Gli eroi della Mesopotamia
e l’anelito all’immortalità

Gilgamesh. Il poema epico babilonese
e altri testi in accadico e sumerico
Edizione a cura di Andrew George

Traduzione di Svevo D’Onofrio
Adelphi, Milano, 2021
pp. 308, € 24,00

Gilgamesh. Il poema epico babilonese
e altri testi in accadico e sumerico
Edizione a cura di Andrew George

Traduzione di Svevo D’Onofrio
Adelphi, Milano, 2021
pp. 308, € 24,00


Adelphi ha pubblicato la versione aggiornata (al 1999) del più famoso poema babilonese, Gilgamesh, nell’edizione Penguin Books curata da Andrew George, forse obliando che anche il nostro paese è frequentato da validi studiosi di cose accadiche. George è in ogni caso l’autore dell’edizione critica dell’Epopea di Gilgamesh (Oxford University Press, 2003) e a lui certamente spetta il merito di aver messo ordine in un testo sicuramente dalle vicende molto complesse. Come giustamente egli afferma l’Epopea di Gilgamesh è certamente da annoverare fra i grandi capolavori della letteratura mondiale; un testo seminale che ha influenzato tanta poetica e narrativa occidentali.
L’opera inizia con un inno al re Gilgamesh e alla sua città, Uruk. I sudditi sono però oppressi dal loro sovrano e se ne dolgono con gli dèi. Il dio Anu, sovrano del firmamento, accoglie la supplica e, per dare sollievo al popolo, dispone la nascita di Enkidu. Costui è un uomo selvaggio che vive con gli animali nella steppa, che potrà tenere a freno la smisurata potenza di Gilgamesh ma anche stargli accanto nei momenti di pericolo. Enkidu però deve essere prima introdotto alla civiltà. A questo compito provvede la prostituta sacra Shamkhat che gli insegna le basi del vivere civile, prima di condurlo a Uruk. Un’arcaica equazione che collega sapienza e prostituzione.
Enkidu giunge a Uruk giusto in tempo per evitare che Gilgamesh varchi la soglia di una novella sposa. Infatti, a Gilgamesh, in quanto sovrano, spettava lo ius primae noctis, uno dei maggiori fattori di scontento popolare. Gilgamesh e Enkidu si fronteggiano ma la forza dei contendenti è paritaria, per questo cessano le ostilità e i due diventano amici fraterni. Gilgamesh, in cerca di fama e avventura, propone allora a Enkidu una spedizione nella Foresta dei Cedri dove mille pericoli li attendono. Gilgamesh convince gli anziani di Uruk ad appoggiare la missione. La madre Ninsun, sacerdotessa del tempio, tuttavia è angosciata della partenza del figlio. Ninsun leva un’accorata preghiera a Shamash, dio del sole, affinché protegga Gilgamesh dai pericoli. Dopo che gli artigiani di Uruk hanno forgiato le armi della missione, i due eroi si mettono in viaggio.

Frammento di tavoletta d’argilla. Epopea di Gilgamesh, tavoletta 11, storia del Diluvio.

Il codice dell’Occidente è questa storicità in cammino mai sazia di avventure. Senza bei paesaggi dove sostare. Il viaggio di Gilgamesh alla ricerca di avventure e poi della pianta di immortalità diventa il modello di Odisseo, di Enea, di Perceval alla ricerca del Graal, quindi di Dante, ben presente a Goethe nella redazione della seconda parte del Faust. Testi che utilizzano altri testi, come il capitano Achab che rilegge il viaggio di Abramo verso un Eden marino che gli sfuggiva. Una traccia che Jack Kerouac ha condiviso con il Yajé di William Burroughs, sempre On the Road. Una narrazione pure condivisa dal pensiero filosofico, che rende ogni forma come fragile e aperta al proprio superamento (cfr. Deleuze, Guattari, 1994). È la metamorfosi del viaggio a determinare le nostre identità.
Il cammino verso la Foresta dei Cedri si compie in un clima di magica sospensione. Ogni sera i due eroi, prima di coricarsi dal lungo viaggio offrono un sacrificio al dio Shamash. Un demone della sabbia, inviato dal dio, suscita in Gilgamesh uno stato alterato di coscienza onde renderlo recettivo ai sogni premonitori; contemporaneamente il demone infonde a Enkidu il potere di interpretare gli stessi. I cinque sogni di Gilgamesh sono tutti a tinte fosche, ma ogni volta Enkidu li interpreta come segnali di buon auspicio da parte del loro dio tutelare. Gilgamesh ed Enkidu giungono nella Foresta dei Cedri e cercano gli alberi migliori da tagliare e portare a Uruk. Vengono però scoperti dal mostro Ḫumbaba (< sumero Ḫuwawa), posto a guardia della foresta dal signore degli dèi, Enlil. Il mostro maledice i due uomini, sperando d’intimorirli, ma gli eroi non indietreggiano e lo scontro ha inizio. Con l’aiuto di Shamash, Gilgamesh ed Enkidu riescono a sopraffare la belva che chiede pietà. Enkidu tuttavia avverte Gilgamesh che le parole del mostro sono menzognere e sprona l’amico a finire la creatura. Il bottino è cospicuo. Gli alberi sacri vengono tagliati e portati a Uruk.
Una vicenda forse trapuntata nelle sete ricamate della Spagna moresca che, pur così islamiche per le iscrizioni cufiche che le caratterizzano, non solo ripetono i motivi sasanidi del banchetto e della caccia ‒ come i tessuti provenienti dalla tomba del vescovo Arnau de Gurb di Barcellona (1248), da quella della regina Berenguela di Castiglia al monastero femminile di Las Huelgas di Burgos, o dalla cattedrale di Gerona ‒ ma anche motivi più antichi, mesopotamici, quale il Gilgamesh che tiene con le braccia due leoni, conservato a Berlino. Iconografie in transito.

