La vita ai tempi
delle grandi inondazioni


Kim Stanley Robinson

New York 2140

Traduzione di
Annarita Guarnieri

Fanucci Editore, Roma, 2017
pp. 662, € 25,00

Pochi autori come Kim Stanley Robinson riescono a gettare uno sguardo in profondità nelle sfide che minacciano la nostra sopravvivenza, riproducendo la complessità del presente attraverso i suoi iper-dettagliati scenari futuri. Per questo l’uscita di un suo libro è un evento per gli appassionati di fantascienza e non solo. Questa volta a maggior ragione: il diciannovesimo romanzo della sua trentennale carriera (cfr. De Matteo, 2017) è anche il primo che i lettori italiani hanno potuto apprezzare pressoché in contemporanea con l’uscita in lingua originale (un plauso quindi a Fanucci Editore, impegnato in un’autentica opera di valorizzazione dell’autore).
E di fronte al negazionismo che sta prendendo piede dopo l’insediamento dell’Amministrazione Trump, con l’uscita del governo USA dagli accordi internazionali della conferenza di Parigi e la conseguente elusione da parte della prima economia mondiale delle misure per il contenimento delle cause del cambiamento climatico, New York 2140 è un libro attuale come pochi altri, che si legge con un senso di urgenza che ci assale la gola, senza riuscire a scacciare un brivido da future shock lungo la schiena.

Lo shock climatico è dietro l’angolo
D’altro canto, non è la prima volta che Robinson si cimenta nel tema. Già nella trilogia di Marte, pietra miliare della fantascienza e della letteratura tout court degli anni Novanta, ampie sezioni erano dedicate agli effetti del cambiamento climatico sulla Terra, man mano che i cataclismi ecologici alimentavano i flussi di profughi verso le colonie marziane. Ma soprattutto con i romanzi della serie Science in the CapitalForty Signs of Rain, Fifty Degrees Below e Sixty Days and Counting, pubblicati tra il 2004 e il 2007 e raccolti nel 2015 nell’omnibus Green Earth, purtroppo ancora tutti inediti in Italia – l’autore californiano si era attestato come un’autorità in materia, stringendo il focus sulle conseguenze drammatiche del riscaldamento globale e fondando di fatto la cosiddetta climate fiction (spesso abbreviata in cli-fi, sul calco della consanguinea science fiction / sci-fi).
Se in quel caso seguiva le azioni di scienziati e ricercatori alle prese con gli effetti del clima impazzito nei primi decenni del Duemila, con New York 2140 ci fa fare un salto avanti di oltre un secolo, quando gli effetti del cambiamento climatico si saranno già concretizzati in tutta la loro devastante portata, stravolgendo la faccia stessa della Terra.

Come rileva puntualmente Gerry Canavan nel suo accurato pezzo per la Los Angeles Review of Books, Robinson prende le distanze dall’approccio catastrofista al problema (cfr. Canavan, 2017) e porta in scena uno spaccato di umanità “che cerca di riprendersi”, sopravvivendo in un pianeta gravemente ferito, ampiamente devastato, ma non ancora definitivamente sconfitto: il disastro ambientale diventa qui un punto di convergenza per le dinamiche economiche, sempre pronte ad avvantaggiarsi dei fenomeni di “distruzione creativa” per volgere la crisi in un’opportunità d’investimento finanziario, così come per quelle ecologiche, con intere nuove nicchie – naturali, sociali, urbane, contro-culturali – che convivono in un tentativo post-apocalittico di riappropriazione dei nuovi litorali.
La descrizione della routine quotidiana sullo sfondo di una natura che si è violentemente rivoltata contro la specie umana ci catapulta in un mondo terribilmente segnato, se possibile ancora più alieno delle desolate lande marziane, eppure mai così facile come oggi da immaginare in un servizio del telegiornale, con la conta delle vittime che scorre nella banda bassa dello schermo.

