Musei, genealogie familiari
e decolonizzazione del sé

Gabriela Wiener
Sanguemisto
Traduzione di Elisa Tramontin

La Nuova Frontiera, Roma, 2022
pp. 182, € 17,90

Gabriela Wiener
Sanguemisto
Traduzione di Elisa Tramontin

La Nuova Frontiera, Roma, 2022
pp. 182, € 17,90


Che Storia raccontano certi musei? Sebbene si possa attraversare le sale colme di artefatti del passato in modo aproblematico, dando per scontato che quegli oggetti siano testimoni di fatti oggettivi e della cui narrazione esiste una sola versione, le cose non stanno esattamente così. Sono sempre di più le persone che mettono in crisi questo spazio ovvio nell’immaginario occidentale. Per esempio, Giulia Grechi apre il suo Decolonizzare il museo ricordando una scena di Black Panther (2018) ambientata in un certo Museum of Great Britain, in cui un uomo afrodiscendente chiede alla curatrice del museo spiegazioni su alcuni artefatti africani esposti. Non solo l’uomo ne sa ben più di lei, ma le pone un quesito: come pensa che i suoi antenati si siano appropriati di quegli oggetti? Nel commentare questa scena Grechi si e ci chiede:

“Cosa ci fanno degli oggetti appartenenti ad altre culture in un museo che definisce la cultura nazionale di un paese europeo? In che modo questi oggetti possono definire la cultura che li possiede, oltre a quella che li ha prodotti? A chi appartengono dunque questi oggetti e perché si trovano lì?”
(Grechi 2021).

Questi interrogativi sono al centro di Sanguemisto, una storia famigliare e coloniale, ma anche intima e personale, che la casa editrice La Nuova Frontiera ha recentemente tradotto in italiano. L’incipit del libro somiglia in un certo senso alla scena di Black Panther. Per Gabriela Wiener, autrice e io narrante di queste pagine, visitare un museo è un’esperienza straniante:

“Ciò che è più strano del fatto di trovarmi qui, a Parigi, da sola, nella sala di un museo etnografico, praticamente sotto la Torre Eiffel, è il pensiero che tutte quelle statuette che mi assomigliano siano state sottratte al patrimonio culturale del mio paese da un uomo di cui porto il cognome”.

Gabriela Wiener ha radici nei trafugatati e nei trafugatori, è peruviana, ma ha anche un trisavolo, Charles Wiener, che si è portato in Europa quattromila manufatti precolombiani. Lei lo definisce un huaquero, “un tombarolo di portata internazionale”, un saccheggiatore di huacos, oggetti di ceramica preispanici fatti a mano. Charles, che mai seppe nulla del figlio che concepì con Maria Rodríguez, trisavola dell’autrice, era un esploratore armato di metodo scientifico, giunto in Perù dall’Europa col suo sguardo civilizzatore, autore di testi intrisi di un pensiero eurocentrico e razzista che Gabriela non riesce neanche a leggere per intero. Charles, pur non assumendo posizioni genocidarie, agisce un altro tipo di violenza, contribuisce al saccheggio e alla distruzione di una Storia e di una civiltà che trasforma in folklore messo a servizio del voyerismo occidentale attraverso l’assoluta e completa decontestualizzazione di quegli artefatti, lontanissimi dai luoghi in cui sono stati prodotti.

L’esibizione della supremazia occidentale
Tutta la sua discendenza peruviana ha fatto di lui un feticcio: in ogni casa Wiener c’è “una squallida riproduzione in bianco e nero del ruvido volto austriaco”, a dimostrazione che il colonialismo è dentro le genealogie famigliari, intersecato a un patriarcato che non si cura della capostipite donna, rimossa dalla storia, di lei nessuno sa niente. Di Maria Rodríguez, “la donna che dà inizio alla stirpe dei Wiener in Perù”, non c’è neanche una foto e tutti preferiscono identificarsi in quell’unico antenato bianco e civilizzatore. Gabriela, invece, non può che avere un rapporto tormentato con questa ascendenza. Anche Charles, però, non aveva un’identità così univoca come avrebbe voluto far credere. Un tempo era Karl Wiener, ebreo austriaco, diventato francese solo dopo l’Esposizione Universale di Parigi del 1878, dove contribuì a creare uno zoo umano. Charles si trovò all’intersezione di diverse forme di razzismo scientifico; come ricorda l’autrice, quando morì mancavano solo vent’anni all’Olocausto. E ha scelto di essere un bianco civilizzatore.
Sanguemisto si sottrae a ogni forma di linearità e unidimensionalità: tutti i personaggi hanno identità complesse, contraddittorie, non esprimono appartenenze esclusive e totalizzanti.  Alle riflessioni inquiete su cosa significhi avere un corpo marrone – come lei stessa lo definisce – e portare il cognome Wiener, si aggiunge la narrazione del lutto per la perdita del padre, che per decenni aveva condotto una doppia vita affettiva. Un’esperienza che porterà la protagonista a mettersi ulteriormente in questione, a non reprimere certezze e inquietudini che attanagliano la sua vita affettiva e sessuale, fino a intraprendere un percorso di decolonizzazione del desiderio. Wiener racconta dunque come le conseguenze della Storia coloniale non vadano collocate unicamente in una dimensione pubblica che pone al centro dell’attenzione diritti e discriminazioni. Ma racconta quanto l’epistemologia della colonialità sia talmente invasiva da intaccare la sfera più intima di sé, senza risparmiare il rapporto col proprio corpo, il desiderio sessuale e le relazioni amorose. La forza della scrittura di Gabriela Wiener sta proprio nell’alternanza tra il passato e il presente, tra la visione civilizzatrice di Charles e lo sguardo del colonizzatore che ha dentro di sé:

“C’è qualcosa in questa mescolanza perversa di huaquero e huaco che mi scorre delle vene, qualcosa che mi fa dissociare”.

Sanguemisto è un invito a decolonizzare lo sguardo su molteplici dimensioni della vita, un processo senza conclusione e a cui la protagonista si sottopone nel corso di queste pagine.

Letture
  • Giulia Grechi, Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, Mimesis, Milano, 2021.
Visioni
  • Ryan Coogler, Black Panther, Marvel Studios, 2018.