Creatività e utopia:
la lezione di Gianni Rodari

Gianni Rodari
23 ottobre 1920 – 14 aprile 1980

Gianni Rodari
23 ottobre 1920 – 14 aprile 1980


Gianni Rodari era un signore basso, con giacca da ragioniere e sigaretta, figlio di un fornaio, morto di polmonite dopo aver salvato un gattino sotto un torrenziale acquazzone, e di una commessa di bottega; fu maestro, soldato, partigiano e giornalista. Gianni Rodari, insomma, fu tutto quello che un narratore dovrebbe essere.
Lavorò per L’Unità, Paese Sera ed Einaudi, nel 1970 vinse il Premio Hans Christian Andersen, unico italiano nella categoria Scrittori e unico italiano fino al 2008 quando Roberto Innocenti lo raggiunse nella categoria Illustratori. Il premio internazionale Andersen, va ricordato, non va confuso con l’omonimo premio italiano: viene conferito ogni due anni come riconoscimento per chi ha dato in maniera consistente un contributo alla letteratura per l’infanzia e la gioventù. In poche parole è il Nobel della Letteratura per Ragazzi.
Gianni Rodari muore a Roma il 14 aprile del 1980, gli segue di un giorno Jean-Paul Sartre, portandosi appresso buona parte delle lacrime e dei necrologi degli intellettuali di allora. Muore per un collasso al cuore a seguito di un intervento che, a parole, doveva essere di semplice routine, ma che si rivela fatale per quel signore basso, con giacca da ragioniere e sigaretta.
Gianni Rodari il maestro. Gianni Rodari lo scrittore. Gianni Rodari “il profeta della fantasia” si dice, ora, di lui. Tutti lo ricordano, tutti lo onorano: Omegna, paese d’origine, vi ha dedicato anche un parco e un trenino, la Freccia Azzurra, che di filastrocca in filastrocca racconta ai bambini che vogliono ascoltare.
Gianni Rodari a cent’anni dalla sua nascita è considerato un genio, un visionario, uno storyteller come adesso si chiamano i cantastorie, un profeta andatosene troppo in fretta e che non è riuscito a incantarci a sufficienza con le sue storie, le sue rime, i suoi personaggi strampalati e i suoi insegnamenti.
Gianni Rodari come Italo Calvino, come Fabrizio De André, come tutti quegli artisti che avevano tante cose da dire, tante orecchie che ascoltavano e tanto poco tempo per farlo. Eppure…

Eppure come succede ai tanti, veri, intellettuali che l’Italia ha avuto e ha, pare che quando si parla del buon uomo di Omegna nell’aria si respiri una certa forma di ipocrisia: un’aria fritta che sa di agiografia, di santificazione della persona, dei suoi lasciti e della sua arte di inventare storie, ma che poi, alla fine, si fermi lì, al profeta della fantasia e alla locuzione, sempre vincente, che “nessuno è profeta nella propria patria”. Poiché se veramente l’intellighenzia avesse fatto fede delle sue parole, dei suoi insegnamenti e dei personaggi come Cipollino, verrebbe spontaneo chiedersi: dov’è finito lo spirito utopico, rivoluzionario, anarchico della filosofia rodariana? Dove sono finiti i bambini custodi della propria fantasia? Dov’è sparito l’errore così caro a Rodari?

“In ogni errore giace la possibilità di una storia”
(Rodari, 2013).

A oggi Gianni Rodari è diventato materia di appassionati, i quali si spendono, soffrono, scrivono, rileggono, rielaborano i suoi scritti e i suoi esercizi per portarli nelle loro scuole, nelle loro biblioteche, nei loro articoli, nei loro libri. Donne e uomini dediti al rispetto delle parole e dell’immaginario che dovrebbero essere premiati, e non una sola volta, come cavalieri del lavoro. Questi anonimi soldati che ogni giorno combattono una battaglia feroce contro l’ignoranza e il qualunquismo, sono coloro che più di ogni altro devono essere trattati con rispetto e stima, poiché, proprio come ricordava Rodari, sono loro a forgiare i cittadini del domani. Cittadini che dovranno fare e dire cose difficili.

“È difficile fare
le cose difficili
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate
a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi”
(Rodari, 1979).

