Tra le rovine e la mia mente,
cercando storie e la storia

Alessandra Cianelli, Opher Thomson (co-regia)
All’aldilà diqua 
Produzione: Dormire Fondazione
Italia, 2020

Alessandra Cianelli, Opher Thomson (co-regia)
All’aldilà diqua 
Produzione: Dormire Fondazione
Italia, 2020


S’inizia con una goccia che scende verticale, lentamente, lungo la colonna vertebrale di una nudità. Scende con una voce di donna: la voce di quel corpo. Forse la goccia è la voce stessa: contatto intimo con la pelle che vibra. La sua, la nostra. E dentro a quella goccia siamo invitati a esplorare un aldilà di qua che comincia a schiudersi in una sequenza di arazzi animati. La tensione dell’ordito narrativo crea una trama magnifica e finissima di sovrapposizioni. I fili sono parole-suoni, voci-immagini, musiche-colori intrecciati in un lavorio minuzioso della sostanza delle memorie. È il corpo di un uomo, un nonno, che la voce va cercando. Solo una donna ne sapeva la storia e non l’ha mai raccontata, lasciando però la possibilità a un’altra donna, sua nipote, di trovarla. Dentro un cassetto, un giorno, dopo la sua morte, sono così affiorate due lettere spedite dalla Libia nel 1940. Il mittente era suo marito, partito dal porto di Napoli per le terre d’oltremare. Dall’aldilà di qua non sarebbe più tornato: un corpo scomparso a una vedova di guerra in Italia, a chi è venuto dopo, a sua nipote e al nostro inconscio.

Alessandra Cianelli è la nostra voce-guida impressionista, ricercatrice-artista-cronista che ci conduce a cercare suo nonno dentro una “memoria emotiva privata e pubblica”. L’intensità della sua voce rende palpabile la ricchezza di un percorso di ricerca intrapreso da molti anni (denominato Il paese delle terre d’oltremare; cfr. Cianelli 2012-2020) e diventato sintesi visiva in questo cortometraggio dal titolo: All’aldilà diqua; recentemente presentato, in anteprima, alla trentottesima edizione del Torino Film Festival. Il lavoro è co-diretto da Opher Thomson, arrivato dentro questo spazio di ricerca, non a caso, dopo diversi viaggi compiuti attraversando delle assenze, frequentando delle distanze (cfr. Thomson, 2018), esplorando degli spazi marginali (cfr. ibidem, 2017) quanto più significativi a interrogare la contemporaneità.  Con loro ci ritroviamo a Napoli, nel corpo metropolitano della città, dentro i resti del complesso coloniale, futurista, fascista della “mostra triennale delle terre italiane d’oltremare”. Costruito tra il 1938 e il 1940 “per chi doveva conoscere e desiderare quel pezzo d’Italia fuori dall’Italia”; luogo-soglia prescelto per esplorare l’aldilà di qua dove la memoria collettiva scolorita si sovrappone a quella autobiografica tra i rovi, le cartilagini, i segmenti ossei di “un impero del futuro” che non ha mai smesso di cadere a pezzi. La voce di Alessandra Cianelli ci conduce per mano

“…Dall’antica porta di Medina, porta scomparsa che appoggiava un fianco alle mura aragonesi mangiate a loro volta dalla stazione della cumana di Montesanto, attraverso la quarta sponda bordeggiamo il bosco di eucalipti con le rovine velate delle inferriate della chiesa copta, entriamo nel paese delle terre d’oltremare tra pavoni timidi, riproduzioni di palazzi moreschi in rovina…”.

Gli arazzi-immagini che si susseguono nel condurci dentro il complesso coloniale sono attraversati da prismi di colori, si compongono di vegetazioni tropicali che si ergono tra le rovine, sono archivi di verde e macerie. Li vediamo offuscati, a tratti, come qualcosa che la memoria non riesce a mettere a fuoco. Sul grigio di un cancello arrugginito distinguiamo la parola “Libia”. A terra, tra piume mosse dal vento e formiche brulicanti, un uovo non ancora dischiuso: premonizione. Tra punte di agavi e avamposti aperti da impalcature crollate, guardando pareti che diventano schermi cinematografici e spostando cancelli divelti, iniziamo a sentire i versi di quello che fu uno zoo umano coloniale. Il suo orrore, la sua violenza. Basti, a riassumerne la brutalità, questo passaggio letto dalla voce-guida, riemerso da un libro polveroso, stralcio di un’orazione alla Camera dei deputati di un presidente del consiglio italiano:

“Quando i mari ci saranno chiusi e avremo bisogno dei mercati stranieri dovremo ricorrere alle armi per poterceli aprire, l’Africa vi sfugge, le colonie sono una necessità della vita moderna. Noi cominciamo oggi, siamo a Massaua e ci resteremo. Nell’Africa noi esercitiamo una missione di civiltà, questa missione appartiene all’Italia”.