Voci dagli abissi dell’Antropocene
Nella seconda metà del XXI secolo, due successive ondate di scioglimento dei ghiacci, durate “ciascuna un intero decennio di psicodramma”, hanno innalzato il livello degli oceani di quindici metri. Come ogni altra città costiera del mondo, anche New York è stata inondata dalle piene, che hanno trasformato la parte bassa di Manhattan in una Super Venezia: le strade sono diventate vie d’acqua, estensioni del fiume e della baia, i grattacieli isole verticali collegate da una rete di ponti aerei e passerelle sospese.
L’Antropocene si è insomma dispiegato nella sua fase più turbolenta, in cui l’umanità ha definitivamente perso il controllo dei processi innescati dalle sue azioni: “[…] stiamo vivendo il sesto evento di estinzione di massa nella storia della Terra, e lo abbiamo causato noi. Cinquantamila specie si sono estinte, e corriamo il pericolo di perdere la maggior parte degli anfibi e dei mammiferi, ogni sorta di uccelli, di pesci e di rettili” (Robinson, 2017b). E Robinson sceglie stavolta di affrontare la storia dal punto di vista della cosiddetta gente comune: tra i personaggi che si alternano lungo le pagine del romanzo, tutti “cittadini delle acque basse”, annoveriamo avvocati, ispettrici del Dipartimento di Polizia di New York, trader, hacker, facility manager, una star del cloud, cacciatori di tesori sommersi e vagabondi – anzi, per usare la terminologia in voga per le strade allagate di Lower Manhattan in questo basso futuro, “ratti d’acqua”.
Quasi tutti loro sono inquilini oppure ospiti, legali o abusivi, della MetLife Tower, costruita da un visionario replicando l’architettura del campanile di San Marco quasi due secoli prima che la Seconda Ondata trasformasse Madison Square in un lago e i grattacieli che vi si affacciano in tante piccole città-stato, confederate in un’associazione di mutuo supporto. Quando insistenti offerte d’acquisto iniziano ad arrivare alle cooperative dell’area sommersa, adombrando una manovra ostile ai piccoli proprietari e agli affittuari di questa Super Venezia da parte del Capitale rifugiatosi nel frattempo a Denver, tocca a Charlotte Armstrong, avvocato dell’Unione proprietari da sempre schierata in difesa dei diritti di profughi ambientali e immigrati in cerca di regolarizzazione, incanalare gli sforzi di questa variopinta comunità contro quello che ha tutta l’aria di essere l’ennesimo piano di gentrificazione newyorkese.

Le voci dei personaggi di questa galleria s’intrecciano in una polifonia che stilisticamente costituisce un po’ il marchio di fabbrica dell’autore, ma che in questo caso specifico riesce a rendere con singolare precisione ed efficacia il senso delle mille voci della città. E la città si ritaglia addirittura un ruolo nel romanzo, attraverso capitoli raccontati dal punto di vista di un anonimo “cittadino”, una sorta di coscienza collettiva grazie alla quale il narratore onnisciente fa capolino tra le pagine e dispensa al lettore informazioni utili per comprendere il mondo in cui i personaggi si muovono: dalla storia di New York alle grandi ondate, dalla finanza globale al clima della East Coast, dalla geologia di Manhattan alle misure adottate per contenere l’impatto delle inondazioni (perché, dopotutto, “la storia di New York comincia ad avere senso solo se si tiene presente il globale a controbilanciare il locale”, Robinson, 2017b).
Sicuramente non tutti i lettori concorderanno, ma a giudizio di chi scrive le pagine raccontate dal cittadino risaltano tra i momenti più efficaci di tutto il romanzo, a cui va riconosciuto anche un altro merito degno di nota. Kim Stanley Robinson abbina nella sua storia la catastrofe ambientale con le speculazioni finanziarie del tardo capitalismo: il risultato di questo connubio è una tempesta perfetta, seguita con precisione cronometrica mentre si appresta a investire New York e ad abbattersi sulle vite dei suoi abitanti, portando con sé una nuova ondata di stravolgimenti.