Gianni Rodari ieri assieme a tutti quelli che oggi ce l’hanno nel cuore, nella testa, nelle mani e nelle gambe spronano i bambini a un impegno civile e sociale: una ricerca dell’altro, con l’altro e per l’altro che passa tramite sé stessi e l’uso libero, spassionato e fantasioso del linguaggio. In una situazione claustrofobica, la cui colpa non è solo del 2020 e della sua portata catastrofica (vedi Covid, isolamento, lockdown), ma è figlia di una visione adulta della vita, il bambino e la sua successiva evoluzione si ritrovano abbandonati in una spiaggia sui cui, nemmeno i “grandi” dovrebbero trovarsi naufraghi. Sempre prima si viene indirizzati verso delle scelte che condizioneranno tutta la vita: dopo le scuole medie (o scuola Secondaria di Primo Grado) si deve scegliere in maniera importantissima cosa fare dopo. Istituto tecnico? Alberghiero? Liceo? Sì, ma quale: scientifico, linguistico, classico? E poi dopo? Cosa fare una volta terminato? Iscriversi all’università? Quale università? Era bravo in italiano, sapeva raccontare delle belle storie, una volta ha preso 9 in un tema. Allora è fatta: classico, Lettere in triennale, magistrale pure e poi concorso per l’insegnamento.
Altrimenti che fare? E già tanto se il lavoro si trova. Bravo in matematica, invece? O smontare e rimontare oggetti nel garage con nonno è la sua passione? Allora, possiamo dire che la vita è già decisa. E guai a cambiare idea durante il percorso: che vergogna e che imbarazzo venire bocciato perché non si è portato per il latino. Si va scuola per trovare un lavoro, non per imparare a vivere. Un bambino a dodici anni, in media, non sa nemmeno cosa sia un conto in banca, eppure gli viene chiesto di prendere delle decisioni per andare a riempirlo, un giorno futuro, quel conto. Il risultato sono trentenni frustrati in bilico tra sogni e doveri, tra le aspettative che gli ultimi trent’anni hanno elargito tramite la televisione e il dovere sociale, tra la libertà di sbagliare e la condanna dell’errore.

Disegni di Viola Sgarbi per Il giovane gambero.

Il bambino che scriveva l’ago di Garda e fa nascere una divertente e memorabile filastrocca (cfr. Rodari, 2019) non avrebbe vita facile adesso, perso tra rimproveri, etichette (DSA, deficit di attenzione e iperattività…), impegni e speranze genitoriali. Chi mai vorrebbe un figlio che mette l’apostrofo al posto sbagliato? Che adulto potrebbe essere un bambino che non sa l’enorme differenza tra uno specchio d’acqua e un utensile usato per cucire? Sicuramente un adulto che faticherà a trovare un lavoro, perché si sa, nel lavoro, come nella scuola l’errore non è ammesso. E il lavoro come la scuola non può e, pare, non deve essere divertente. Chi dice il contrario è uno stupido o un folle e professa utopia. Ed è qua che il signore basso, con la giacca da ragioniere e la sigaretta dissentirebbe.

“E poi, non trascuriamo il valore educativo dell’utopia. Se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista?”
(Rodari, 2013).

Come afferma Vanessa Roghi su Il Manifesto: “l’utopia è il regno della speranza che deve sempre guidare le nostre azioni anche nei momenti più bui” (Roghi, 2020a). L’utopia è, quindi, la possibilità di guardare al futuro con aspettative maggiori e migliori rispetto a quello che la famiglia, la scuola, lo Stato, la Società paiono proporre.

“Se io avessi una botteguccia
fatta di una sola stanza
vorrei mettermi a vendere
sai cosa? La speranza”
(Rodari, 2019).

La speranza è il vero regalo che Gianni Rodari ha lasciato: insegnando agli allora bambini e a tutti quelli che hanno ascoltato e letto le sue parole che l’utopia è un senso da sviluppare, in cui far entrare una scuola che stia ad ascoltare il bambino, che lo educhi alla gentilezza e alla fantasia, che lo sproni a ridere dei suoi errori. Con l’utopia la scuola deve diventare un luogo di interesse per il bambino che può giocare, almeno per qualche ora, con le parole, invertendole, storpiandole e usandole per smuovere le acque della sua fantasia, come un sasso in uno stagno. Utopia non vuol dire però vivere nell’errore e promuovere una visione anarchica dell’insegnamento, senza più regole e confini e dove l’errore viene premiato ed elogiato. Non è questo lo scopo.

“Il fine rodariano non è di togliere le regole grammaticali dal curriculo ma piuttosto di prenderle in prestito per dire ai bambini che la realtà non va mai accettata passivamente: va conosciuta, indagata, eventualmente criticata, sempre in maniera costruttiva, per poterne realizzare una migliore”
(Vincenzi, 2011).

