialogo che Cassandra dimostra e sviluppa in particolare con quelli dell’altro sesso, superando presunte verità e confini di genere. La statua del bambino di pietra sarà tra i suoi ricordi all’interno di una valigia che li racchiude quasi tutti: creatura nata dallo scalpellino, poi scultore, con cui Cassandra soleva trascorrere le sue giornate lontano dalla famiglia, tra i silenzi rispettosi del cimitero, gli unici della sua diversità, creatura che racconta la storia di un figlio perduto, in una maternità declinata al maschile e nella durezza materica della circostanza, quasi una nicchia, lo spazio di quegli incontri, senza giudizio e paura, senza parole e forme obbligate. In uno stato di sospensione che si compie solo al termine, nel rapporto concreto che la protagonista sarà in grado, quasi inconsapevolmente, di creare con la nipote Amina, colei che saprà incarnare con audacia e forza l’identità incompiuta della zia, quel pezzo non agito e lasciato volutamente interrotto, idoneo a generare nevrosi e umori ricurvi.
Senza spazio iniziale per il futuro che, però, complice la vicinanza della nipote, incomincia, da un certo punto in poi e con caparbietà quasi autonoma, a farsi strada tra le crepe di un’esistenza che volge alla maturità e che, pur senza la pietas sconvolgente con cui Fabrizia Ramondino avvolge lo sguardo rivolto alla madre (cfr. Ramondino, 2016) reca in sé una speciale indulgenza, quella con cui ci si concede il diritto di amare.

“Incontrarsi, unirsi, scegliersi non per affinità, sono anzi le differenze a compenetrarsi, come in un letto singolo che per starci in due bisogna piegare le proprie membra adattandole alle opposte curve dell’altra persona. Si è sempre piegato lui verso la mia rigidità. Ora mi sento più flessibile. Sarà vero che sono gli estranei di sangue, i compagni di strada, i due della coppia, ad appartenersi. Alla fine è in due che si rimane”.

Recita così un passaggio, dentro cui parrebbe esserci la svolta, seppure ben riposta tra le pieghe della propria fragilità finalmente ammessa, una flessibilità alla quale ci si può autorizzare, il diritto di vedersi oltre ogni aspettativa esterna, quasi profeta di sé stessa, di quello che sarà, fuori da ogni forma, in quel fluido indistinto in cui navighiamo a vista nello spazio, esposto a ogni pericolo, della nostra intimità, dove sentire non è capire e una maternità non voluta non è necessariamente un impedimento a generare sé stesse.

Letture
  • Fabrizia Ramondino, Althénopis, Einaudi, Torino, 2016.