Il complesso coloniale è un luogo-soglia mutatosi nel tempo dentro la storia individuale-collettiva, ci racconta l’esploratrice, ricordando quando, negli anni Settanta, visitava con suo padre ciò che rimaneva accessibile della mostra, rinominata “mostra d’oltremare”. C’erano

“…ruote panoramiche, selvaggio west e navi dei pirati. Lo zoo esponeva ancora le sue terrificanti-meravigliose belve selvagge nelle scenografie di film Peplum. Non sapevo, a quel tempo (…) che quella strana città cresceva, dentro di sé, nell’oscurità di una giungla involontaria, le rovine di un’altra città, scandalosa ombra”.

Dentro quell’ombra scandalosa iniziamo a vedere più da vicino il corpo di quell’uomo scomparso che stiamo cercando. Si trova in quell’Africa che non doveva “sfuggire” all’imperialismo italiano. Ci racconta di una Libia dove cadono le bombe e lui mangia sabbia nel vento forte, beve acqua salata. Soldato, si era imbarcato al porto di Napoli, diretto a Tripoli. Era partito a maggio dall’Irpinia quando il grano era “alto come il mare e pronto per essere raccolto”. Squarcio non di poco conto, paesaggio rurale dal quale si emigrava, tutto da indagare ancora nei suoi sconquassi.
Si disserrano mixaggi vorticosi di suoni, zampillando dettagli dell’oblio, ancora tracce da seguire, mentre l’edera del complesso coloniale cresce di due millimetri lungo i fotogrammi e sulla nostra pelle.

Il complesso cade a pezzi, ma non perché il suo futuro non viva ancora integro in nuove architetture e in quanti altri all’aldilà di qua. Infatti, mentre tiene strette le lettere del nonno scomparso, ritroviamo la nostra narratrice cercare qualcosa nei tumulti delle primavere arabe. È la rivoluzione del 2011 nelle terre d’oltremare ad aver dischiuso per lei, ancor più della morte della nonna, il racconto familiare oscurato, gli “archivi nascosti di suoni e parole”. Non a caso, perché la storia viva dei corpi in tumulto, e dei morti senza nome, tesse l’ordito collettivo di tempo nei tempi, rinvenendo legami, connessioni, omissioni, dimenticanze: rivelazioni.
Prima della conclusione impariamo il nome e cognome di quell’uomo partito dall’Irpinia: Saverio Rossi. Dentro un’acqua che si muove lentamente trascinando foglie cadute, nella quale riappare una nudità fusa con la corteccia di un albero e non più una goccia, ma una cascata d’acqua sembra attraversarla; emerge dal passato, la registrazione del ruggito sofferente, doloroso, rabbioso, straziante di leoni in gabbia: sembrano gli ultimi rantoli prima di una morte, nelle convulsioni di una lotta. Sembra anche il corpo del nonno mentre scompare. Il verso si spegne nel silenzio. Toccante.

Un corpo scomparso è un archivio scomparso, ricorda la voce. Sentiamo il dolore di questa scomparsa, seguiamo Alessandra Cianelli mentre ne scandisce la dissoluzione: “Nonno è andato”, “nonno è morto”. Lasciando, alla fine, solo una parola sospesa nel suono di onde marine: “Nonno”.
Questo lavoro ci suggerisce l’importanza del trovare per riconoscere e, quindi, del cercare per rivelare. Sottolinea che non c’è un all’aldilà senza un di qua nel colonialismo come nelle migrazioni. Cercando i resti del nonno, cerchiamo anche i resti di quegli “indigeni” “pittoreschi” portati a “performare l’altrove” nel complesso fascista di Napoli, nello zoo umano del desiderio coloniale. Cerchiamo il loro oblio e l’oblio degli altri scomparsi di ieri, di oggi; proviamo a elaborare il lutto della loro mancata sepoltura, componiamo archivi dove liberare le presenze degli assenti perché continuino a parlarci o lasciarci messaggi da leggere al risveglio.
E così, magari, iniziamo a scorgere un’altra donna che sta cercando qualcuno, mentre una goccia le scende verticale lungo la schiena. Si trova nel di qua di un all’aldilà. Forse dalla finestra vede le rovine di un’architettura coloniale in un vento sabbioso. Anche suo nonno è partito per delle terre d’oltremare e ha salutato il grano, alto come il mare, che doveva essere raccolto.

È entrato in un altro mare da un porto senza nome che si faticherà a trovare in una mappa. Forse dalla Libia. Doveva attraversare quella sostanza liquida nella quale si può scomparire in un istante o in una lenta consumazione. Aveva chiesto aiuto, nessuno l’aveva sentito o aveva voluto sentirlo. Il suo ruggito di leone in gabbia che esala la vita. Poi il suo silenzio, nel suono di onde marine.

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