Bassorilievo rappresentante un eroe identificato in passato in modo erroneo con Gilgamesh (particolare).

Gilgamesh è acclamato e Ishtar, dea dell’amore e della guerra, osservando il sovrano in tutto il suo splendore se ne invaghisce. La dea scende a Uruk e propone a Gilgamesh di sposarla; l’eroe rifiuta la sua proposta in termini che oltraggiano la dea. Ishtar allora fa liberare il Toro Celeste che come una calamità si abbatte sulla città. Intervengono Gilgamesh ed Enkidu che in una sorta di corrida riescono a rendere inoffensivo e uccidere il mostro. La gloria di Gilgamesh raggiunge l’apoteosi e mentre tutto il popolo lo acclama, Ishtar piange il Toro con le sue ancelle. Terminate le libagioni, Enkidu sogna il consiglio degli dèi: l’olimpo non è contento ma offeso dai ripetuti sacrilegi. Enlil decreta che uno dei due eroi debba morire. Poiché Gilgamesh ha sangue divino nelle vene, la pena ricade su Enkidu che cade ammalato. Gilgamesh è disperato, perché non può fare nulla per il moribondo che, vaneggiando, maledice la porta costruita col cedro della foresta e la prostituta che lo aveva introdotto alla civiltà. Shamash però rincuora Enkidu preparandolo al trapasso. In un ultimo sogno Enkidu ha la visione della Casa della Polvere, il regno dei morti dove è destinato. Enkidu muore e Gilgamesh lo piange intonando un lamento funebre al quale si unisce tutto il popolo in lutto. Viene preparato un regale corredo funebre che accompagnerà il morto nell’aldilà. Gilgamesh è sconvolto per la scomparsa del compagno e s’interroga se anche lui dovrà un giorno seguire lo stesso destino, cioè morire. In cerca di una risposta abbandona Uruk disperato, vagando per la steppa affamato e derelitto. Giunge fino alla porta di una montagna sorvegliata da creature zoomorfe, metà uomo e metà scorpione; i guardiani mostruosi riconoscono in lui un personaggio divino e lo lasciano passare.

A sinistra una probabile rappresentaione della dea Ishtar, nota come La regina della notte. A destra tavoletta su cui è scolpito il demone Humbaba, guardiano divino della Foresta dei cedri.