Le vestigia antidiluviane di mondi sommersi
I mondi sommersi non sono una novità assoluta nella fantascienza, si pensi a titoli come La grande onda di Walter Jon Williams o Flood. Diluvio di Stephen Baxter, senza dimenticare il romanzo da cui tutto ha probabilmente avuto inizio, il capolavoro di J. G. Ballard Il mondo sommerso che già nel 1962 metteva in scena una Londra sprofondata sotto il livello delle acque in seguito allo scioglimento delle calotte polari. In effetti, in alcuni passaggi Robinson sembra voler omaggiare anche nelle metafore e nel tono della scrittura la carica visionaria del maestro inglese della New Wave (“Per lui quella baia era tutto, e le maestose vestigia del mondo antidiluviano sembravano magiche, come appartenenti a un’età dell’oro”, Robinson, 2017b).
A ben guardare forse New York 2140 ha un debito di ispirazione anche verso un libro quasi dimenticato come 334, il romanzo distopico di Thomas Disch su una New York futura vista attraverso la vita quotidiana di un condominio sulla Undicesima, oltre che verso la Trilogia USA di John Dos Passos, soprattutto per le soluzioni stilistiche adottate. A rendere tuttavia così degno di nota il romanzo di Robinson, che non a caso ha ricevuto una vasta attenzione anche al di fuori dei circuiti della stampa di settore, è la sua autorevolezza nel tornare a un tema mai tanto di attualità come in questi ultimi anni, rivisitandolo da un’angolazione nuova grazie alla decisione di inserirlo in un più ampio discorso – potremmo dire “di sistema” – che coinvolge la civiltà umana nella sua interezza.

“[…] se pensate di sapere come funziona il mondo, rivedete il vostro modo di pensare. Vi ingannano. Non sapete, non potete vedere, e non vi è mai stata detta tutta la storia. Mi dispiace, ma è il modo in cui stanno le cose.

Se poi pensate anche che i banchieri e i finanzieri di questo mondo ne sanno più di voi… sbagliate di nuovo. Nessuno conosce questo sistema. È cresciuto nel buio, è uno stack, un iperoggetto, una megastruttura accidentale. Nessun singolo individuo può conoscere nessuna di queste megastrutture, e tantomeno la megastruttura che è l’intero sistema globale, il sistema di tutti i sistemi”. (Robinson 2017b)

Come sovente accade con la fantascienza migliore, New York 2140 è soprattutto un libro che ci parla del nostro presente. Il futuro in presa diretta che ci restituiscono le sue quasi settecento pagine, densissime e ricche di dettagli (che anche per questo nell’edizione italiana avrebbero meritato una maggiore attenzione in sede di revisione), è in realtà una trasfigurazione piuttosto fedele, benché in alcuni elementi estremizzata, delle crisi con cui da qualche anno a questa parte ci stiamo confrontando. Solo per circoscrivere il discorso alle menzioni esplicite, ritroviamo su una scala ancora maggiore il crollo finanziario dei mutui subprime, l’uragano Katrina e l’uragano Sandy, il malessere sociale esploso nelle manifestazioni pacifiche organizzate dal movimento Occupy.
I riferimenti agli studi dell’economista francese Thomas Piketty e al suo seminale lavoro Il capitale nel XXI secolo forniscono a Robinson la solidità teorica per allestire un romanzo che è allo stesso tempo una critica del capitalismo finanziario e di una classe politica distratta o incompetente, se non proprio connivente, interessata solo all’autoperpetuazione, e lo spunto di partenza per allestire un esperimento letterario sulle possibili alternative alle soluzioni messe in atto dalla Federal Reserve e dall’amministrazione americana nel 2008. Robinson non si limita alla pars destruens, ma prospetta anche una catena di eventi e decisioni finalizzate alla ricostruzione di una società – senza spoiler – diversa.
Le rovine che affiorano dalle acque dell’oceano come il simulacro di un’antica e mitologica civiltà atlantidea non sono in fondo nient’altro che i resti di Wall Street, ciò che rimane dell’antica egemonia finanziaria americana.