A sua volta, la famiglia deve imparare ad ascoltare i propri figli e permettergli di essere rivoluzionari, deve condurli con regole ed educazione verso il futuro, ma fornendogli tutte le possibilità che si possono offrire tra cui, soprattutto, quella di potersi annoiare. I bambini necessitano di annoiarsi, poiché dalla noia nasce la fantasia che è l’arma con cui da secoli l’essere umano ha combattuto tediosi pomeriggi e interminabili riunioni di lavoro prima dell’invenzione degli smartphone. Non è necessario riempire i loro spazi, pigiandoli in una calendarizzazione della settimana, poiché i bambini, prima che social e artifici vari gli occupino quegli spazi neutri, vanno lasciati al soldo della fantastica rodariana: saranno loro a tenersi occupati con avventure piratesche, pavimenti di lava e disegni ricchi di amici immaginari. Se occupate tutti gli attimi dei vostri figli tra clarinetto, calcio, ripetizioni e scuole, avrete degli adolescenti che saranno dei piccoli adulti, in difficoltà quando il telefono è scarico e che vivranno l’ansia del far nulla.

“Un’immaginazione che si fonda su un uso rivoluzione della parola che con tutti i suoi usi è il più grande strumento di liberazione che gli esseri umani abbiano mai inventato”
(Roghi, 2020b).

Allo Stato e alla Società non vi è nulla da dire, che non sia già stato detto al singolo: Rodari non si rivolgeva ai Ministri o alle folle, ma a ogni bambino e ogni adulto che voleva ascoltarlo, poiché lo Stato e la Società, nella loro utopica e fantasiosa utilità e definizione, sono composti dal bambino e dall’adulto. L’obiettivo finale è e deve essere sempre quello di immaginare un mondo migliore, come afferma Roghi, scopo che dovrebbe sposarsi con quello statale e sociale. Gianni Rodari voleva insegnare questo quando girava per le scuole: voleva insegnare che la grammatica della fantasia è a portata di tutti, pronta per essere usata da tutti “non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo” (Rodari, 2013).
Rodari non propugnava un’idea folle in cui tutti sarebbero diventati scrittori, cantanti, musicisti, anzi scacciamo a forza la volontà di un mondo composto solo da artisti che neanche sanno montare uno scaldabagno. No, la volontà di Rodari era quella della libertà universale della fantasia e del linguaggio: senza catene e senza gabbie per tutti. Un’utopia nell’utopia.

“Il senso dell’utopia, un giorno, verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista, l’udito, l’odorato, ecc. Nell’attesa di quel giorno tocca alle favole mantenerlo vivo, e servirsene, per scrutare l’universo fantastico”
(Rodari, 2013).

In attesa di quel giorno non ci resta che tendere il nostro orecchio acerbo e ascoltare, chi più di noi, di fantasia ne sa qualcosa: i bambini.

“Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo
vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi era maturato
tutto, tranne l’orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino
e potermi studiare il fenomeno per benino.
Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età
di quell’orecchio verde che cosa se ne fa?
Rispose gentilmente: – Dica pure che sono vecchio
di giovane mi è rimasto soltanto quest’orecchio.
È un orecchio bambino, mi serve per capire
le voci che i grandi non stanno mai a sentire.
Ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli,
le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli.
Capisco anche i bambini quando dicono cose
che a un orecchio maturo sembrano misteriose.
Così disse il signore con un orecchio acerbo quel
giorno, sul diretto Capranica-Viterbo”
(Gianni Rodari, 1979).

Letture
  • Autori vari, Andersen: speciale Gianni Rodari, verso il 2020, anno XXXVIII, n. 365, settembre 2019.
  • Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 2013.
  • Gianni Rodari, Favole al telefono. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino, 2010.
  • Gianni Rodari, Parole per giocare, Manzuoli, Firenze, 1979.
  • Gianni Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi, Torino, 2019.
  • Vanessa Roghi, L’ottimismo cosmico di Gianni Rodari, Il Manifesto, 11 aprile, 2020a.
  • Vanessa Roghi, Gianni Rodari, un meraviglioso intellettuale, Internazionale, 14 aprile, 2020b.
  • Vanessa Roghi, Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari, Laterza, Bari, 2020c.
  • Marika Vincenzi, In difesa di Gianni Rodari. Dal “rodarismo” alla riscoperta della pedagogia rodariana, Raccontareancora, 2011.
Visioni
  • Fabrizio Marini, Italiani: Gianni Rodari. Il profeta della fantasia, Rai Storia, Rai-Radiotelevisione Italiana; RaiPlay, 2017.