Gilgamesh attraversa l’oscurità della montagna e all’uscita si ritrova nello splendente giardino di Shamash dove diamanti e lapislazzuli crescono sugli alberi. Il giardino è sorvegliato dalla vivandiera Siduri che commossa dalle implorazioni di Gilgamesh gli spiega come raggiungere l’antenato Utanapishtim (“Colui che è molto saggio”), reso immortale dagli dèi per aver superato la prova del diluvio universale. Incontrato il traghettatore Urshanabi, Gilgamesh può attraversare le “acque della morte” ( mūti) che separano la dimora di Utanapishtim dal resto dell’umanità; acque che in realtà coincidono con le acque primordiali di Apsû, l’abisso delle origini. Gilgamesh infine raggiunge l’«isola» su cui dimora l’antenato, che però non ha alcun segreto di lunga vita da svelare. Gilgamesh non crede a Utanapishtim. L’antenato racconta allora come riuscì a salvarsi dal grande diluvio. Fu solo al termine di questa calamità, scagliata dagli dèi per sopprimere gli uomini, che fu possibile a un mortale giungere alla vita eterna. Gli dèi, infatti, riunitisi in consiglio per decidere il destino di Utanapishtim, lo elessero loro pari, confinandolo in un luogo lontano dal mondo. Fu quindi grazie a un consiglio divino che Utanapishtim divenne immortale, ma tale consiglio non potrà mai ripetersi per Gilgamesh. Il re di Uruk tenta allora di sottoporsi alla prova del sonno per mostrare di meritare una simile possibilità, fallendola però miseramente. Gilgamesh si sente sconfitto, ma Utanapishtim gli fa un ultimo dono prima del viaggio di ritorno: la pianta dell’irrequietezza che restituisce vigore e garantisce una immortalità fisica. Gilgamesh, istruito dal vecchio, si tuffa nell’Oceano ai confini del mondo, si immerge nelle profondità dell’abisso liquido per cogliere la pianta. Conquistato il germoglio che dilata all’infinito l’esistenza, lo smarrisce per una sbadataggine: mentre egli si attarda presso una fonte d’acqua, un serpente glielo sottrae e lo mangia, mutando di pelle, segno di una conseguita immortalità. Come nel mito ebraico, il serpente è qui l’animale che sottrae all’uomo la vita eterna, paradisiaca. A Gilgamesh non rimane quindi che accettare il proprio destino mortale e tornare a Uruk dove riprende l’esercizio del potere con i suoi strumenti: il pukku e il mekkû (il “tamburo” e la “bacchetta della guerra”). A Ururk i lamenti delle vedove fanno cadere il pukku e il mekkû agli inferi e un Enkidu ritornato fantasmaticamente in vita si accolla il compito di recuperarli. Gilgamesh raccomanda all’amico di rispettare tutte le prescrizioni e le interdizioni degli inferi per garantirsi il ritorno; purtroppo Enkidu li infrange e resta fatalmente intrappolato. Gilgamesh riesce a far liberare Enkidu grazie all’aiuto di Shamash che intercede presso Nergal, signore dell’oltretomba. Ma Enkidu è già morto, come apprende Gilgamesh quando al suo cospetto torna solo un’ombra. Nel corso dell’ultimo incontro col vecchio compagno di avventure, Enkidu spiega il destino degli abitanti dell’oltretomba, costretti a una silenziosa vita umbratile.

Gilgamesh ed Enkidu disegnati da Abelardo per DeviantArt.

È suggestivo rilevare come, molti secoli prima della scoperta delle tavolette cuneiformi, le avventure di Gilgamesh siano dilagate in tutto il Vicino Oriente. Se prendiamo per buone le ricostruzioni e le congetture di alcuni studiosi, in un frammento del Libro di Enoch proveniente da Qumrān, la più nota e antica biblioteca di rotoli manoscritti ebraici e aramaici, troviamo menzionato un personaggio chiamato Ḥōbabeš (ḥwbbš), un Gigante il cui nome è etimologicamente legato a Ḫumbaba, il guardiano della Foresta dei Cedri delle avventure di Gilgamesh, una tradizione ben nota agli aedi del mondo antico. Oltre alle affinità morfologiche, i particolari salienti del mito di Gilgamesh sono infatti da ritenersi alla base di molta epica classica. È infatti probabile che la fama del poema babilonese abbia presto sconfinato oltre la Terra dei due Fiumi, e la presenza nei frammenti aramaici del Pentateuco enochico di Qumrān ne sia la prova evidente.
Il motivo si ritrova anche nella poetica di Ibico (VI sec. a.C.), che versifica una variante del mito di Prometeo, secondo la quale Zeus adirato per la sottrazione del fuoco ricompensò i delatori che avevano accusato il furto con una “medicina” (pharmakon) di immortalità. Chi ricevette questo dono, caricò la panacea sul dorso di un asino. L’animale, stanco e assetato, si avvicinò a una fonte per dissetarsi. Le acque erano però custodite da un malefico e minaccioso serpente: l’asino stremato barattò quanto portava in groppa, cioè il farmaco di immortalità, in cambio del permesso di poter abbeverarsi. Così, mentre questi si dissetava, il serpente mutava di pelle, rivelando in ciò di aver acquisito l’immortalità.
Le vicende di Gilgamesh possono interpretarsi come un viaggio onirico verso gli inferi; non a caso, il poema esordisce con la frase “Colui che vide il Profondo”. La ricerca dell’immortalità comporta l’acquisizione, anche se la finalità non è raggiunta, di una profonda sapienza. Il sogno del principe mesopotamico implica tale esperienza; egli ebbe in sorte la conoscenza che altri acquisiscono con la morte: visitò in sogno (quindi, viaggiò) il regno degli inferi, retto da Nergal ed Ereshkigal e popolato da creature mostruose.

Illustrazione di Raphaël Defossez per l’edizione francese del Gilgamesh di Robert Silverberg.