Il futuro come strumento di analisi del presente
Ancor più di quanto già fosse evidente nei romanzi della trilogia di Marte, in New York 2140 Robinson rivendica un ruolo per la letteratura, che interessa in misura particolare la letteratura di genere e nello specifico la fantascienza: quello di porsi come uno spazio di sperimentazione in cui far detonare le contraddizioni del mondo in cui viviamo, scavare nella realtà ed esporre alla luce del futuro i reperti del nostro presente. La science fiction si ritrova ad avere nella sua cassetta degli attrezzi uno strumento precluso ad altre letterature, tramite il quale accelerare lo scorrere del tempo e mostrare gli effetti di processi già in corso o di tendenze ancora embrionali.
Ecco perché troviamo particolarmente appropriata la definizione di “challenging” usata da Adam Roberts per etichettare il romanzo nella sua recensione per il Guardian, riuscendo a coglierne lo spessore sia nell’impegno richiesto al lettore che nella sua capacità di stimolarlo a mettere in discussione i pregiudizi e i dogmi su cui si reggono le strutture di potere della nostra società (cfr. Roberts, 2017).

“Un investimento è come comprare un futuro. Non è un’opzione a comprare, è un vero futuro, comprato in anticipo rispetto all’evento. Quindi, qual è il futuro che la cosiddetta economia sta offrendo? Cosa offre come investimento questo porto, questa grande Baia di New York?” (Robinson, 2017b)

Pur prospettando tutte le condizioni per l’attecchimento dell’esito utopico vagheggiato per tutta la lunghezza del romanzo, Robinson decide di fermarsi prima che le conseguenze del cambiamento si compiano. Qui fa intenzionalmente un passo indietro e anche questa ci è parsa una scelta politica, un modo per far sentire al lettore il peso delle proprie responsabilità e l’importanza delle sue decisioni, nonché per coinvolgerlo con un gioco di prestigio letterario in un tentativo di superamento del vecchio mondo.
Enciclopedico e capace di mescolare riferimenti alti (Herman Melville e Walt Whitman sono i due numi tutelari che incombono su queste pagine) e bassi (New York è in fondo uno degli epicentri storici delle sottoculture metropolitane, nonché uno dei fulcri mondiali dell’immaginario popolare), così come di modulare i registri narrativi della stessa storia nel passaggio da un punto di vista all’altro, coprendo lo spettro che va dal thriller al poliziesco, dalla satira al pamphlet politico, il tutto inserito nella cornice di un romanzo cli-fi, New York 2140 forse non è un libro per tutti, ma nessuno dovrebbe volersi privare a prescindere di un’esperienza simile. Per questo restiamo convinti che i suoi pregi e i suoi difetti siano proprio il motivo per cui tutti dovrebbero sentirsi motivati a leggerlo, magari dopo la visione di un documentario a tema come Before the Flood, diretto da Fisher Stevens e prodotto da Leonardo Di Caprio, in cui Kim Stanley Robinson avrebbe senz’altro potuto esprimere un’autorevole voce in capitolo.

LETTURE
––   J. G. Ballard, Il mondo sommerso, Feltrinelli Editore, Milano, 2015.
––   Stephen Baxter, Flood. Diluvio, Aliberti Compagnia Editoriale, Correggio, 2010.
––   Gerry Canavan, The Utopia in the Time of Trump, Los Angeles Review of Books, 11 marzo, 2017.
––   Giovanni De Matteo, Tutto su Kim Stanley Robinson, il Tascabile, 6 luglio 2017.
––   Thomas Disch, 334, Fanucci Editore, Roma, 1972.
––   John Dos Passos, Il 42° parallelo, Rizzoli, Milano, 2008.
––   Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2016.
––   Adam Roberts, New York 2140 by Kim Stanley Robinson review – an urgent vision of the future, The Guardian, 3 marzo 2017.
––   Kim Stanley Robinson, Il rosso di Marte, Fanucci Editore, Roma, 2016.
––   Kim Stanley Robinson, Il verde di Marte, Fanucci Editore, Roma, 2016.
––   Kim Stanley Robinson, Il blu di Marte, Fanucci Editore, Roma, 2017.
––   Walter Jon Williams, La grande onda, Rizzoli, Milano, 2002.

VISIONI
––   Fisher Stevens, Punto di non ritorno – Before the Flood, National Geographic, 2016.