Venendo ai nostri giorni, Robert Silverberg, prolifico autore di fantascienza, ha riscritto la storia di Gilgamesh partendo da un romanzo storico (Gilgamesh the King, 1984) sino a giungere alla costruzione di una epica alternativa, con il nostro eroe agli inferi (Gilgamesh in the Outback, 1986). Silverberg prende spunto dal Ciclo del mondo del fiume di Philip José Farmer per immaginare Gilgamesh alle prese con tutta una serie di personaggi storici e non: l’Inferno è un luogo dove si possono incontrare Giulio Cesare e il Prete Gianni accanto a Howard P. Lovecraft e a Robert E. Howard, il creatore di Conan; c’è anche Ernest Hemingway che tenta metter pace nella rissa finale fra Gilgamesh ed Enkidu, reo di aver tradito le aspettative dell’amico. In questo Silverberg vuol far ritornare la storia dell’eroe mesopotamico agli esordi, al primo combattimento contro Enkidu: anche questa volta l’esito della lotta sarà il rinnovarsi della fratellanza fra i due.
L’eroe affronta il pericolo che fatalmente incalza dall’esterno la vita in comune o che scaturisce dalla sua antinomia interna. La lotta che egli ingaggia intende in qualche modo negare quella tragica imperfezione dell’esistenza che conferma il proprio fallimento e al tempo stesso lo rifiuta. Accanto agli eroi compaiono sacerdoti e taumaturghi, custodi e sognatori, i quali percepiscono il verbo divino ancora in una maniera puramente indiretta. Sciamani, maghi, stregoni, evocano quel mistero stabile e univoco che pare affacciarsi nei territori umani con un senso di minaccia piuttosto che di sfida. Gilgamesh non conquista l’assoluto lottando, ma lotta nel mondo come se fosse l’assoluto stesso. Quindi non si dibatte in quel tragico conflitto che lo condannerebbe all’inevitabile sconfitta. Vincere significa essere a priori, l’eroismo quindi rappresenta soltanto un fraintendimento dell’eroismo autentico, suggellato unicamente dalla morte, da colei cioè che libera definitivamente dalla paradossalità ciò che è condizionato. L’eroe, insegna il mito di Gilgamesh, è tale solo se può morire.

Letture
  • Ezio Albrile, Angeli e diavoli. Le origini di un mito, WriteUp, Roma-Bari, 2020.
  • Walter Burkert, The Orientalizing Revolution. Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age (Revealing Antiquity, number 5.), Harvard University Press, Cambridge, 1992.
  • William Burroughs, Allen Ginsberg, Le lettere dello yage, a cura di Oliver Harris, Adelphi, Milano, 2010.
  • Stephanie Dalley, Myths from Mesopotamia. Creation, The Flood Gilgamesh and Others, Oxford University Press, Oxford-New York, 1989.
  • Gilles Deleuze e Felix Guattari, Geofilosofia. Il progetto nomade e la geografia dei saperi, Mimesis, Milano, 1994.
  • L’Eneide di Virgilio, a cura di Vittorio Sermonti, BUR, Milano, 2019.
  • Philip José Farmer, Il mondo del Fiume (volumi separati: Il fiume della vita, Alle sorgenti del fiume, Il grande disegno, Il labirinto magico, Gli dei del fiume), Fanucci, Roma, 2012.
  • Formule di maledizione della Mesopotamia preclassica, a cura di Francesco Pomponio, Paideia, Brescia, 1990.
  • Gerald K. Gresseth, «The Gilgamesh Epic and Homer», in The Classical Journal, 70 (1975).
  • Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, a cura di Mariantonia Liborio, Mondadori, Milano, 2005.
  • Ibico. Nel giardino delle vergini (Il vello d’oro/testi, 10), a cura di Eleonora Cavallini, Argo, Lecce, 1997.
  • Pietro Mander, La religione dell’antica Mesopotamia, Carocci, Roma, 2009.
  • Pietro Mander, Ishtar la Stella, Ester, Bussoleno-Torino, 2022.
  • Omero, Odissea, a cura di Aurelio Privitera, Mondadori, Milano, 1994.
  • Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, in coll. con Silvia Maria Chiodi e Giuseppe Del Monte, Rusconi, Milano, 1992.
  • John C. Reeves, Jewish Lore in Manichaean Cosmogony. Studies in the Book of Giants Traditions (HUCM, 14), Hebrew Union College Press, Cincinnati, 1992.
  • Robert Silverberg, Gilgamesh, Fanucci, Roma, 1988.
  • Robert Silverberg, Gilgamesh all’inferno, in I Premi Hugo 1984-1990, a cura di Piergiorgio Nicolazzini, Editrice Nord, Milano, 1991.
  • Testi di Qumran, a cura di Florentino García Martínez, Paideia, Brescia, 1996.
  • Ronald A. Veenker, «Gilgamesh and the Magic Plant», in The Biblical Archaeologist, 44 (1981).